Perché in Italia finora è andata meglio?

Le spiegazioni sul limitato impatto della seconda ondata di coronavirus sono diverse, secondo gli epidemiologi: rispetto ad altri paesi europei siamo stati bravi, ma non è detto che duri

di @stefanovizio

Piazza di Spagna a Roma. (Cecilia Fabiano/ LaPresse)
Piazza di Spagna a Roma. (Cecilia Fabiano/ LaPresse)

Negli ultimi giorni paesi come la Francia, la Spagna e il Regno Unito stanno discutendo e approvando misure sempre più rigide per contenere la “seconda ondata” di contagi da coronavirus, che nel giro di qualche settimana, crescendo molto rapidamente, hanno raggiunto numeri tali da generare diffusi allarmi. Altrove, come in Germania e in Italia, i numeri dell’epidemia di queste settimane sono invece rimasti molto più contenuti, pur mostrando una chiara tendenza al rialzo.

La relativa tranquillità estiva sta progressivamente lasciando spazio a una generale preoccupazione per la stagione autunnale, ma è indubbio che gli ultimi due mesi in Italia siano stati diversi, e migliori, rispetto a paesi europei con popolazioni e caratteristiche simili. La gestione della pandemia in Italia ha ricevuto elogi dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e attenzioni dalla stampa internazionale, per esempio sul Financial Times, su BBC, sul Wall Street JournalForeign Policy e diversi altri.

Gli epidemiologi danno spiegazioni diverse e complementari a questo fenomeno, riconoscendo che capire come mai in Italia stia andando meglio che altrove è complesso: «è davvero una domanda da un milione di dollari» dice Patrizio Pezzotti, direttore del reparto di epidemiologia dell’Istituto Superiore di Sanità. Ma gli esperti sentiti dal Post concordano su varie ipotesi. Secondo loro, la situazione migliore vista in Italia fino ad ora è il risultato di un insieme di fattori che vanno da una più efficiente organizzazione dei sistemi di indagine epidemiologica e sorveglianza a una maggiore attenzione della popolazione alle misure sanitarie, passando per le tempistiche che hanno regolato la riapertura delle attività da maggio in poi e il rigore con cui fu applicato il lockdown.

La “seconda ondata” dell’epidemia da coronavirus è cominciata nei principali paesi europei più o meno a inizio luglio, se la si fa coincidere con il momento in cui i nuovi contagi quotidiani rilevati dai sistemi sanitari hanno smesso di diminuire e hanno ripreso ad aumentare. È successo nel giro di un paio di settimane in Spagna, Francia, Regno Unito, Germania e Italia, paesi che erano stati colpiti con modalità, tempistiche e intensità differenti dalla prima ondata di marzo e aprile, ma che in quei giorni di inizio luglio sembravano avere a che fare con un problema analogo, seppur in una situazione generale in cui i contagi e soprattutto i decessi erano abbondantemente sotto controllo un po’ ovunque. Ma da allora, cioè negli ultimi tre mesi, le cose sono andate assai diversamente, con i nuovi casi quotidiani che in Francia e Spagna hanno superato in certi giorni gli 11mila, e in Italia invece sono sempre rimasti sotto ai 3mila con una crescita molto più stabile e contenuta.

Una delle spiegazioni principali alla situazione italiana è il miglior funzionamento dei sistemi di indagine epidemiologica e di sorveglianza, cioè della macchina statale che parte dalle segnalazioni dei casi sospetti e arriva alla somministrazione dei test e al tracciamento dei contatti, e che inoltre amministra le operazioni di screening, sottoponendo al tampone o agli altri test disponibili determinate categorie di persone, dagli operatori sanitari ai turisti in arrivo dall’estero.

– Leggi anche: Come andrà per i medici di famiglia, in autunno?

«Sicuramente l’Italia si è comportata molto bene sia per l’approccio del sistema sanitario nei mesi delle riaperture sia in quelli estivi, ed è riuscita a fare un buon lavoro di tracciamento, di indagine epidemiologica e di isolamento dei focolai. È una cosa di cui giustamente dare atto» spiega Alessandro Vespignani, professore alla Northeastern University di Boston specializzato in epidemiologia e direttore del Network Science Institute. Dopo le grandi difficoltà di marzo e aprile, spiega invece Pezzotti, il sistema di indagine epidemiologica gestito dalle ASL si è riorganizzato e ha investito più risorse, riuscendo a rintracciare una quota sufficiente dei reali contagiati sul territorio nazionale. Se nella fase iniziale i numeri dei contagi accertati corrispondevano, secondo le stime più affidabili, a una frazione compresa tra il 10 e il 20 per cento dei contagi reali, ora secondo Pezzotti siamo probabilmente tra il 50 e il 70 per cento.

Stefania Boccia, epidemiologa e docente di igiene, sanità pubblica e medicina preventiva all’Università Cattolica, crede che i numeri diffusi quotidianamente dalla Protezione Civile possano sottostimare maggiormente quelli reali, e che i contagi possano essere fino al triplo di quelli accertati. Ma è d’accordo nel ritenere che «il sistema di sorveglianza sta funzionando abbastanza bene» e che sta svolgendo un ruolo centrale nel contenimento dell’epidemia.

