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  • Martedì 13 ottobre 2020

I mesi difficili che aspettano i pediatri

Sono sommersi da telefonate di genitori, tamponi da prescrivere e richieste di certificati scolastici: e l'influenza non è ancora arrivata

di Arianna Cavallo

(ANSA/ANGELO CARCONI)
(ANSA/ANGELO CARCONI)

«Stamattina ho ricevuto il primo messaggio da una mamma alle 6:25, ieri ho chiuso a mezzanotte, dopo aver parlato con un gruppo di mamme che alle 11 di sera aveva saputo che i figli erano stati messi in quarantena. In Puglia le scuole sono iniziate il 24 settembre e dalla settimana successiva stiamo vivendo questa realtà» ha raccontato Luigi Nigri, pediatra di famiglia a Bisceglie e vicepresidente nazionale della Federazione italiana medici pediatri (FIMP), a cui sono iscritti 6.000 dei 7.500 pediatri di famiglia italiani. La situazione in Puglia è particolarmente difficile – i tempi per fare il tampone e ricevere il risultato sono molto lunghi – ma le fatiche descritte da Nigri sono comuni a tutti i pediatri d’Italia: con la riapertura delle scuole, sono loro a gestire le preoccupazioni di genitori e insegnanti e a prescrivere i tamponi in presenza dei sintomi, numerosi e frequenti, per cui sono previsti.

Uno dei problemi è che nei bambini i sintomi da coronavirus sono tanti ed estremamente comuni, soprattutto nei più piccoli: febbre, tosse, cefalea, nausea, vomito, diarrea, rinorrea (il cosiddetto naso che cola) e naso chiuso. Il rapporto 58/2020 realizzato dall’Istituto superiore di sanità insieme ai ministeri della Salute e dell’Istruzione stabilisce che si debba considerare potenzialmente positivo un bambino con febbre superiore a 37,5 °C o con uno dei sintomi elencati, che in autunno e in inverno possono presentarsi anche più volte. Il bambino in questione non può andare a scuola o dev’essere rimandato subito a casa e i genitori devono telefonare al pediatra che, dopo un triage telefonico (una serie di domande specifiche sui sintomi e la condizione di salute del bambino), decide se fare il tampone comunicandolo al Dipartimento di prevenzione dell’ASL competente.

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In attesa del risultato del tampone, il bambino dovrà restare in isolamento ma i suoi conviventi (come i genitori o i fratelli), potranno uscire di casa, andare a scuola e al lavoro. Inoltre, un bambino che presenti uno qualsiasi dei sintomi elencati – quindi anche la tosse o il raffreddore – potrà tornare a scuola solamente dopo aver un tampone negativo portando un certificato del pediatra. Se il bambino dovesse invece risultare positivo, potrà rientrare in classe dopo almeno tre giorni senza sintomi e con un tampone risultato negativo: una novità appena introdotta da una circolare del 12 ottobre (fino a questo momento i tamponi richiesti erano due, a distanza di 24 ore l’uno dall’alto). L’intera classe sarà messa in quarantena, previa decisione del Dipartimento di prevenzione; la circolare del 12 ottobre stabilisce che la classe deve restare in quarantena per 14 giorni oppure in isolamento fiduciario per 10 giorni per poi fare un tampone per il test molecolare o per il test rapido antigenico. La circolare non chiarisce se siano le singole scuole, i pediatri o i genitori a decidere quale soluzione applicare. Bambini e personale scolastico hanno priorità nell’esecuzione dei test diagnostici.

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Il procedimento, ricco di cautele per garantire la massima sicurezza nelle scuole, presenta delle difficoltà, a partire dalla responsabilità e dall’arbitrarietà delle scuole nel decidere quando mandare un bambino a casa: alcuni insegnanti lo faranno davanti a qualche colpo di tosse, altri potrebbero essere più tolleranti. A questo si aggiunge la necessità di fare tantissimi tamponi nel minor tempo possibile, sia per per imporre l’eventuale quarantena ai compagni di classe e ai conviventi, sia per consentire ai genitori di riprendere il lavoro. C’è infine la mole di lavoro e di responsabilità scaricata sui pediatri, che si barcamenano tra telefonate di genitori preoccupati, visite, prescrizioni di tamponi, comunicazioni dei risultati e stesure di certificati.

