La complicata questione dei test sierologici

Dovrebbero aiutarci a capire chi abbia avuto il coronavirus, ma non sono ancora molto affidabili e difficilmente daranno una "patente di immunità"

di Emanuele Menietti – @emenietti

(Ansa/Andrea Canali)
(Ansa/Andrea Canali)

Alla fine della scorsa settimana il commissario straordinario per l’epidemia da coronavirus, Domenico Arcuri, ha aperto una gara “in procedura semplificata e di massima urgenza” per l’acquisto del materiale necessario per eseguire almeno 150mila test sierologici, con l’obiettivo di svolgere un’indagine campione sulla diffusione del nuovo coronavirus tra la popolazione italiana. L’iniziativa dovrebbe consentire di avere un quadro più completo e affidabile sull’effettiva presenza del coronavirus: richiederà almeno un mese per essere completata e sarà la prima vera prova di utilizzo dei test sierologici di cui si è parlato molto nelle ultime settimane.

Questi test, che implicano un’analisi del sangue, sono stati descritti in più circostanze (soprattutto dagli amministratori di alcune regioni) come “la soluzione” per identificare rapidamente gli individui senza coronavirus o guariti dalla malattia, in modo da rendere più sicura la delicata fase di ritorno alla normalità, con minori restrizioni e la ripresa della maggior parte delle attività produttive. Alcuni hanno parlato perfino di una “patente di immunità”, ma le cose sono molto più complicate: secondo diversi esperti la fiducia riposta nei test sierologici è eccessiva, a questo stadio delle conoscenze sull’epidemia e il coronavirus.

Che cos’è un test sierologico
I test sierologici servono per rilevare la presenza di particolari sostanze nel siero, una parte del sangue. Il test si effettua partendo da un comune prelievo di sangue venoso (di solito dalla vena di un braccio) e implica poi un’analisi di laboratorio per misurare la quantità e le tipologie degli anticorpi (immunoglobuline, Ig) prodotti dal nostro sistema immunitario per difendersi da ciò che proviene dall’esterno (antigeni), e che può costituire una minaccia, come appunto il coronavirus.

Solitamente si va alla ricerca delle IgM, immunoglobuline che l’organismo produce come prima risposta a un antigene: la loro concentrazione tende ad aumentare per alcuni giorni nel momento dell’infezione, e poi decresce lasciando spazio alle IgG.

Le IgG sono di norma le immunoglobuline più presenti nel sangue e sono specifiche per i singoli tipi di antigeni. Semplificando molto, dopo la fase acuta dell’infezione la loro quantità diminuisce, ma mantengono la memoria della minaccia che avevano incontrato, consentendo quindi all’organismo di impedire allo stesso antigene di fare nuovamente danni. Partecipano ai processi che ci rendono immuni alle malattie.

I test possono inoltre essere orientati a cercare le IgA, immunoglobuline che non sono presenti solo nel sangue, ma anche in altri fluidi come la saliva e le lacrime.

Provette vs scatolette
Un test sierologico nella sua versione “classica” avviene tramite un prelievo venoso e un’analisi di laboratorio della provetta di sangue, tesa a misurare la concentrazione di IgG, IgA e IgM. Sono impiegati da tempo per scoprire le caratteristiche immunitarie degli individui e hanno buoni margini di affidabilità. Per questo per ora il ministero della Salute si è orientato verso questi tipi di test rispetto a quelli semplificati con i tester, anche se di questi ultimi si parla molto più spesso.

Un test semplificato viene effettuato prelevando una goccia di sangue dal dito, un po’ come fanno le persone con il diabete per misurare quotidianamente la loro glicemia. La goccia di sangue viene depositata in una piccola scatoletta di plastica (tester) nella quale sono presenti sostanze chimiche che reagiscono alla presenza delle immunoglobuline. Sul tester appaiono una o due asticelle, indicanti ciascuna un tipo di immunoglobulina, oppure nessuna asticella se il test risulta negativo. C’è una terza linea colorata che serve come controllo: se non compare, vuol dire che il test non è valido o che non ha dato risultati interpretabili. L’intero procedimento richiede all’incirca un quarto d’ora.

