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  • Mercoledì 22 aprile 2020

Chi non ha fatto il tampone non esiste

In Lombardia i malati di COVID-19 senza tampone sono decine, forse centinaia di migliaia: non risultano da nessuna parte e non hanno obbligo di quarantena, ed è un grosso problema

di Elena Zacchetti

Milano (ANSA / PAOLO SALMOIRAGO)
Milano (ANSA / PAOLO SALMOIRAGO)

«Sono guarita veramente?». Mariarosa Soldati, 71 anni, di Crema (provincia di Cremona), è stata una delle migliaia di persone in città ad essersi ammalate a causa del coronavirus. Soldati ha ricevuto la diagnosi tramite TAC, e non tramite tampone: per questo per lo Stato italiano, e per la regione Lombardia, non si è mai ammalata di COVID-19. Ha da poco finito l’isolamento di 14 giorni ma non ha la certezza di essere guarita, perché nessuno le ha fatto i due tamponi di controllo, e nessuno probabilmente glieli farà.

In Lombardia, la regione italiana più colpita dal coronavirus, decine di migliaia di persone si sono ammalate di COVID-19, ma come Mariarosa Soldati non sono mai state sottoposte a un tampone. Secondo tutte le stime, sono molte di più di quelle che hanno avuto una diagnosi positiva attraverso un tampone: sono l’iceberg.

Molte non hanno fatto nemmeno una TAC e hanno ricevuto una diagnosi per telefono. Per la legge italiana non sono obbligate alla quarantena, perché manca una diagnosi accertata: almeno sulla carta, se non hanno la febbre alta possono fare tutto quello che è permesso a chi oggi è sano, per esempio andare a fare la spesa. Vivono con persone che non hanno alcun obbligo di stare in casa, e che vanno anche a lavorare, se impiegate in uno dei settori considerati essenziali (e non sono pochi). Fanno parte di in un’enorme zona grigia, di incertezza e preoccupazione.

«È una platea indistinta, anche i comuni sono totalmente all’oscuro di chi siano i sospetti casi di COVID-19», ha detto al Post Emilio Del Bono, sindaco di Brescia, una delle province lombarde più interessate. «Non esiste una politica “familiare” rispetto a questi casi. È una questione che abbiamo sottoposto più volte alla regione, senza però ricevere alcun piano in risposta».

L’esistenza della «platea indistinta» di cui parla Del Bono è il risultato di una politica sui tamponi che in Lombardia non ha funzionato e che è in parte il motivo per cui nella regione continuano a esserci centinaia di casi di contagi ogni giorno, nonostante tutte le restrizioni. Il Post ha parlato con una dozzina di casi sospetti di COVID-19 residenti in diverse province lombarde, con altrettanti medici di famiglia, con sindaci e autorità sanitarie locali, per cercare di capire qualcosa di più su cosa voglia dire essere in una situazione del genere, e che implicazioni ci siano per la strategia di contenimento dell’epidemia su cui si stanno basando valutazioni e previsioni per l’inizio della cosiddetta “fase 2”.


Ci sono due premesse da fare: due cose che erano state pensate per andare in un certo modo ma che poi, soprattutto a causa della portata dell’emergenza e di qualche scelta sbagliata o tardiva, sono andate diversamente e hanno inceppato il sistema.

La prima è che in Lombardia dall’inizio dell’epidemia, a differenza di quanto consigliava di fare l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), i tamponi sono stati fatti solo ad alcune categorie di persone con sintomi: quelle ricoverate in ospedale per la COVID-19, quelle passate dal pronto soccorso anche se poi rimandate a casa perché non troppo gravi, e una parte del personale sanitario. Ma solo una parte, e con ritardi e lentezze significative.

Negli ultimi dieci giorni il numero dei tamponi effettuati è aumentato. Secondo alcuni sindaci lombardi, tra cui Emilio Del Bono, i nuovi testati sarebbero soprattutto operatori sanitari e forse i degenti delle RSA, le residenze per anziani. Ma non ci sono dati ufficiali: la regione non li ha mai diffusi.

Tutti i medici consultati dal Post hanno detto di avere diversi pazienti che mostrano i sintomi della COVID-19, ma che non sono mai stati sottoposti al tampone. Ugo Tamburini, medico di famiglia che lavora nella zona di Baggio, grande quartiere di Milano, sta seguendo circa 35 persone per il coronavirus: solo una ha fatto il test, risultando positiva.