«L’ISS e il ministero hanno emanato delle raccomandazioni di comportamento con criteri molto ampi, dai tre colpi di tosse alla scarica di diarrea, e spesso sono prese troppo rigidamente» sostiene Rino Agostiniani, vicepresidente della Società Italiana di Pediatria (SIP), a cui sono iscritti 10mila dei 14mila pediatri italiani tra territorio, ospedale e università. Agostiniani spiega che la conseguenza è una «richiesta esagerata di tamponi, che vanifica l’obiettivo di queste raccomandazioni, cioè individuare i contagi con più facilità: facendo tanti tamponi ci vogliono troppi giorni rispetto alle 24-48 ore previste per il risultato, e così perdiamo la possibilità di isolare subito il bambino e i suoi contatti».

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«Ci aspettavamo tamponi fatti con rapidità e maggiore possibilità di farli sul territorio con il drive-in» [cioè le postazioni riservate ad alunni e personale scolastico che si raggiungono in auto e senza appuntamento, ndr] ha detto anche Paolo Biasci, pediatra di famiglia di Livorno e presidente nazionale della FIMP. «Dopo il 14 settembre ci siamo resi conto che la situazione in Italia è a macchia di leopardo: ci sono zone, anche all’interno della stessa regione, dove i direttori generali hanno lavorato molto bene e la diagnosi dei tamponi avviene con rapidità e altre dove il sistema funziona con lentezza e non permette che il rientro a scuola e al lavoro avvengano in tempi opportuni, considerando che se un bambino è in isolamento almeno uno dei due genitori è bloccato a casa».

Non c’è una spiegazione univoca sui ritardi nei tamponi: un Dipartimento di prevenzione potrebbe non avere abbastanza reagenti o macchine per analizzarli, potrebbero mancare i tecnici di laboratorio o non esserci un’organizzazione adeguata del personale. Oltre alla grande quantità di richieste, c’è di mezzo anche un procedimento che prevede molti passaggi.

Il tampone è richiesto dal pediatra al Dipartimento di prevenzione della ASL territoriale; va fatto nei centri selezionati dai Dipartimenti su appuntamento, nei cosiddetti punti tampone drive-in o drive-through (mettendosi in fila in auto e senza appuntamento) oppure vengono fatti dalle Unità Speciali di Continuità Assistenziale (le cosiddetta USCA) a casa delle persone che presentano sintomi. Il tampone viene poi analizzato da specialisti di laboratorio, che impiegano un minimo di 4-5 ore; se tutto va bene, il risultato è pronto in 24-48 ore. Roberto Caputo, un pediatra di famiglia a Brescia, ha definito quest’ultima fase «il girone dantesco del risultato»: «l’esito si dovrebbe avere sul fascicolo sanitario elettronico, ma il pediatra può guardarlo solo se il genitore lo ha attivato e gli ha autorizzato l’accesso». Altrimenti bisogna aspettare che lo comunichi l’ASL telefonando ai genitori o inviando una lettera via posta al pediatra.

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Sempre Caputo dubita che «possiamo processare tutti i tamponi resi necessari da tutti i sintomi» indicati dall’ISS. «In questa settimana avrò richiesto una ventina di tamponi; se questa è la media, soltanto a Brescia vengono richiesti 1.400 tamponi pediatrici a settimana; nelle prossime settimane, con l’arrivo dell’influenza, saranno ancora di più (la Lombardia ultimamente processa una media di 130mila tamponi a settimana). Anche secondo Antonio D’Avino, pediatra a Portici (Napoli) e vicepresidente della FIMP, «se continuiamo con questo numero di richieste, i tamponi mancheranno». D’Avino spiega che a Portici «i pediatri prescrivono i tamponi direttamente all’Istituto zooprofilattico sperimentale del Mezzogiorno, una delle strutture individuate dalla Campania per fare i tamponi, senza passare quindi dal Dipartimento di prevenzione: «mandiamo lì i bambini per fare il tampone in giornata; stamattina alle 9 ho fatto 4 richieste, ora che è l’una passata tutti hanno già fatto il tampone all’istituto. Grazie a questa struttura, che è pubblica, siamo in un’isola felice, ma ritengo che in molte zone d’Italia i tempi per fare un tampone siano anche di 7-10 giorni».

È quello che succede per esempio in molte zone della Puglia, come ha raccontato Nigri. «La regione Puglia non ha un sistema efficiente per fare i tamponi, ci troviamo in una situazione disperata, gli ambulatori sono presi d’assalto. Io ho richiesto dei tamponi 8 giorni fa e ancora i bambini non li hanno fatti. Bisogna mettersi dalla parte delle famiglie e degli insegnanti, bisogna fare il tampone nella giornata in cui è stato prescritto e avere il risultato nel pomeriggio: questo vuol dire riaprire le scuole. I tempi di attesa favoriscono il contagio, bloccano il lavoro, portano problemi sociali e logorano il sistema nervoso e psicofisico».

