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  • Martedì 10 novembre 2020

Cosa c’è intorno a un letto di terapia intensiva

Quali attrezzature e quali figure professionali servono per salvare la vita alle persone ricoverate per il coronavirus

Anestesisti rianimatori durante un turno di notte in terapia intensiva (Antonio Masiello/Getty Images)
Anestesisti rianimatori durante un turno di notte in terapia intensiva (Antonio Masiello/Getty Images)

Negli ultimi mesi ci sono alcune parole che sono entrate nel lessico comune di molte discussioni sul coronavirus. Una di queste è “terapia intensiva”. Il numero di pazienti ricoverati in gravi condizioni, infatti, è uno dei segnali più importanti per capire a che punto è l’epidemia. Ma i reparti di rianimazione, parola che in Italia è sinonimo di terapia intensiva, non si prendono cura solo dei malati di COVID-19. Spesso lo si dimentica a causa del flusso costante di notizie che parlano del coronavirus, ma è bene ricordare che nelle terapie intensive degli ospedali italiani ci sono migliaia di altri pazienti.

Abbiamo cercato di capire cosa c’è attorno a un letto di terapia intensiva, soprattutto chi si occupa dei pazienti e come è cambiato il lavoro di medici e infermieri da marzo a oggi.

Una persona deve essere ricoverata in terapia intensiva quando le sue funzioni vitali sono gravemente compromesse: se non venisse sottoposta a cure intensive, rischierebbe di morire in pochi giorni o, nei casi più gravi, in poche ore. Il ricovero nel reparto di rianimazione garantisce un sostegno clinico molto particolare, 24 ore su 24, e che non può essere assicurato in altri reparti. Significa che all’interno di una terapia intensiva si concentrano gli sforzi professionali e tecnologici dell’ospedale, con l’obiettivo di mantenere in vita i pazienti attraverso il mantenimento delle loro funzioni vitali, come la funzione dei polmoni, del cuore, dei reni e degli altri organi del corpo, necessari alla sopravvivenza.

L’epidemia da coronavirus ha portato le terapie intensive al centro dell’attività ospedaliera. Sono stati aggiunti letti per rispondere all’ingente flusso di pazienti. Sono stati assunti operatori sanitari e in molti ospedali – soprattutto in Lombardia, Veneto e Piemonte – sono stati impiegati anche i medici specializzandi. Sono stati potenziati gli impianti che portano l’ossigeno agli strumenti utilizzati per far respirare i malati. Investimenti straordinari per affrontare una malattia non ordinaria.

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Ogni volta che un anestesista rianimatore oltrepassa le porte della terapia intensiva sa che un errore può determinare la vita o la morte di un paziente. È difficile paragonare un livello di stress così elevato a quello di molte altre professioni. Negli ultimi mesi l’incessante arrivo di pazienti in gravi condizioni ha causato un aumento significativo di lavoro e un notevole impatto emotivo su medici e infermieri.

A causa dei limiti di molti dei dati diffusi ogni giorno, non è possibile sapere quante persone sono entrate davvero in terapia intensiva dall’inizio dell’epidemia ad oggi. Conosciamo solo il numero dei pazienti attualmente ricoverati: secondo l’ultimo aggiornamento pubblicato dalla Protezione civile sono 2.849. Il picco è stato registrato lo scorso 3 aprile con 4.068 persone ricoverate. Dal 20 febbraio, giorno del ricovero del “paziente 1” – un 38enne di Codogno, in provincia di Lodi -, è cambiato tutto: dalla vestizione del personale fino ai farmaci utilizzati per combattere le conseguenze del COVID-19.

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Partiamo proprio dalla vestizione. Può sembrare un dettaglio di poco conto, invece è una fase molto importante, perché il rischio contagio è elevato e può essere scongiurato solo con i dispositivi di protezione individuale. Sopra il classico camice di cotone deve essere indossato un camice impermeabile chirurgico, con i lacci di chiusura sulla schiena. I guanti spesso vengono fissati con nastro adesivo per farli aderire al camice. Sul volto, c’è la mascherina FFP2 e la visiera trasparente.

