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  • Venerdì 6 novembre 2020

In Piemonte gli ospedali non sanno dove mettere i pazienti

È una delle regioni che più stanno soffrendo la seconda ondata dell'epidemia: abbiamo sentito operatori e dirigenti sanitari per capire come può evolvere la situazione

di Isaia Invernizzi

Il pronto soccorso dell'ospedale di Rivoli (ANSA/ ALESSANDRO DI MARCO)
Il pronto soccorso dell'ospedale di Rivoli (ANSA/ ALESSANDRO DI MARCO)

Ieri nella palestra nel reparto di fisiatria dell’ospedale Mauriziano di Torino sono stati portati nuovi letti per accogliere i pazienti positivi al coronavirus. Non è stato facile trovare né i letti né gli spazi. La palestra era uno degli ultimi angoli liberi dell’ospedale. Nei giorni scorsi il centro prelievi e il day hospital sono stati riconvertiti a reparti per i malati di Covid-19. I tecnici stanno cercando di capire se nel cortile interno o nei giardini c’è spazio per posare moduli prefabbricati da otto letti ciascuno. Il direttore generale Maurizio Dall’Acqua sta valutando di chiedere aiuto alla protezione civile o all’esercito per allestire un ospedale da campo.

Il Mauriziano non è il solo ospedale a essere in difficoltà. A Torino il sistema sanitario è al collasso. Una parola – collasso – che di solito va usata con cautela e che però descrive in modo fedele quello che sta succedendo nel capoluogo.

La situazione in città è precipitata martedì con la chiusura del pronto soccorso dell’ospedale Martini, che la regione ha trasformato in Covid Hospital, cioè in un ospedale dedicato esclusivamente alla cura dei malati di Covid-19. Le ambulanze sono state dirottate negli altri ospedali, che hanno visto aumentare gli ingressi improvvisamente. Il Mauriziano è quello più sotto pressione, ma per tutti è diventato difficile gestire l’accoglienza dei pazienti, costretti ad attendere ore in barella prima di essere ricoverati. L’unica soluzione è trasferire i malati in provincia. Solo nella giornata di mercoledì l’ospedale di Tortona – in provincia di Alessandria, 100 chilometri a est di Torino – ha ricevuto 102 pazienti in arrivo dalla città.

Ma quello che sta succedendo a Torino è lo specchio di un’intera regione in difficoltà. Il contact tracing – per stessa ammissione dell’assessore regionale alla Sanità Luigi Icardi, come riportato dal Corriere Torino – non riesce a tracciare il 90% dei contatti stretti di positivi accertati. Già da una settimana i tamponi vengono eseguiti solo a chi accusa sintomi e non ai contatti stretti. I medici di famiglia riescono con fatica a gestire le migliaia di chiamate dei loro pazienti. Insomma, in Piemonte la gravità della seconda ondata si sta avvicinando velocemente a quella della prima.

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Il numero di nuovi contagiati viene aggiornato a un ritmo di oltre tremila ogni giorno. A preoccupare, però, è soprattutto la saturazione dei posti in terapia intensiva dove secondo gli ultimi dati sono ricoverate 249 persone. I posti disponibili in totale sono 575, quindi il tasso di occupazione è arrivato a 43,3%, oltre la soglia di allerta del 30% indicata dall’istituto superiore di sanità. Nell’ultima settimana sono aumentati anche i decessi, 39 registrati solo giovedì. Durante tutto il mese di ottobre non era mai stato superato il limite di 20 morti al giorno.

Per tutti questi motivi il governo ha inserito la regione nell’area “rossa”, che prevede forti limitazioni: gli spostamenti sono consentiti solo all’interno del proprio comune di residenza, e dovranno essere limitati alle attività strettamente necessarie, altrimenti è obbligatorio rimanere in casa.

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I numeri e gli indicatori, però, sono troppo freddi per capire davvero cosa sta succedendo negli ospedali. Al Mauriziano, per esempio, i pazienti Covid-19 non si contano più. Erano 200 due giorni fa: 11 in terapia intensiva e circa 50 in semi intensiva. Ogni giorno la direttrice sanitaria Maria Carmen Azzolina chiede aiuto al DIRMEI, il dipartimento interaziendale malattie ed emergenze infettive, che ha il compito di gestire l’emergenza sanitaria in Piemonte. La direttrice spera che strutture come le Rsa aprano le porte per accogliere i pazienti meno gravi. È l’unico modo per liberare posti nei reparti e destinarli così alle persone in condizioni critiche. «Siamo messi malissimo – ha spiegato – e non sappiamo più che spazi usare. Ci sono rimaste la chiesa e la mensa».