In Spagna, invece, il sistema di sorveglianza è stato in grossa crisi negli scorsi mesi, per problemi dovuti in larga parte ai conflitti di attribuzione tra le comunità autonome e lo stato centrale e alla differente organizzazione della prevenzione nelle singole regioni. A Madrid, una delle aree più colpite della Spagna, le autorità locali hanno fatto ricorso al personale volontario per il contact tracing, destinando altrove le risorse e venendo per questo criticate. In Catalogna, altra regione tra quelle con più contagi, il sistema di indagini epidemiologiche è andato in crisi in estate perché i piani per aumentare il personale non sono stati rispettati.

Un centro per i tamponi “drive through” a Roma. (Mauro Scrobogna /LaPresse)

In Francia, durante l’estate, i tempi per i tamponi e per i loro risultati si sono allungati per il sovraccarico del sistema sanitario. Con una media di 3,5 giorni per fare il test e attese fino a una settimana per ricevere i referti, spiega Boccia, fermare i focolai in tempo è stato molto più difficile. Estesi malfunzionamenti e ritardi hanno complicato anche il lavoro del tracciamento dei contatti nel Regno Unito, attirando molte critiche sul governo. Va specificato che l’efficienza del sistema di sorveglianza è collegata al numero complessivo di tamponi, ma non ne è una diretta conseguenza: in numeri assoluti, Regno Unito e Spagna hanno fatto molti più test dell’Italia (la Francia meno). Ma come ripetono da tempo i virologi, i test devono essere tanti, ma soprattutto mirati e bene organizzati. Altrimenti non servono, e possono affaticare inutilmente il sistema sanitario.

«Finché regge, il sistema di sorveglianza ci sta salvando» dice Boccia. Ma non è detto che se il tracciamento dei contatti e le indagini epidemiologiche funzionano adesso, tra un mese sarà lo stesso. «Se aumentano le infezioni non è detto che il sistema ce la farà» avverte Pezzotti.

Rimanere sotto al livello di contagi che potrebbe mandare in crisi il sistema di sorveglianza nazionale è fondamentale anche secondo Stefano Merler, matematico specializzato in epidemiologia della Fondazione Bruno Kessler di Trento. «Abbiamo saputo fermarci prima di raggiungere la soglia che segna il passaggio dall’anticipare l’epidemia a rincorrerla». Merler ritiene che «il lockdown ci ha insegnato che la COVID-19 è controllabile: con misure estreme o meno, per periodi più o meno lunghi, ma si può limitare. Ma se si supera la soglia che sovraccarica i sistemi di prevenzione e sorveglianza si arriva a difficoltà estreme che costringono a inventarsi altro, come hanno fatto in altri paesi europei, dalle zone rosse alle mascherine all’aperto».

– Leggi anche: Riusciremo a fare abbastanza tamponi?

In agosto, secondo Merler, si è rischiato di superare questa soglia quando in certe regioni i contagi hanno mostrato aumenti allarmanti, come in Sardegna intorno a Ferragosto. È stato determinante, dice Merler, l’intervento tempestivo della politica che, tra le altre cose, ha chiuso le discoteche e ha disposto test su chi rientrava dall’isola. In generale, gli esperti hanno riconosciuto una collaborazione – almeno fino ad ora – fruttuosa tra gli scienziati e la politica, che non hanno avuto conflitti significativi e hanno mantenuto un dialogo continuo per mezzo del Comitato tecnico scientifico.

Lo sbarco da un traghetto tra la Grecia e Ancona, il 7 agosto. (Siegfried Modola/Getty Images)

Ma per spiegare l’andamento dei contagi in Italia tra l’estate e l’inizio dell’autunno serve considerare anche altri fattori. In tanti hanno ipotizzato che l’impatto devastante dell’epidemia a marzo e aprile abbia spaventato gli italiani a tal punto da consolidare una generale allerta e attenzione alle misure sanitarie, dall’utilizzo delle mascherine al rispetto del distanziamento fisico. Precauzioni che sono storicamente radicate nei paesi asiatici, abituati a gestire più di frequente le epidemie, ma che sono invece state di lenta e difficile adozione nei paesi occidentali.

In questo, pur con diversi livelli di disciplina a seconda delle zone e del periodo, l’Italia sembra essersi comportata significativamente meglio degli altri paesi europei, aiutata anche dal fatto che non ci sono state finora grandi divisioni politiche sulle misure sanitarie, come successo per esempio negli Stati Uniti. Gli esperti sentiti dal Post riconoscono che tutto questo ha senz’altro avuto un ruolo, anche se ricordano che è un fattore difficile se non impossibile da misurare, e che quindi va considerato come tale.