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La seconda premessa è che per la legge italiana le uniche persone sottoposte a quarantena obbligatoria, che hanno il divieto assoluto di uscire di casa e i cui nomi sono noti alle forze di sicurezza locali, sono i casi accertati – che sono praticamente solo quelli positivi a un tampone, con alcune eccezioni da territorio a territorio –, o quelli riconosciuti come “contatto” di un caso positivo accertato. Sono persone che vengono inserite in uno specifico elenco che compilano le ATS su segnalazione degli ospedali, dei medici di famiglia e sulla base di ricerche proprie (l’ATS è la sigla delle Agenzie di Tutela della Salute, enti pubblici che gestiscono la sanità regionale lombarda, e che in altre regioni si chiamano ASL). Alcuni medici di famiglia hanno detto di avere inserito pazienti sospetti positivi nelle liste ATS dei positivi, ma non è chiaro se anche loro siano poi finiti in regime di quarantena obbligatoria.

In molti casi, comunque, i “contatti” dei positivi non sono stati né cercati né inclusi negli elenchi trasmessi dalle ATS alle prefetture.

Stefania Bonaldi, sindaca di Crema, ha detto che dall’inizio dell’epidemia l’elenco dei “contatti” ricevuto dal suo comune è sempre stato più corto di quello dei “casi accertati”, che include le persone risultate positive al tampone. «È un elenco estremamente manchevole», ha detto Bonaldi: «Non è possibile che i contatti siano meno dei positivi, anche contando solo i conviventi e i familiari».

L’ATS Val Padana, a cui fanno riferimento le province di Cremona e Mantova, ha riconosciuto i limiti di questo processo. La direttrice sanitaria, Silvana Cirincione, ha raccontato come fin dai primi giorni dell’epidemia la sua struttura sia stata investita dall’emergenza.

Inizialmente, per esempio, i “contatti” erano tutte le persone entrate in contatto con un caso positivo al tampone nei precedenti 14 giorni, quando ancora si andava al lavoro, a scuola, in palestra, a fare l’aperitivo e così via (ora sono cambiati i criteri: si va indietro solo di 48 ore prima della comparsa dei sintomi). «Abbiamo avuto un caso di un operatore sanitario che lavorava al pronto soccorso di un ospedale della nostra zona che aveva avuto contatti con circa 800 persone. Trovare i numeri di telefono di tutti, e contattare le famiglie dei malati già ricoverati che non avevano la possibilità di parlare con noi, è stato complicatissimo». Circa una trentina di operatori dell’ATS Val Padana hanno contratto il virus e tutta l’unità di malattie infettive è risultata positiva, a eccezione di un solo medico: l’unico che non è residente nella provincia di Cremona, la più colpita in Italia per percentuale sulla popolazione.

«Abbiamo sempre rispettato le regole che ci arrivavano dall’OMS, dal governo e dalla regione Lombardia. Potremmo avere sbagliato qualcosa, ma non eravamo preparati a un’emergenza di questa portata», ha detto Cirincione.

La mancanza di tamponi e il limitato sistema di tracciamento dei “contatti” di casi positivi non hanno funzionato: erano gli ingranaggi di un sistema messo in piedi in fretta e in maniera improvvisata, che non ha saputo adattarsi all’emergenza alla stessa velocità della diffusione dell’epidemia. È come se migliaia di persone fossero rimaste fuori dai radar delle autorità. È da qui che è nata l’enorme zona grigia dei sospetti malati di COVID-19.


«Al numero verde della regione, molti chiamano per sapere cosa fare, perché magari sono entrati in contatto con qualcuno che non è stato bene, o che è risultato positivo al coronavirus. Quasi tutti chiedono: è possibile fare il tampone? Cercano certezze, ma la risposta è sempre la stessa: no». Sara (nome di fantasia) ha passato alcuni giorni a rispondere al numero verde della regione Lombardia per conto della sua associazione di volontariato, e ha raccontato al Post che la priorità di moltissime persone continua a essere il risultato di un tampone: avere cioè la certezza di avere contratto il virus, oppure no.

«Quando c’è un tampone positivo, non solo la persona che ha fatto il tampone è costretta alla quarantena obbligatoria, ma i suoi conviventi accettano molto più volentieri l’isolamento», ha detto Sara.

Il mondo dei sospetti malati di COVID-19 non riguarda infatti solo le persone che sviluppano sintomi, ma anche i familiari e i conviventi: cioè quei nuclei che secondo l’Istituto Superiore di Sanità e l’infettivologo Massimo Galli, direttore del reparto di malattie infettive dell’Ospedale milanese Luigi Sacco, sono ancora oggi i responsabili di buona parte dei contagi di coronavirus in Italia.

Secondo diversi medici di famiglia lombardi, quella dei conviventi è una questione cruciale: senza la certezza di avere contratto il virus, molti smettono di stare attenti alle regole di pulizia e distanziamento suggerite dalle autorità sanitarie. Soprattutto dopo essere diventati asintomatici, si comincia a mangiare a tavola insieme ai propri familiari e a non disinfettare più il bagno come si dovrebbe, rischiando così di contagiare persone sane che escono a fare la spesa e vanno al lavoro.