Nigri tocca anche un’altra preoccupazione condivisa da molti pediatri: la spropositata responsabilità sulle spalle delle scuole: «mi ha chiamato una collega di Bari e mi ha raccontato di aver ricevuto in un ambulatorio, nello stesso giorno, 25 mamme con bambini alla mano, allontanati da scuola per un colpo di tosse». Nigri racconta di bambini mandati subito dal pediatra «per uno starnuto o per un colpo di tosse, ma io non posso sapere se un bambino ha la Covid visitandolo: devo fargli un tampone», aggiunge. Secondo Caputo, pediatra a Brescia, i referenti Covid, cioè le persone che fanno da ponte tra la scuola e il Dipartimento di prevenzione, «avrebbero dovuto essere informati meglio, hanno una formazione solo teorica e poco pratica» e soprattutto «l’insegnante ha un peso eccessivo, si ritrova a fare l’assistente sanitario promosso sul campo». «Sono colpito – aggiunge – dal modo di comportarsi autonomo delle scuole: non seguono le direttive, chiedono certificati e autocertificazioni, la tolleranza nei confronti della sintomatologia cambia in ogni istituto». È infatti molto difficile per le scuole fare una prima selezione di bambini che devono essere rimandati a casa, così come gli stessi pediatri hanno una certa variabilità di giudizio e comportamento.

«È difficilissimo decidere se fare un tampone – spiega Cristina Bertanza, pediatra di famiglia nel quartiere Lambrate di Milano – perché i sintomi sono gli stessi che troviamo in qualsiasi banale malattia da raffreddamento. Io non ho un criterio univoco, cerco di inviare i bambini, concordandolo con i genitori, se la sintomatologia continua per un certo periodo di tempo, oppure se le condizioni dei genitori possono essere favorenti: se parliamo di figli di insegnanti, di medici o di paramedici, o bambini che vivono con qualcuno in famiglia con sintomi. Conta anche l’età: se un alunno va alle medie ha qualche probabilità in più che la sintomatologia indichi un caso di Covid». Bertanza spiega quindi che «non mando tutti indiscriminatamente al primo raffreddore e mi assumo un po’ di responsabilità: per ora non mi è mai capitato di non riconoscere un bambino malato».

Aggiunge che per ora il suo lavoro è gestibile, non essendo ancora iniziato il periodo influenzale: «ricevo circa il 30 per cento di chiamate in più rispetto a un anno fa: quello che è cambiato è la quantità di telefonate di genitori preoccupatissimi, anche solo per sintomi banali come il raffreddore o due lineette di febbre, perché le regole a scuola sono piuttosto severe». Secondo D’Avino, che ha fatto 10-15 tamponi a Portici di cui uno risultato positivo, «il lavoro è aumentato molto e sta cambiando: si fanno videoconsulti, si risponde con WhatsApp, via mail e al telefono mentre le visite riguardano i bilanci di salute e la campagna vaccinale antinfluenzale iniziata a ottobre». Caputo, il pediatra di Brescia, racconta che «alle 7:30 iniziano ad arrivare i messaggi dei genitori». Dice di essere particolarmente preoccupato dalla frequenza con cui potrebbero essere necessari: ha appena prescritto il secondo tampone a una bambina che in un mese si è ammalata due volte e ricorda che «per fare rientrare a scuola un bambino con il raffreddore devo fargli fare un tampone. Per noi è una situazione molto stressante, dobbiamo temperare delle linee guida dall’altro che ci sembrano molto rigide mentre la scuola chiede continue rassicurazioni: mi chiedo quanti tamponi una famiglia accetterà di fare al figlio».

Una possibile soluzione, auspicata da alcuni pediatri, è il ricorso sempre più massiccio ai test rapidi antigenici, che vanno alla ricerca di particolari proteine tipiche del virus, l’antigene, e non del materiale genetico del coronavirus, come fa il classico tampone molecolare. Per farli si utilizza sempre un tampone, che viene strofinato all’interno delle narici e non è inserito in profondità nel setto nasale, risultando quindi meno invasivo. Funzionano in modo simile a un test di gravidanza: hanno una striscia che cambia colore in presenza dell’antigene e possono dare una risposta anche in un quarto d’ora. Il governo ha avviato un bando per acquistarne e distribuirne 5 milioni nelle scuole, anche se alcune regioni si sono mosse autonomamente e hanno già iniziato a usarli, come il Lazio e il Veneto; la Lombardia ha approvato un bando per acquistarne 1,2 milioni, che arriveranno tra fine ottobre e novembre.

