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  • Giovedì 22 ottobre 2020

Il contact tracing non funziona più

Il sistema di tracciamento dei contatti dei casi positivi è saltato in molte regioni italiane, e sembra già troppo tardi per fare qualcosa

di Elena Zacchetti

(AP Photo/Luca Bruno)
(AP Photo/Luca Bruno)

Fino alla scorsa settimana molti paesi guardavano all’Italia come a un modello positivo di gestione dell’epidemia da coronavirus. Nonostante la profonda emergenza di marzo-aprile, il governo e le autorità sanitarie italiane sembravano avere preso le decisioni giuste, tenendo basso il numero dei nuovi casi positivi, bloccando rapidamente le catene di contagio e garantendo alla stragrande maggioranza degli ospedali di tornare a operare in regime di normale amministrazione.

Uno dei motivi di questi risultati, dicevano gli epidemiologi, era stato un buon lavoro di tracciamento, di indagine e di isolamento dei focolai. In altre parole eravamo stati più abili nell’individuare i positivi e soprattutto i loro contatti, evitando che contagiassero nuove persone, che a loro volta avrebbero potuto contagiarne altre, e così via: cioè facevamo bene il contact tracing. Oggi non è più così.

Nel giro di pochi giorni, hanno raccontato diversi medici e funzionari locali sentiti dal Post, il sistema di tracciamento dei contatti ha smesso di funzionare, investito dal rapido aumento dei nuovi casi positivi da indagare.

«Oggi, quando un paziente è entrato in contatto con un positivo, sono i medici a mettere in isolamento la persona, non si aspetta più l’autorità sanitaria, che è in ritardo su tutto», ha detto un medico che ha lo studio nella zona sud di Milano. «Il sistema del contact tracing è completamente saltato», ha sostenuto Peppe Russo, medico di famiglia della zona Ponticelli di Napoli, una delle più problematiche della città.

Nelle ultime settimane l’aumento dei positivi è diventato così rapido, e i contatti dei positivi così tanti, che le risorse disponibili per il contact tracing si sono dimostrate insufficienti e inadeguate, nonostante gli investimenti fatti durante l’estate in preparazione della cosiddetta “seconda ondata”.

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In Italia il contact tracing è responsabilità delle aziende sanitarie locali, le ASL, e viene fatto principalmente in due modi: intervistando la persona risultata positiva al coronavirus, ricostruendo i suoi contatti a partire da 48 ore prima e fino a due settimane dopo l’insorgenza dei sintomi o la raccolta del campione; e attraverso l’app Immuni, che permette di ricevere avvisi nel caso in cui si sia entrati in contatto con persone poi risultate positive. Oggi il primo sistema è decisamente preponderante sul secondo, nonostante il secondo attiri più attenzioni del primo.

(AP Photo/Domenico Stinellis, File)

Il contact tracing telefonico viene svolto dai dipartimenti di prevenzione delle aziende sanitarie locali (le ASL), che dalla fine della cosiddetta “prima ondata” e durante l’estate hanno raddoppiato, a volte triplicato, il personale destinato al tracciamento: l’ATS Milano, per esempio, può contare oggi su 150 tracer, un numero tre volte più grande di quello di inizio epidemia. È difficile dire con precisione quanti tracer ci siano oggi in Italia. Secondo un report di monitoraggio settimanale dell’Istituto superiore di sanità, riservato e visto a metà ottobre dal Sole 24 Ore, i tracer sarebbero 9.241. Il ministero della Salute, contattato dal Post, ha detto di non essere in grado di elaborare la richiesta e comunicare un numero preciso in tempi brevi.

I tracer sono medici e personale infermieristico in parte nuovi assunti, ma per lo più arrivati a seguito di riorganizzazioni interne delle aziende sanitarie, con una breve formazione e quasi sempre un periodo di affiancamento a qualcuno di più esperto. «È un’attività che richiede la capacità di fare domande mirate, di approfondire. Non è un call center», ha spiegato Vittorio Demicheli, direttore sanitario dell’ATS Milano, l’Agenzia di tutela della salute della città (l’equivalente di quelle che in altre regioni si chiamano ASL).

«Oggi fare il contact tracing è molto complicato», ha detto Bartolomeo Griglio, responsabile del contact tracing per la regione Piemonte. «Durante il lockdown ogni caso positivo aveva 3-4 contatti, oggi questo numero è salito a 30-40. I casi più complicati sono quelli che richiedono una ricerca attiva. Se per esempio una persona poi risultata positiva va in palestra e il gestore ha tutti i nomi di chi era presente in palestra quel giorno e a quell’ora, è tutto più facile. Se non li ha, ci sono da fare parecchie indagini, che portano via tempo».