Un operatore sanitario indossa i dispositivi di protezione prima di entrare in rianimazione (Michele Lapini/Getty Images)

Ogni ospedale ha una sua organizzazione, ma i turni di solito coprono tre fasi della giornata: dalle 8 alle 14, dalle 14 alle 22 e, il turno di notte, dalle 22 alle 8. Il carico di lavoro è tale per cui questi orari, però, rimangono solo sulla carta. Tra un turno e l’altro c’è il passaggio di consegne tra i medici che finiscono il turno e quelli che iniziano a lavorare. Dura circa un’ora, anche se il tempo dipende dalle condizioni dei pazienti ricoverati. Quando un caso è molto complesso, il passaggio può durare molto perché la comunicazione tra colleghi è importante per consentire di prendere decisioni più consapevoli.

Non esiste un rapporto fisso tra numero di rianimatori e pazienti. Può variare da uno a quattro, cioè un rianimatore che monitora quattro pazienti, a uno a dodici nel caso dei turni di notte. Non può variare, invece, il rapporto tra numero di infermieri e malati: deve essere sempre di uno a due nel caso di pazienti critici, cioè un infermiere ogni due pazienti. Nel reparto di terapia intensiva, infatti, il lavoro dell’infermiere è essenziale, perché i malati sono spesso incoscienti e hanno bisogno di un’assistenza continua.

Da marzo, in molti ospedali italiani l’organizzazione ha subìto forti modifiche. Per rispondere all’emergenza, gli ospedali hanno spostato molti medici e infermieri dagli altri reparti alla terapia intensiva. Non tutti hanno le competenze per affrontare questo tipo di lavoro così particolare e delicato, e quindi i primi ad essere trasferiti sono stati gli operatori che in passato avevano già lavorato in rianimazione. Poi è toccato a medici e infermieri che hanno conseguito un master in terapia intensiva e che però lavoravano in altri reparti. Rispetto a tutte le altre aree dell’ospedale, chi lavora in terapia intensiva deve conoscere il funzionamento della complessa strumentazione che assiste le funzioni vitali. Gli studi, e poi l’esperienza in reparto, aiutano medici e infermieri a valutare nel più breve tempo possibile un cambiamento delle condizioni di salute del paziente e a intervenire immediatamente.

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Negli ultimi mesi l’aiuto è arrivato in gran parte da chi lavora in sala operatoria, dove le condizioni del paziente – sedato profondamente e sottoposto a ventilazione meccanica – sono simili a quelle che si affrontano in terapia intensiva. Questo è il motivo principale che ha portato gli ospedali a rinviare molti interventi programmati: è uno dei danni collaterali più sottovalutati di questa epidemia, che potrebbe causare gravi ritardi nella cura di moltissime persone affette da altre patologie.

Durante il primo giro di visite vengono controllate le condizioni dei pazienti ed è importante osservare i dati visualizzati sullo schermo che viene posizionato accanto ad ogni letto. Diversi software, infatti, raccolgono ed elaborano le informazioni attraverso i sensori dei macchinari che assistono i pazienti nella funzione vitale compromessa.

La postazione di monitoraggio in terapia intensiva all’ospedale Maggiore di Bologna (Michele Lapini/Getty Images)

I rianimatori monitorano quello che viene chiamato “scambio di gas”. Lo fanno attraverso un esame chiamato “emogasanalisi” o semplicemente “emogas”: questo esame serve per capire quanto ossigeno e quanta anidride carbonica circolano nel sangue del paziente. Insomma, da questa analisi si può capire se i polmoni funzionano.

Per curare le forme gravi di COVID-19, lo strumento più utilizzato è il ventilatore, cioè una macchina che respira al posto del malato. Un ventilatore meccanico porta una miscela di ossigeno e altri gas nei polmoni, e poi la riporta fuori. L’intubazione è l’opzione più invasiva: serve per sostituire quasi completamente la respirazione.

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Il ventilatore deve essere calibrato con molta attenzione per non danneggiare i tessuti del polmone con un’eccessiva pressione. I modelli più sofisticati riescono a regolare costantemente l’apporto di aria attraverso algoritmi che processano i dati in arrivo dai sensori. Periodicamente, i medici devono controllare lo stato di salute dei polmoni con una TAC del torace, ma spostare pazienti così fragili è un’operazione complessa.