Pronto soccorso rivoli

L’ambulanza porta un paziente al pronto soccorso dell’ospedale di Rivoli (ANSA/ ALESSANDRO DI MARCO)

Il direttore generale Maurizio Dall’Acqua teme di non riuscire a garantire la distinzione netta tra percorsi interni “sporchi”, cioè dove passano i malati di Covid-19, e “puliti”, dedicati a tutti gli altri pazienti. Aggettivi che sono entrati nella quotidianità di tutti gli ospedali italiani. In questa fase, infatti, un focolaio in qualsiasi reparto avrebbe conseguenze drammatiche e quindi la priorità è evitare la trasmissione del contagio. «Ci sono gli infarti, gli ictus, gli aneurismi all’aorta, tutte le altre urgenze. Anche loro hanno diritto di essere curati. Purtroppo quando la gente è ammassata nei corridoi c’è il rischio che chi non ha il Covid-19 se lo prenda» – ha spiegato il direttore generale Dall’Acqua.

Più dei numeri e delle testimonianze è stata una fotografia a rivelare la gravità della situazione. L’ha postata su Instagram Pietro Izzo, un cittadino che abita a Torino, vicino al quartiere San Salvario. Martedì sera Pietro ha visto le pareti del suo appartamento colorarsi di blu. Si è affacciato alla finestra e ha notato una fila di dieci ambulanze con i lampeggianti accesi. «Dieci ambulanze in coda sotto casa», ha scritto nel post: «Senza sirena, quindi vuote (spero) e in procinto di tornare al deposito».

 

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Un post condiviso da Pietro Izzo (@pietroizzo) in data:

Le ambulanze non stavano tornando in deposito, ma trasportavano dieci pazienti dal Mauriziano all’ospedale di Tortona. Nel giro di poco tempo la foto, che ricordava le immagini di marzo e aprile in Lombardia, è diventata virale. Così come virale, giovedì, è diventato un altro scatto che ritraeva due pazienti su barelle appoggiate a terra nel corridoio del pronto soccorso all’interno dell’ospedale di Rivoli.

Il Nursing Up, sindacato degli infermieri e delle professioni sanitarie, ha chiesto alla regione di porre «immediato rimedio a questa situazione che potrebbe mettere a rischio la possibilità di fornire adeguate cure». L’ASL Torino 3 ha chiarito che a Rivoli è stato un caso straordinario ed estemporaneo. «Tutti i pazienti sono stati accolti e curati. Nessun paziente ha dovuto attendere in ambulanza o è stato rimandato indietro causa assenza di posti».

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Per cercare di far calare la pressione sugli ospedali, la regione ha approvato una nuova strategia con tre obiettivi. Il primo: il test antigenico, cioè il tampone rapido che rileva il materiale genetico del coronavirus, verrà eseguito prima del tampone molecolare. Quest’ultimo servirà solo ad accertare la positività. In questo modo diminuirà il numero di test che i laboratori devono analizzare ogni giorno, quindi i tempi di risposta alle richieste dei cittadini dovrebbero essere più rapidi.

Secondo obiettivo: il 118 dovrà fare un triage più selettivo per evitare che tutti i pazienti malati vengano portati in pronto soccorso. Il triage è una valutazione rapida della condizione clinica dei pazienti e della possibilità che diventino gravi.

Il terzo obiettivo è un potenziamento delle USCA, le Unità speciali di continuità assistenziale, cioè squadre di medici e infermieri che curano i pazienti a casa anche con l’utilizzo di bombole d’ossigeno.

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Gli effetti di questa strategia, però, si inizieranno a vedere solo tra un paio di settimane. Quindici giorni che secondo Mario Raviolo, direttore del dipartimento 118 della regione Piemonte e dell’unità di crisi, saranno «drammatici». «La situazione è pesantissima e rischia di peggiorare molto anche se stiamo facendo tutto il possibile» – ha spiegato. Secondo Raviolo la prossima soluzione sarà richiamare al lavoro gli operatori sanitari positivi, ma asintomatici. «In questo momento l’assenza di centinaia di lavoratori degli ospedali è il problema cruciale. Molti sono positivi e asintomatici, ma non possono lavorare».

L’ondata del virus, però, non si sta abbattendo solo sugli ospedali. Anche i medici di famiglia sono in difficoltà. Ogni giorno aumentano le richieste d’aiuto dei loro assistiti. È diventato quasi impossibile rispondere in breve tempo, quindi spesso le persone preferiscono chiamare il 118 anche se le loro condizioni non sono così preoccupanti. È l’effetto della paura, che i medici di famiglia stanno cercando di limitare in tutti i modi.

Roberto Venesia, segretario regionale della Fimmg, il maggior sindacato dei medici di medicina generale, lavora a Borgofranco di Ivrea, a pochi chilometri dal confine con la Valle d’Aosta. «Ai primi sintomi le persone si terrorizzano – ha spiegato – e quindi ci chiamano o ci scrivono. Io ho 12 pazienti malati che seguo a casa, tre ho dovuto farli ricoverare. Ogni giorno visito 20 persone in studio e ricevo circa 12 telefonate all’ora. I messaggi su WhatsApp non li so contare. Lasciamo perdere le mail, le ho bloccate. Moltiplichiamo tutto questo per i tremila medici del Piemonte e si capisce in che condizioni siamo».