Queste persone, oltre a non avere alcun obbligo di stare a casa, spesso non ne hanno nemmeno la possibilità: a loro i medici di famiglia non possono dare giorni di malattia per “isolamento cautelativo”, che può essere usato come giustificazione solo nei casi di presenza di tampone positivo. Per superare il problema, alcuni medici hanno raccontato al Post di avere fatto certificati dichiarando il falso: inventando per esempio un mal di schiena, per evitare che conviventi di persone con tutti i sintomi della COVID-19 – ma senza il tampone – fossero costretti ad andare a lavorare.

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L’isolamento domiciliare non dipende comunque solo dalla volontà di chi lo fa, ha detto Ugo Tamburini, il medico che opera nella zona di Baggio: non tutti infatti hanno due bagni, o stanze a sufficienza per garantire la distanza tra conviventi, e non tutti hanno situazioni familiari in cui è possibile rispettare per filo e per segno le indicazioni del medico.

Maria, per esempio, è un’operatrice sanitaria che lavora all’ospedale di Lodi. Si è ammalata di COVID-19 in uno dei reparti dell’ospedale cosiddetti “puliti”, cioè quelli che non avrebbero dovuto ospitare pazienti positivi, in cui a inizio marzo non venivano ancora prese precauzioni sufficienti per evitare i contagi tra il personale sanitario. Dopo essere andata al pronto soccorso per un peggioramento dei sintomi dovuti alla COVID-19, Maria non è stata considerata sufficientemente grave da essere ricoverata in ospedale: le è stato detto di fare l’isolamento a casa, dove vive da sola con sua figlia 18enne. «Anche mia figlia ha fatto un isolamento stretto come il mio, ma non sempre ci è stato possibile mantenere le distanze tra noi. Abbiamo fatto quello che potevamo, abbiamo cercato di non incrociarci troppo spesso».

Situazioni simili sono state raccontate da diversi medici di famiglia. «Ci si scontra con la vita. Le delibere sono una cosa, la vita è un’altra», ha detto Ugo Tamburini.


Il fatto di non essere risultati positivi al tampone – di non essere quindi inclusi nelle liste ATS e non avere la certezza di avere contratto la COVID-19 – comporta alcune conseguenze rilevanti, che vanno al di là del livello di disciplina delle persone che dovrebbero rimanere in isolamento.

La prima conseguenza riguarda l’impossibilità di trascorrere il periodo di isolamento in una struttura destinata ad accogliere i pazienti positivi che non hanno più bisogno di cure mediche importanti, ma che non sono in condizioni di stare a casa propria. Si parla di strutture come hotel, centri gestiti dalle diocesi, istituti sanitari di qualche tipo riattrezzati per ospitare decine di persone positive al coronavirus. Per il momento sono poche e funzionano a singhiozzo, a volte grazie all’iniziativa dei comuni come l’hotel Michelangelo a Milano, ma se potenziate potrebbero essere importanti per evitare che persone ancora positive contagino i propri familiari e conviventi.

Come hanno confermato al Post le amministrazioni locali di Milano, Brescia, Bergamo e Cremona, però, non esiste praticamente alcuna possibilità che una persona malata di COVID-19 ma senza tampone positivo possa accedere a queste strutture.

A Milano, ha spiegato l’assessore all’urbanistica Pierfrancesco Maran, la gestione sanitaria degli ingressi all’hotel Michelangelo è di competenza dell’ATS e della regione: delle circa 120 persone attualmente presenti nella struttura, una sessantina appartiene alle forze dell’ordine, una quarantina è stata dimessa dagli ospedali – quindi ha tampone positivo – e solo una decina è stata segnalata dal comune per motivi sociali. A Brescia, ha detto il sindaco Del Bono, al momento funziona una struttura locale della Chiesa cattolica, che ospita solo persone dimesse dagli ospedali che sono in attesa di fare i tamponi di controllo e non possono effettuare l’isolamento a casa propria. I sospetti malati, invece, sono esclusi.

La seconda conseguenza legata all’incertezza di avere contratto il coronavirus è di tipo medico e riguarda le cure a cui sono sottoposti i pazienti malati – o sospetti malati – di COVID-19.

Non esiste ancora una terapia certa per trattare la malattia provocata dal coronavirus, e dall’inizio dell’epidemia sono stati provati diversi farmaci. Alcuni si sono rivelati più efficaci di altri, come per esempio l’idrossiclorochina (il marchio più diffuso è il Plaquenil), usata nei casi di malaria e di artrite reumatoide. L’idrossiclorochina si è dimostrata importante soprattutto per prevenire l’eccessiva risposta infiammatoria che l’organismo attiva per contrastare il coronavirus, e che è responsabile degli estesi danni ai polmoni riscontrati sui malati più gravi di COVID-19.

