Il remdesivir non riduce la letalità della COVID-19

Lo dice il più grande studio finora condotto sul farmaco e sostenuto dall’OMS, ma servono altre conferme

(Zsolt Czegledi/MTI via AP)
(Zsolt Czegledi/MTI via AP)

Lo studio internazionale più grande finora condotto su alcuni farmaci per trattare la COVID-19, la malattia causata dal coronavirus, ha rilevato che il remdesivir non riduce il tasso di letalità tra i pazienti. La ricerca – sostenuta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e condotta su oltre 11mila individui in una trentina di paesi – porta ulteriori dubbi sul farmaco, inizialmente considerato utile per trattare i pazienti con sintomi gravi. I dati dello studio sono stati resi disponibili nelle ultime ore e sono ora in attesa di essere rivisti (peer-review), prima di essere pubblicati su una rivista scientifica.

La ricerca è stata svolta nell’ambito di “Solidarity”, la serie di test avviati dall’OMS per valutare l’efficacia dei trattamenti per i casi gravi di COVID-19. L’analisi ha interessato i pazienti ricoverati in 405 ospedali in giro per il mondo, cui era stato somministrato almeno uno di questi farmaci: remdesivir, idrossiclorochina, lopinavir e interferone. Lo studio ha coinvolto nel complesso 11.300 individui, compresi 4.100 pazienti che non hanno ricevuto nessuno di questi farmaci durante la malattia.

I ricercatori hanno rilevato che nessuno dei quattro medicinali, somministrati singolarmente o con una loro combinazione, ha portato a una riduzione della letalità. Gli stessi farmaci non hanno inoltre portato a una riduzione dei tempi di ricovero o ridotto il rischio di essere intubati, rispetto ai pazienti che non hanno ricevuto alcun farmaco.

I risultati confermano i dubbi sollevati nei mesi scorsi sull’idrossiclorochina e sul lopinavir, mentre offrono nuovi elementi sul remdesivir, inizialmente considerato una risorsa promettente per trattare i casi di COVID-19.

Il remdesivir è un farmaco antivirale di recente introduzione, sviluppato dall’azienda farmaceutica Gilead negli anni delle epidemie causate dall’Ebola in Africa occidentale tra il 2013 e il 2016. La sua sperimentazione aveva portato a risultati che sembravano incoraggianti, ma un suo impiego su più grande scala contro l’Ebola rivelò una scarsa efficacia rispetto ad altre soluzioni. Il farmaco era stato anche sperimentato per trattare alcuni casi di SARS e MERS, sindromi respiratorie causate da altri coronavirus, con risultati accettabili.

Come suggerisce la parola, un antivirale serve per rallentare la velocità con la quale i virus si replicano all’interno di un organismo, dando qualche possibilità in più al sistema immunitario di contrastare l’infezione. Farmaci di questo tipo sono piuttosto potenti e possono avere effetti collaterali, per questo devono essere somministrati sotto attenta sorveglianza da parte dei medici.

Lo scorso maggio, la Food and Drug Administration (FDA), l’agenzia federale statunitense che si occupa dei farmaci, aveva autorizzato con una procedura di emergenza l’impiego del remdesivir sui pazienti malati di COVID-19, dopo che uno studio aveva rilevato una riduzione (seppure modesta) nei tempi di guarigione dei pazienti con sintomi gravi. Ad agosto l’FDA aveva inoltre approvato l’impiego del remdesivir per tutti i pazienti ricoverati, a prescindere dalla gravità dei loro sintomi.

La decisione aveva fatto sollevare qualche perplessità dagli esperti, soprattutto perché il remdesivir non aveva comunque fatto rilevare una riduzione della letalità della malattia tra i pazienti trattati. Negli Stati Uniti un singolo trattamento costa intorno ai 3mila dollari.

Gilead ha commentato i risultati di “Solidarity” definendoli “eterogenei” perché basati su dati forniti da ospedali in paesi con sistemi sanitari molto diverse, nei quali sono stati seguiti protocolli per il trattamento dei pazienti difficili da mettere a confronto. Secondo l’azienda non è quindi chiaro se si possano trarre conclusioni affidabili dallo studio.

I risultati della nuova ricerca non hanno sorpreso più di tanto medici e ricercatori, anche perché altri studi su una scala più contenuta avevano portato a indicazioni simili nei mesi scorsi. Saranno comunque necessari ulteriori approfondimenti, anche perché l’impiego del remdesivir nelle prime fasi della malattia ha dato in diversi casi risultati promettenti per ridurre i sintomi, anche se non è ancora chiaro con quale livello di efficacia nel prevenire il loro peggioramento.