– Leggi anche: Come sta andando il mercato immobiliare con il coronavirus

Ma se è difficile fare paragoni tra paesi sul rigore nell’applicazione delle misure per contenere il coronavirus, è possibile confrontare l’entrata in vigore delle stesse. In Italia, le mascherine sono state rese obbligatorie al chiuso e sui mezzi pubblici dal 14 aprile (in certe regioni prima); in Francia dal 12 maggio sul trasporto pubblico, e soltanto dal 20 luglio nei luoghi chiusi e dal primo settembre nei luoghi di lavoro; nel Regno Unito, dal 15 giugno sui trasporti e dal 24 luglio al chiuso. In Germania, altro paese che ora fa registrare dati simili all’Italia, sono invece state rese obbligatorie già da fine aprile.

Una manifestazione contro le mascherine e le restrizioni per contenere l’epidemia a Roma, il 5 settembre. (Mauro Scrobogna /LaPresse)

La Spagna sembra fare eccezione, visto che le mascherine sono obbligatorie da maggio sui trasporti pubblici, da un paio di settimane dopo nei luoghi chiusi, e poi da fine agosto di fatto quasi ovunque anche all’aperto. Ma questi primi sette mesi di epidemia hanno insegnato che non esiste una singola misura in grado di risolvere da sola tutti i problemi, e che se l’intero sistema è in crisi, aggiustare un suo singolo componente non è sufficiente. «Non esiste una pallottola d’argento, una misura che cambia tutto: ciascuna ha una sua importanza, e abbassa un po’ la trasmissibilità» spiega Vespignani. Se le mascherine sono fondamentali per contenere i possibili cluster negli assembramenti pubblici, non intervengono – perché quasi sempre non sono utilizzate – nei contesti famigliari, dove avviene concretamente gran parte dei contagi.

– Leggi anche: L’impatto del fattore k sulla pandemia

Quello che è successo in Italia a partire da maggio, secondo Vespignani, è che si è sviluppato un ciclo virtuoso: «il numero di casi si abbatte, le indagini epidemiologiche funzionano molto meglio, il trattamento dei pazienti in ospedale avviene prima ed è più efficace». Le premesse per questo ciclo virtuoso, secondo Pezzotti, sono state messe principalmente da un lockdown più rigoroso e rispettato rispetto agli altri paesi, e da un approccio più cauto e graduale alle riaperture. A maggio, quando sono state allentate le misure restrittive, le mascherine erano ampiamente disponibili e il loro uso era ormai consolidato nelle abitudini degli italiani, spiega Merler. Il ciclo virtuoso si è poi sostanzialmente mantenuto in estate, un periodo in cui secondo Boccia il virus in Italia è circolato molto meno rispetto ad altri paesi, che non hanno gestito altrettanto bene, per esempio, il turismo e gli assembramenti nei locali. 


Da tenere in considerazione, nel confronto tra i paesi europei, c’è poi la questione delle scuole. Nel Regno Unito hanno riaperto fin dal primo settembre, la stessa data della Francia, che aveva inoltre aperto quelle primarie per un paio di settimane tra fine giugno e inizio luglio. In Spagna l’inizio della scuola è stato fissato al 14 settembre, mentre in Germania hanno riaperto a partire da inizio agosto. In Italia gli istituti hanno riaperto progressivamente tra il 14 e il 24 settembre, e finora sono stati registrati circa 1.500 casi tra gli studenti, 350 tra i docenti e 115 tra il personale scolastico secondo la ministra della Scuola Lucia Azzolina. Il presidente del Consiglio superiore di sanità Franco Locatelli ha detto nei giorni scorsi che la riapertura delle scuole non sembra avere avuto un impatto sul numero dei contagi, ma gli epidemiologi ritengono che sia un fattore da tenere in forte considerazione, e le cui reali conseguenze sono ancora da comprendere.

Una scuola superiore di Torino il secondo giorno di scuola. (Diana Bagnoli/Getty Images)

Gli esperti da tempo ricordano che considerare l’andamento dell’epidemia a livello nazionale non ha più molto senso, e che sia invece necessario considerare i dati regionali e ancora meglio a livello di province e città. Vespignani spiega anche che non c’è una soglia oltre la quale si passa da una situazione tranquilla a una allarmante: il peggioramento dell’epidemia è un processo graduale. I governi ormai sanno di avere a disposizione vari tipi e livelli di misure da applicare, e con l’esperienza accumulata in questi mesi sembra improbabile si possa arrivare a lockdown come quelli visti in primavera: «ci si arriva se si sbaglia tutto».

Disponendo però obblighi e divieti in ottica preventiva, secondo Vespignani sarà fondamentale che i governi riescano a comunicare meglio di quanto abbiano fatto finora le ragioni e gli obiettivi delle proprie scelte. Le chiusure, se arriveranno, serviranno a prevenire situazioni come quelle viste in primavera, e quindi non corrisponderanno a momenti di analoga emergenza: per questo potrebbero essere accettate con maggiori difficoltà, senza adeguate spiegazioni da parte della politica. «Non è uno sprint ma una maratona, e i governi devono tenere conto della stanchezza delle persone, comunicando il messaggio che le restrizioni servono a convivere con il virus per i mesi che ancora abbiamo davanti».