I test antigenici sono più economici ma meno affidabili del tampone con PCR e sono in grado di individuare l’85 per cento dei casi, contro il 95 per cento del tampone molecolare: per questo per ora sono stati utilizzati per attività di screening. Significa che vengono testati su molte persone che non presentano sintomi, e poi quelle che risultano positive vengono sottoposte alla prova definitiva del tampone molecolare. Come spiega Nigri, «io vivo in una città di 55mila abitanti con 20 scuole; se le assenze giornaliere nelle scuole sono al 5 per cento ma in una sono al 15 per cento, allora avrebbe senso usare il tampone rapido: lo faccio a tutti i bambini e poi faccio il tampone a quelli risultati positivi». Per esempio in Toscana, un’ordinanza del 12 ottobre stabilisce che i pediatri possano richiedere il test antigenico insieme a quello molecolare in comparsa di sintomi compatibili con il coronavirus: se l’antigenico dovesse risultare positivo, si procederà con un tampone molecolare. Se invece risultasse negativo, si può rientrare a scuola.

Una volta avviato l’uso dei test antigenici a livello nazionale – per cui non c’è ancora una data precisa – bisognerà decidere chi sarà a farli: «potrebbero essere i pediatri, oppure li si potrebbe fare direttamente a scuola, per esempio da un medico scolastico» dice Agostiniani, vicepresidente di SIP. È d’accordo anche Bertanza: «se noi avessimo la possibilità di avere i tamponi rapidi in ambulatorio, sarebbe tutto più semplice, potremmo sapere seduta stante se un bambino è positivo o no. Si fa già, per esempio, con il tampone faringeo per la tonsillite da streptococco».

Un altro nodo è la possibilità di considerare i test antigenici come validi a livello diagnostico, una decisione che spetta all’ISS (finora se un test antigenico è positivo richiede sempre la conferma del molecolare). Qualcuno è contrario: «penso che non vadano bene per fare la diagnosi, li possiamo usare solo a fini epidemiologici: hanno una sensibilità tale da essere molto molto lontani dal tampone molecolare», ha detto per esempio D’Avino. Nigri, che ha prescritto 10 tamponi di cui 4 risultati positivi, fa invece notare che «se abbiamo un problema di risorse, dobbiamo sfruttare al meglio quelle che abbiamo: se non riusciamo a fare il tampone tradizionale allora potremmo validare il tampone rapido come diagnostico», nella consapevolezza che è comunque meno efficace. La circolare del 12 ottobre segna comunque un primo passo, consentendo di usare, dopo dieci giorni di isolamento fiduciario, i test antigenici per i contatti stretti asintomatici.

Faciliterebbero, nella loro rapidità, anche la vita delle famiglie, alle prese con la difficile gestione di un bambino ammalato e potenzialmente positivo. Agostiniani spiega che «i bambini si ammalano relativamente poco di Covid rispetto alla frequenza che c’è nell’adulto: se un bambino è ammalato ho il 99 per cento di possibilità che lo sia di altro. Il tampone antigenico mi permette, di fronte alla tosse o al raffreddore, di portarlo dal nonno o di chiamare la babysitter».

Intanto, la sensazione generale è di grande confusione a livello nazionale e scarso coordinamento tra le varie parti in gioco. Secondo Biasci, «la disorganizzazione sul territorio è colpa dei Dipartimenti di prevenzione che hanno dimostrato dei limiti organizzativi; hanno avuto mesi per organizzarsi per far fronte a una richiesta che sarebbe stata più alta del passato, quando le scuole erano chiuse. La partita si gioca non nell’ospedale ma sul territorio, in trincea. E noi pediatri e i medici di famiglia siamo sul territorio, siamo in trincea». Al di là di tutte queste difficoltà, secondo un rapporto dell’ISS calcolato nel periodo dal 28 settembre al 4 ottobre, le scuole sono responsabili del 2,5 per cento dei nuovi focolai, contro il 77,6 per cento di quelli avvenuti in famiglia.  Per ora, ha detto domenica il commissario straordinario per l’emergenza sanitaria, Domenico Arcuri, «le scuole reggono il contagio ed è stata una operazione meritevole per tutti riaprirle».