L’idrossiclorochina è però un farmaco “off-label”, cioè testato e destinato a trattare patologie diverse dalla COVID-19. A metà marzo l’AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco) ne aveva eccezionalmente approvato l’uso nei pazienti malati di COVID-19, per far fronte all’emergenza, ma pochi giorni dopo la regione Lombardia aveva vietato la sua prescrizione da parte dei medici di famiglia. «Il problema è che l’AIFA ha parlato di malati di COVID-19, e io non so se i miei pazienti che non hanno fatto il tampone abbiano effettivamente contratto la malattia», ha detto Tamburini, rimarcando la differenza tra casi positivi accertati e non.

Altri medici, comunque, hanno deciso di comportarsi diversamente, nonostante il divieto della regione.

Almeno tre medici sentiti dal Post, una della provincia di Cremona, uno della provincia di Bergamo e uno della provincia di Milano, hanno raccontato di avere continuato a prescrivere l’idrossiclorochina ai rispettivi pazienti, facendo firmare loro un documento sul consenso informato: hanno detto di considerare il Plaquenil un farmaco essenziale per poter prevenire l’eccessiva risposta infiammatoria dell’organismo, e hanno lamentato la mancanza di protocolli da applicare riguardo ai pazienti sospetti COVID-19. Il problema, come ha spiegato Ugo Tamburini, è che la clorochina non è «gratuita» dal punto di vista del paziente, perché provoca aritmia, soprattutto se somministrata insieme all’azitromicina, antibiotico che viene spesso prescritto insieme al Plaquenil.

L’idrossiclorochina è oggetto di numerosi studi clinici in diversi paesi del mondo, per valutare i benefici e i rischi che comporta il suo utilizzo. A oggi non ci sono evidenze scientifiche definitive, anche se sono stati prodotti numerosi studi preliminari sul suo impiego su pazienti malati di COVID-19.

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C’è infine una terza conseguenza legata al non sapere se si è malati dalla COVID-19: che non si sa quando si sarà guariti.

Senza il tampone per la conferma della positività, infatti, non vengono fatti nemmeno i due tamponi di controllo per verificare che il virus non ci sia più. Di recente ci sono stati molti casi di persone risultate ancora positive ai tamponi di controllo oltre le due settimane dalla scomparsa dei sintomi. Il problema è che fino a pochi giorni fa ai pazienti sospetti positivi era detto di fare un isolamento di 14 giorni prima di tornare a condurre una vita “normale”, quindi uscire per fare la spesa, andare in farmacia, o andare al lavoro (oggi, su indicazione della regione, l’isolamento può durare fino a 21 giorni, a volte anche 28).

Queste persone potrebbero essere ancora positive? È possibile. Potrebbero essere ancora contagiose? È improbabile, ma non ci sono certezze.


Per le città lombarde più colpite dall’epidemia non è stato facile mettere in piedi iniziative dirette ai sospetti malati di COVID-19 e ai loro familiari, che sono spesso meno tutelati dei pazienti ospedalizzati, perché i loro nomi non risultano praticamente in nessun elenco o registro. Alcuni comuni hanno comunque messo a disposizione servizi di aiuto e assistenza rivolti a tutta la cittadinanza, e in particolare alle persone più fragili e vulnerabili.

«Non sappiamo niente dei sospetti positivi, che potrebbero essere più del 90 per cento del totale delle persone che hanno contratto il coronavirus», ha detto il sindaco di Bergamo, Giorgio Gori: «A Bergamo c’è una rete sociale in ciascuno dei 23 quartieri della città, che abbiamo potenziato con circa mille volontari. Questa rete si occupa di consegnare al domicilio delle persone più fragili la spesa, i farmaci, i buoni pasto e le mascherine. Ma non sappiamo se chi ci apre la porta sia positivo o meno».

Il sindaco di Cremona, Gianluca Galimberti, ha detto che la priorità ora è mettere insieme una vigilanza sanitaria a una vigilanza sociale, offrendo percorsi di riabilitazione e degenza leggera alle persone che sono state malate, e allo stesso tempo mettendo a disposizione aiuti e servizi a chi ne ha bisogno e si trova in situazioni familiari e sociali complicate. «C’è tutto un mondo che non risulta negli elenchi delle persone positive al tampone e dei loro contatti. È il mondo di tutti i pazienti che i medici di famiglia segnalano come possibili casi: e mi riferisco anche a loro, quando parlo dell’importanza di rafforzare la collaborazione socio-sanitaria».

Un altro punto importante da affrontare sarà il reinserimento dei lavoratori nelle loro aziende. Ci sarà da capire chi potrà tornare al lavoro, quando e a quali condizioni. Ci sarà da valutare chi sarà guarito, e prima ancora chi è stato malato: che è quello che si chiede anche Mariarosa Soldati, e decine di migliaia di altre persone insieme a lei.