I malati in gravi condizioni sono sottoposti a un’anestesia molto potente per consentire al corpo di consumare meno energia possibile. I pazienti devono dormire sempre perché altrimenti il loro cervello “direbbe” al corpo di respirare di più e in quel caso i polmoni non riuscirebbero a sostenere lo sforzo. I malati sono incoscienti e immobili, dipendono completamente da medici e infermieri.

L’indicazione sul tipo di anestesia viene data dopo un approfondito esame che serve per analizzare eventuali allergie o malattie. L’utilizzo dei farmaci come sedativi e analgesici deve essere studiato nei dettagli e varia anche a seconda della durata del ricovero: nelle somministrazioni a lungo termine, infatti, vanno considerati gli eventuali effetti della tolleranza ai farmaci, l’instaurarsi della dipendenza e il rischio di astinenza dopo la sospensione dell’anestesia.

Per curare il COVID-19 vengono utilizzati anche alcuni farmaci come il cortisone, ma molto dipende dalle condizioni del singolo paziente. Altri farmaci – antidolorifici, antibiotici e antimicotici, oppioidi – sono importanti per ridurre rischi e possibili conseguenze della lunga ospedalizzazione. Durante il ricovero su un letto di terapia intensiva, inoltre, una persona può perdere fino al 50% della massa muscolare, quindi sono necessarie sessioni di fisioterapia passiva per evitare il blocco delle articolazioni e il mantenimento dei muscoli.

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Quando le condizioni migliorano, i polmoni iniziano a funzionare abbastanza per rendere inutile l’aiuto del ventilatore: a quel punto si riduce piano piano il lavoro del ventilatore e i pazienti iniziano a respirare da soli. Questo processo può durare anche giorni o settimane; quando i pazienti sono sufficientemente autonomi dal punto di vista respiratorio, vengono estubati e riprendono a respirare in modo naturale.

Più tempo si rimane in rianimazione e più aumentano le possibilità di complicanze. Lo stesso processo di intubazione blocca la tosse, e quindi la funzione di filtro dei polmoni è limitata: a causa di queste condizioni si possono sviluppare polmoniti batteriche che possono manifestarsi insieme al COVID-19. Lo stesso succede per l’influenza. Ma questi pericoli in terapia intensiva valgono anche per tutte le altre patologie che richiedono l’utilizzo dei ventilatori: in questi casi il rischio di morire è più alto.

La terapia intensiva dell’ospedale Maggiore di Bologna (Michele Lapini/Getty Images)

Ma non ci sono solo i polmoni. Il COVID-19 può causare danni anche ad altri organi: in presenza di insufficienza renale grave, per esempio, i pazienti devono essere sottoposti a dialisi. Anche l’apparato cardiocircolatorio, strettamente collegato ai polmoni, può avere bisogno di supporto. I malati possono essere messi in “circolazione extracorporea” attraverso un macchinario che si chiama ECMO (ExtraCorporeal Membrane Oxygenation), viene impiegato nei casi più gravi e non si può utilizzare con tutti i pazienti perché è uno strumento molto complesso con un fattore di rischio.

Tutte le cure e gli aggiornamenti sullo stato di salute vengono documentati tre volte al giorno. In più vengono discussi giornalmente i programmi dei giorni successivi di tutti i pazienti, per esempio quando un paziente è pronto per iniziare a respirare da solo, o se ha necessità di essere spostato per fare un esame più specialistico, come una TAC del torace. Tutti questi passaggi sono contenuti nella cartella clinica del paziente.

Al momento in Italia non esiste un protocollo che dà agli anestesisti rianimatori direttive precise di intervento: ogni caso viene esaminato e valutato direttamente dal medico, che ha il peso professionale, legale, etico e morale delle decisioni.

All’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, per esempio, nel mese di marzo il flusso di pazienti è stato così alto che i medici – per loro stessa ammissione – hanno dovuto fare scelte molto difficili. In quelle settimane, infatti, nel reparto di terapia intensiva si trovavano 94 persone, tutte intubate. Ma anche in questa seconda ondata dell’epidemia, nonostante i mesi passati da marzo e aprile, in tutta Italia molti ospedali sono in difficoltà e le terapie intensive si stanno riempiendo di malati in gravi condizioni.