La situazione è difficile anche in Campania, la regione del Sud Italia che sta registrando il numero più alto di nuovi casi giornalieri per 100mila abitanti. Stefano Pisani, sindaco di Pollica e delegato di ANCI Campania nell’Unità di crisi che la Regione Campania ha messo in piedi per contenere l’epidemia, ha parlato di una situazione di «grande affanno» per i dipartimenti di prevenzione delle ASL campane, «perché un conto era fare contact tracing quando i numeri erano contenuti, un altro è farlo ora».

Secondo Demicheli, direttore sanitario di ATS Milano, il sistema del contact tracing ha retto fino alla riapertura delle scuole (a metà settembre in Lombardia, come nella maggior parte delle regioni): «Il tempo medio di una telefonata a un caso scolastico [uno studente risultato positivo] è all’incirca di tre ore. Gli studenti hanno una vita sociale molto intensa – sia a scuola che fuori – e tracciare tutti i contatti è molto complicato, e molto lungo».

Il tracciamento di casi scolastici si è rivelato un grosso collo di bottiglia per parecchie aziende sanitarie locali: a metà ottobre, nel giro di una sola settimana, ATS Milano aveva messo in quarantena ben 3mila persone legate alla positività di soli 185 casi scolastici. Descrivendo la situazione attuale, Demicheli ha detto: «Non riusciamo a tracciare tutti i contagi, a mettere noi attivamente in isolamento le persone».

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Le aziende sanitarie locali sembrano inoltre fare molto poco affidamento su Immuni, che nei piani dei suoi ideatori e sviluppatori doveva essere uno strumento per potenziare il tracciamento dei contatti dei positivi.

Un grosso problema di Immuni, ma non l’unico, è la diffidenza che molti governi regionali hanno espresso nei suoi confronti. Il caso più eclatante è stato quello del Veneto, dove gli operatori delle ASL – che in Veneto si chiamano AULSS – non erano stati preparati e attrezzati a caricare sull’apposita piattaforma i codici degli utenti risultati positivi al tampone, procedura che fa scattare automaticamente la segnalazione ai contatti.

Il Veneto ha spiegato di non essere d’accordo con la definizione di “contatto stretto” di Immuni – stabilita dal ministero della Salute – considerandola troppo stringente rispetto al protocollo applicato dalle ASL nelle loro normali indagini epidemiologiche. Altre regioni non ne hanno incentivato l’utilizzo, e diversi presidenti hanno sostenuto di non averla nemmeno scaricata (Luca Zaia del Veneto, Nello Musumeci della Sicilia, Francesco Acquaroli delle Marche).

Un altro grosso problema – in parte conseguente al primo – è che l’app è stata scaricata da un numero di persone inferiore a quello che il ministero della Salute aveva indicato come soglia minima per garantirne l’efficacia: se molte più persone avessero scaricato Immuni, le ASL sarebbero state sollevate da un pezzo del loro attuale lavoro di tracciamento dei contatti, cioè quello della ricerca attiva. «A quel punto le ASL avrebbero dovuto solo valutare i casi segnalati da Immuni, capire in che momento e in che situazione era avvenuto il contatto col positivo, se si era di fronte a un contatto stretto, con obbligo di quarantena, o a un contatto casuale; ma almeno non avrebbero dovuto fare la ricerca diretta e attiva dei contatti», ha spiegato Griglio, responsabile del contact tracing del Piemonte.

Negli ultimi mesi sono emersi altri problemi nell’utilizzo di Immuni, soprattutto di natura tecnica. Il meccanismo di comunicazione e inserimento del codice alfanumerico generato dall’app, quello da riferire all’ASL in caso di tampone positivo, è stato definito «farraginoso» e «molto complicato» da diverse persone sentite dal Post. Sono state sottolineate: la difficoltà di usare due piattaforme diverse per l’inserimento dei dati dei positivi – una regionale per le indagini telefoniche e una nazionale per i codici di Immuni; le scarse competenze tra i tracer delle ASL nella gestione dei dati di Immuni; la lentezza dell’intero processo di intervista e comunicazione del codice, soprattutto nei casi in cui l’utente non si è dimostrato troppo abile a muoversi con l’app.

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Al di là del numero limitato di tracer e delle difficoltà di Immuni, c’è un’altra cosa molto importante da considerare, per capire come sia stato possibile arrivare al collasso del sistema di tracciamento già a questo punto della “seconda ondata”: cioè che il contact tracing non opera in un compartimento stagno, separato e autonomo da tutto il resto; dipende da altre cose, soprattutto dalla capacità in un territorio di fare rapidamente i tamponi e individuare nel giro di pochissimi giorni i positivi.