Anche Venesia pensa che la priorità sia tenere la gente a casa, perché molte persone sono malate, ma non hanno bisogno di essere curate in ospedale. Solo così i reparti di pronto soccorso potranno accogliere e gestire al meglio i pazienti davvero critici.

Un rider di Deliveroo in piazza Castello a Torino lo scorso marzo (Marco Alpozzi/LaPresse)

È chiaro che con questi numeri, di fatto, diventa quasi impossibile fare il contact tracing, cioè la ricostruzione della catena di contagio delle persone positive con l’obiettivo di spezzarla mettendo in quarantena i contatti stretti dei contagiati. In Piemonte, da due settimane, non viene più eseguito il tampone ai contatti stretti, ma è stata introdotta quella che viene chiamata “quarantena di coorte”. Le persone prossime al positivo non possono uscire di casa.

Bartolomeo Griglio, responsabile del contact tracing per la regione Piemonte, ha spiegato che «da un lato ci sono ricadute negative perché metto in quarantena persone che forse non sono positive, ma così posso evitare di andare a scovare ogni singola persona. Impegno che in questo momento, con questi numeri, è impossibile da sostenere».

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Negli ultimi giorni è anche iniziata la distribuzione dei primi test rapidi nelle Rsa della città e della provincia di Torino. L’obiettivo è renderle autonome nel monitoraggio di eventuali nuovi casi. I test rapidi possono essere eseguiti dagli operatori, che riescono a verificare l’esito in tempi brevi senza dover inviare il tampone ai laboratori. Un metodo che, nelle intenzioni della regione, sarà esteso anche a tutti gli altri cittadini.

Oggi in tutto il Piemonte vengono eseguiti tra i 16 e i 17 mila tamponi al giorno, con un tasso di positività del 18,8%. Quasi un test su cinque, insomma, è positivo. «Abbiamo fatto scorte ingenti per essere pronti sul lungo periodo», ha detto Fabiano Zanchi, coordinatore della direzione delle professioni sanitarie del DIRMEI. «Se ho 600 tamponi da fare nelle Rsa un conto è far processare 600 test ai laboratori, che hanno in carico anche i test di tutti i cittadini, un altro conto è far verificare solo i tamponi rapidi che risultano positivi».

Un altro passo in avanti è stato fatto dando la possibilità ai medici di famiglia di prenotare direttamente i tamponi. Fino alla settimana scorsa, infatti, i medici dovevano chiedere il test alle ASL creando non pochi problemi di gestione. Ora i medici possono accedere a una piattaforma e prenotare direttamente il test. I pazienti ricevono un sms che indica il giorno in cui presentarsi negli “hot spot” dell’ASL. Al momento, però, sembrano esserci molti intoppi nel sistema di prenotazione.

Oltre alle persone malate, anche i sindaci piemontesi iniziano ad alzare la voce. Elena Piastra, sindaca di Settimo Torinese, è positiva al Covid-19 e in un post su Facebook ha denunciato le inefficienze della gestione dei tamponi: «Continuare in questo modo non è umano, sono passate settimane e la situazione è sempre più ingestibile. È evidente che la gestione degli hot-spot non sta funzionando».

La prossima settimana la regione convocherà la conferenza dei sindaci per fare il punto sul monitoraggio del coronavirus in tutti i comuni.

Il Piemonte, infatti, è tra le poche regioni che ogni giorno pubblica una mappa con i casi totali divisi per comune e l’incidenza ogni mille abitanti. Lo staff di esperti del servizio epidemiologico della regione ha lavorato a un modello di previsione dell’epidemia che tiene conto di diversi parametri nelle singole province e arriva fino al dettaglio comunale.

Il modello monitora cinque indicatori: l’incidenza ogni mille abitanti, la densità della popolazione, il numero di residenti, il trend dell’indice Rt e i dati delle ultime quattro settimane. Proprio come l’istituto superiore di sanità a livello nazionale, la regione sta provando a capire come evolverà l’epidemia.

Ogni sindaco potrà verificare se continuerà la crescita dei contagi nel proprio comune, e quindi valutare misure ancor più restrittive rispetto a quelle previste dall’area rossa decisa con il DPCM. Al contrario, e come previsto dal decreto firmato da Conte, la regione può alleggerire le misure restrittive in alcune aree dove il virus sembra essere sotto controllo. Non è chiaro se questi dati verranno resi pubblici.

L’unica certezza, al momento, è che la situazione in Piemonte è destinata a peggiorare, dentro e fuori dagli ospedali. Il picco di questa seconda ondata, purtroppo, non è ancora stato raggiunto.