Questi test rapidi sono impiegati per rilevare le IgM e le IgG. Il test risulta negativo se compare solamente un’asticella colorata in corrispondenza del controllo, mentre è considerato positivo se si attiva almeno una delle altre linee che indicano le IgM e le IgG.

Cosa indica un test sierologico
I test sierologici indicano se una persona sia venuta o meno in contatto con un agente infettivo, come il coronavirus. Se il risultato è negativo, significa che l’individuo non è probabilmente stato esposto al virus fino al momento del test, ma questo non implica che possa essere infettato. Un risultato positivo indica invece che è avvenuta una reazione da parte del sistema immunitario, a causa della presenza del virus.

Un test positivo alla IgM indica che il soggetto è entrato in contatto con il virus da poco tempo (ore o giorni). Se il test è positivo sia alla IgM sia alla IgG, significa che probabilmente il contatto è avvenuto diversi giorni o una settimana prima. Un risultato che indica la sola positività alla IgG segnala invece un contatto con il virus più distante nel tempo e oltre la settimana.

Che differenza c’è con il tampone?
Il test di cui si è parlato di più dall’inizio dell’epidemia è quello che prevede un prelievo di muco e saliva tramite un lungo cotton fioc (tampone), che viene poi analizzato per cercare le tracce genetiche del coronavirus. Se l’esito del test è positivo, significa che nel momento in cui la persona era stata sottoposta al tampone aveva un’infezione attiva da coronavirus.

Il tampone serve quindi per scoprire l’infezione da coronavirus in un esatto momento, una sorta di fotografia istantanea per vedere se si ha il virus. Il test sierologico serve invece a capire se la persona interessata abbia avuto il coronavirus e sia poi riuscita a superare l’infezione, con il suo sistema immunitario che ha mantenuto la memoria della minaccia, in modo da saperla affrontare più prontamente qualora si ripresentasse.

L’esito di un test sierologico può essere ottenuto entro un paio d’ore, circa un quarto del tempo necessario per analizzare un tampone. Inoltre, il processo di analisi per i sierologici è totalmente automatizzato e può essere svolto in parallelo su un maggior numero di campioni. La versione con tester (le scatolette) consente di avere esiti in poche decine di minuti, ma ci sono maggiori dubbi sulla sua affidabilità.

Immunità
A oggi non è chiaro se e per quanto tempo il sistema immunitario mantenga la memoria del coronavirus. Le incertezze sono dovute al fatto che conosciamo da pochi mesi questo virus e che serve tempo per verificare, in chi l’ha avuto, se si resti o meno immuni e per quanto. È una domanda cruciale cui ricercatori e medici confidano di dare una risposta nei prossimi mesi, anche perché dalla durata dell’immunizzazione potrebbe dipendere il successo di un vaccino per ridurre la diffusione della COVID-19.

Le ricerche condotte finora su altri coronavirus, come quelli che causano il comune raffreddore e quello della SARS, sembrano indicare la capacità del nostro sistema immunitario di mantenere un ricordo dell’infezione virale causata da questi tipi di virus. Per alcuni coronavirus l’immunità dura poco meno di un anno, un periodo che potrebbe essere accettabile per immaginare future campagne vaccinali annuali, come avviene già per l’influenza (che è causata da virus diversi dai coronavirus).

La questione dell’immunità pone quindi qualche dubbio sull’efficacia dei test sierologici, soprattutto se condotti a distanza di mesi dall’infezione da coronavirus. Se si restasse immuni per poco tempo, sarebbe più difficile se non impossibile trovare tracce nel sangue delle immunoglobuline specifiche, e non si avrebbero quindi informazioni certe sull’immunizzazione degli individui.

“Patente di immunità”
Nelle ultime settimane in Italia e in altri paesi occidentali, dove l’epidemia sta causando migliaia di morti, si è parlato dei test sierologici come una risorsa importante per fornire una “patente di immunità”, che dovrebbe consentire di distinguere chi è già stato contagiato e ha superato l’infezione virale (magari senza nemmeno sviluppare sintomi significativi e quindi accorgersene) da chi invece è ancora esposto. Chi propone questa soluzione sostiene che in questo modo si potrebbe garantire una ripresa delle attività lavorative e un alleggerimento delle misure restrittive, consentendo a chi risulta ormai immune di tornare al lavoro e di circolare più liberamente.