(AP Photo/Luca Bruno)

Per dirla semplice: un sistema di contact tracing può funzionare benissimo ma risultare inutile se per avere il risultato di un tampone ci si mette più di una settimana. Significa infatti che i contatti della persona positiva non sanno di essere contatti – e non si mettono in isolamento – per diversi giorni, durante i quali potrebbero contagiare altre persone.

Peppe Russo, medico di famiglia di Napoli, ha raccontato che alcuni suoi pazienti stanno aspettando da dieci giorni di fare il tampone, con i tempi di attesa che si sono progressivamente allungati nelle ultime settimane. In situazioni simili ci sono diverse altre città italiane, soprattutto quelle che stanno facendo registrare gli aumenti maggiori di nuovi casi giornalieri.

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Di fronte al collasso del contact tracing, nell’ultima settimana politici e autorità sanitarie hanno iniziato a prendere contromisure, senza però l’ambizione di rimettere in piedi un sistema che arrivati a questo punto – e con questi numeri in rapido aumento – non è più aggiustabile.

Alcune regioni, come la Campania, stanno insistendo sull’assunzione di nuovi tracer. Altri ritengono che più di così il contact tracing non possa fare. Secondo Demicheli, dell’ATS di Milano, aumentare il numero di tracer sarebbe praticamente inutile, a fronte di un aumento così elevato dei nuovi casi giornalieri (in provincia di Milano si è passati dai 1.054 nuovi casi di martedì ai 1.858 di mercoledì: un aumento del 76,3 per cento in sole 24 ore).

Per questo Demicheli ha detto che i piani di rafforzamento del contact tracing della sua ATS non passano per nuove assunzioni di tracer, ma per il miglioramento di strumenti tecnologici già esistenti, che permettano per esempio di rendere più rapida la prenotazione dei tamponi e l’invio dell’esito dei test, e di facilitare la comunicazione di eventuali contatti tra studenti.

Anche la Regione Liguria sembra intenzionata a percorrere altre strade. Alessandro Bonsignore, presidente dell’Ordine dei Medici e degli Odontoiatri della provincia di Genova, e consulente nelle decisioni prese dalla Regione, ha detto che non c’è oggi l’intenzione di rafforzare il contact tracing: «Quando si hanno questi numeri, il contact tracing non può essere né efficace né efficiente». La priorità, ha detto Bonsignore, è di fare più rapidamente i test – e qualcosa già è stato fatto la scorsa settimana – e di predisporre strutture dove ospitare i malati di COVID-19 che non hanno più necessità di rimanere ricoverati in ospedale: «C’è la necessità di fare un rapido turnover, in modo da gravare il meno possibile sugli ospedali ed evitare il loro collasso».

Una strada ancora diversa è seguita da circa una settimana dal Piemonte, dove oggi sono attivi circa 600 tracer e con piani di ulteriori potenziamenti.

Non potendo garantire un’attività efficace di contact tracing a causa dei numeri in rapido aumento, le autorità sanitarie piemontesi hanno iniziato a tracciare solo i contatti dei positivi sintomatici, più facili da individuare rispetto agli asintomatici. Un alleggerimento del bacino di persone su cui fare contact tracing – ha sottolineato Griglio, responsabile del contact tracing in Piemonte – era suggerito anche dallo “Scenario 3” previsto nel documento “Prevenzione e risposta a COVID-19”, cioè lo scenario in cui sembra trovarsi oggi l’Italia: il documento era stato pubblicato lo scorso 12 ottobre dal ministero della Salute, dall’Istituto Superiore di Sanità e da altre istituzioni sanitarie, e lo “Scenario 3” era riferito a una «situazione di trasmissibilità sostenuta e diffusa con rischi di tenuta del sistema sanitario nel medio periodo».

È praticamente impossibile fare una stima precisa su quanti tracer sarebbero necessari oggi per tracciare i contatti dei nuovi positivi, per diversi motivi: tra gli altri, l’aumento dei nuovi positivi è maggiore ogni giorno che passa e la stessa attività di contact tracing dipende moltissimo dal tipo di casi indagati e dalla rapidità con cui si ricostruisce la rete dei contatti della persona positiva. Il numero attuale, circa 10mila in tutta Italia, è certamente insufficiente per affrontare la situazione in cui ci troviamo oggi e anche per questo Francesco Boccia, ministro per gli Affari regionali, ha annunciato l’arrivo di 2mila nuovi tracer. L’impressione, però è che sia già troppo tardi per trovare soluzioni efficaci che possano raddrizzare un sistema che si è sgretolato già alle prime fasi della cosiddetta “seconda ondata”.