Le implicazioni di un simile sistema sarebbero enormi, perché di fatto porterebbero alla formazione di gruppi sociali distinti in base al loro grado di salute e ai fattori di rischio legati al coronavirus. Sarebbe una distinzione in “caste sanitarie” senza precedenti per le società contemporanee, con i pericoli che derivano da certe disparità di trattamento.

In realtà, a oggi sembra difficile immaginare che con i test sierologici si possa sviluppare uno strumento efficace e affidabile per questa “patente di immunità”: sia perché non sappiamo ancora se e per quanto si resti immuni dopo avere superato l’infezione da coronavirus, sia perché i test disponibili finora non offrono margini di affidabilità completamente soddisfacenti.

Affidabilità
Il Comitato tecnico-scientifico del ministero della Salute italiano ha di recente definito le caratteristiche richieste per i nuovi test sierologici. Dovranno avere un’affidabilità di almeno il 95 per cento, tempi di esecuzione rapidi e dovranno dare la possibilità di essere eseguiti su una scala molto grande in diversi laboratori del paese. Queste specifiche sono indicate per i test tramite il classico esame del sangue, per i quali ci sono maggiori sicurezze sulla loro affidabilità.

Le cose sono diverse per i test fai-da-te che hanno iniziato a circolare, e per i quali l’Istituto Superiore di Sanità mantiene ancora il giudizio sospeso. Ci sono dubbi circa la loro affidabilità e inoltre timori per la diffusione di sistemi di analisi molto diversi tra loro, che complicherebbero la raccolta di dati omogenei e concreti sull’attuale epidemia.

Indagine epidemiologica
Il Consiglio Superiore di Sanità, l’organismo che fornisce le consulenze tecniche e scientifiche al ministero della Salute, ha ottenuto che le regioni partecipino a un test nazionale per valutare la presenza del coronavirus tra la popolazione, utilizzando un unico test sierologico che avrà quindi criteri di applicazione e caratteristiche comuni per tutti.

L’indagine interesserà un campione di 150-200mila persone, selezionate su base statistica per essere rappresentative dell’intera popolazione. Tra i criteri utilizzati, oltre al genere, ci saranno quelli del loro profilo lavorativo e dell’età, suddivisa in sei grandi fasce. Salvo ritardi, l’indagine epidemiologica potrebbe essere completata entro la terza settimana di maggio, offrendo elementi più concreti sull’epidemia da coronavirus in Italia, rispetto ai dati che vengono diffusi giornalmente dalla Protezione Civile e che non sono ritenuti sufficientemente rappresentativi (soprattutto a causa delle diverse modalità con cui vengono eseguiti i tamponi tra le varie regioni).

Regioni
Come sta avvenendo sui piani – più o meno abbozzati – per le riaperture, anche sui test sierologici le regioni stanno andando in ordine sparso, fatta eccezione per l’indagine epidemiologica nazionale che dovrebbe mantenere un migliore coordinamento.

Toscana
Tra le prime regioni a valutare la possibilità di realizzare intensivamente test sierologici c’è stata la Toscana, che dopo diverse valutazioni a metà aprile ha annunciato l’avvio di un programma che riguarderà almeno 400mila individui. Saranno sottoposti gratuitamente ai sierologici per lo più il personale sanitario (ospedali e case di cura) e chi lavora nei servizi essenziali. Il piano prevede il coinvolgimento di circa 40 laboratori privati, che parteciperanno al progetto, fornendo dati che saranno poi impiegati per stimare (su base statistica) la presenza del coronavirus tra la popolazione regionale. L’accesso ai test sarà progressivamente aperto a tutti, e resterà consigliato, ma comunque su base volontaria.

Lombardia
In Lombardia, il Policlinico San Matteo di Pavia ha messo a punto con l’azienda DiaSorin un test sierologico che viene eseguito con i comuni prelievi di sangue venoso, quindi diverso dai test con una goccia di sangue dal dito su cui per ora il ministero della Salute mantiene le sue riserve. Secondo i responsabili del Policlinico, è un test ad alta specificità, perché consente di rilevare l’eventuale presenza degli anticorpi per il coronavirus al 100 per cento; la sensibilità del test è invece del 95 per cento, quindi significa che il test “funziona” in 95 casi su 100. Questi criteri rispettano le indicazioni fornite dal ministero della Salute.

La regione Lombardia ha in programma l’avvio dei test sierologici in questi giorni, con l’obiettivo di dedicarli inizialmente alle sole province di Brescia, Bergamo, Lodi e Cremona, dove sono stati registrati numerosi casi di COVID-19 e molti morti.

Presentando l’iniziativa ai primi di aprile, il presidente della regione, Attilio Fontana, aveva detto che questi test avrebbero permesso di dare un “patentino di immunità” per distinguere i potenzialmente immuni dagli altri, ancora suscettibili. Di recente, il direttore dell’Unità di virologia molecolare del Policlinico di Pavia, Fausto Baldanti, ha però nei fatti smentito Fontana, dicendo che: “Il discorso della patente di immunità è molto complicato e io per prudenza non userei questo termine”. Baldanti ha spiegato che i sierologici sono un “tassello importante” aggiuntivo, ma che nessuno scienziato parlerà di “certezza definitiva”, proprio perché mancano ancora elementi chiari circa la durata dell’immunità dopo avere superato l’infezione.

Il problema in Lombardia è che alcuni comuni hanno iniziato ugualmente a impiegare test sierologici, senza avere un riconoscimento formale da parte della regione. Ci sono quindi forti dubbi sulla loro attendibilità e al tempo stesso sulla loro utilità, nel momento in cui si inizierà a svolgere una rilevazione con un unico metodo, come annunciato da Fontana.

Emilia-Romagna
Anche la regione Emilia-Romagna si è attivata per i test sierologici, con un programma di analisi che escluda la possibilità per i singoli privati di acquistare ed effettuare i test. La scelta è dovuta alla necessità di ridurre il rischio di avere risultati non affidabili e soprattutto per non complicare la raccolta di informazioni sanitarie non omogenee. Sono comunque previste possibilità per le aziende di attivarsi per fare i test sul loro personale, nell’ottica di riprendere con minori rischi le attività produttive.

All’estero
Le esperienze di altri paesi mostrano quanto sia piuttosto incerto il panorama dei test sierologici, almeno per ora. A inizio aprile, per esempio, l’Università di Oxford ha comunicato al governo britannico (che l’aveva incaricata) di non avere potuto verificare l’affidabilità di un test per il quale il sistema sanitario aveva avviato un preordine di circa 17milioni di kit. Negli Stati Uniti l’agenzia federale che si occupa di farmaci e certificazioni delle strumentazioni sanitarie (FDA) non si è ancora espressa chiaramente sui sierologici, nonostante diverse aziende abbiano sviluppato kit e alcuni di questi si trovino sul mercato, non sempre per vie totalmente legali.

Anche il governo spagnolo aveva avviato l’acquisto di test per analisi di massa della popolazione, ma senza che ci fossero garanzie sufficienti sull’affidabilità dei risultati. Altri paesi si sono trovati in situazioni simili, dettate dalla necessità di avere in fretta nuovi sistemi per rilevare la presenza del coronavirus tra la popolazione, ed evidentemente senza ritenere di attendere maggiori chiarimenti e dettagli da parte degli organismi scientifici che forniscono le consulenze ai decisori politici.

Prima vera prova
Il test epidemiologico nazionale, per il quale è stato indetto il bando dal commissario straordinario Arcuri sui materiali da impiegare, sarà il primo per farsi un’idea sull’affidabilità dei sierologici e comprendere come impiegarli, anche su una scala più piccola per indagini su focolai localizzati. Le incertezze sul livello di affidabilità rimangono comunque, e questo potrebbe ripercuotersi sui risultati della ricerca.

L’indagine potrebbe avere un ruolo importante nelle valutazioni del governo su come gestire la riapertura, che come ha più volte spiegato il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, sarà graduale e probabilmente differenziata a seconda delle regioni e del numero di casi positivi rilevati.