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  • Domenica 13 settembre 2020

Shinzo Abe ha migliorato la condizione femminile in Giappone?

Aveva promesso di farlo, per rafforzare l'economia e risolvere i problemi demografici, ma per certi versi la situazione è peggiorata

Su una scala mobile di Tokyo, il 3 aprile 2020 (Carl Court/Getty Images)
Su una scala mobile di Tokyo, il 3 aprile 2020 (Carl Court/Getty Images)

Una delle promesse che Shinzo Abe non è riuscito a mantenere, nei suoi nove anni da primo ministro, è stata migliorare la posizione delle donne nella società e nell’economia del Giappone, un paese ancora molto tradizionalista per quanto riguarda i rapporti familiari e i ruoli di genere. Nel 2013 Abe aveva detto che ne dipendeva la prosperità del paese e aveva annunciato un piano per creare un Giappone «in cui le donne potessero splendere»: da allora è riuscito a ottenere una crescita dell’occupazione femminile, ma molti altri obiettivi che Abe si era posto non sono stati raggiunti e per certi versi le cose sono addirittura peggiorate.

Ad esempio, spiega un articolo del New York Times, il governo di Abe si era riproposto di ottenere che fossero donne almeno il 30 per cento dei dirigenti in Giappone: oggi sono meno del 12 per cento. Inoltre anche se l’occupazione femminile è molto aumentata, più della metà delle donne svolgono lavori part-time oppure hanno contratti a tempo determinato che offrono poche possibilità di avanzamento di carriera. Sono impieghi che non rendono le donne autonome, al massimo permettono loro di integrare il reddito familiare. Per questo secondo Nobuko Kobayashi, della società di consulenza giapponese EY Japan, la cosiddetta womenomics di Shinzo Abe non ha migliorato la condizione femminile nella società.

Il New York Times ha raccontato l’esempio di Sayaka Hojo, una 32enne con una figlia che fa l’impiegata. Negli ultimi otto anni di governo di Abe ha avuto tre diversi posti di lavoro; in ognuno la maggior parte dei suoi colleghi erano donne, ma i superiori erano uomini. Ha sempre lavorato part-time perché dovendosi occupare anche dei lavori di casa e della figlia – il marito ha un lavoro a tempo pieno – non riesce a lavorare di più. Però vorrebbe: non pensa che la maternità sia il suo destino e continua ad avere ambizioni sulla sua carriera.

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Per le madri single le cose sono peggiorate: nel 2019 più della metà aveva un reddito sotto la soglia di povertà, quando nel 2012 solo il 45 per cento era in questa condizione. Abe aveva promesso che entro il 2020 non ci sarebbero più state liste di attesa per iscrivere i bambini nei nidi pubblici, ma così non è stato: all’inizio dell’anno c’erano ancora 12.500 bambini sulle liste d’attesa, nonostante nel frattempo il numero di nuovi nati abbia continuato a diminuire. Poi con la pandemia da coronavirus le lavoratrici con contratti a termine e lavori part-time sono state le prime a essere licenziate o a subire riduzioni dell’orario di lavoro.

Un’altra donna, Megumi Mikawa, di 40 anni, ha raccontato al New York Times che lo scorso luglio ha dovuto lasciare il proprio lavoro part-time perché a causa della chiusura delle scuole doveva prendersi cura dei suoi figli, ma non poteva svolgere i suoi compiti a distanza. Non ha potuto chiedere il sussidio introdotto dal governo per i genitori che dovevano stare a casa con i figli perché aveva lasciato il suo impiego volontariamente.

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Rispetto ai leader giapponesi che lo hanno preceduto, Abe si è presentato come più progressista riguardo alle questioni di genere, ma in alcuni casi ha dimostrato di avere opinioni conservatrici. Ad esempio, si è opposto alla richiesta di cambiare una vecchia legge che obbliga le donne sposate a prendere il cognome del marito e ha più volte parlato dell’importanza «della successione in linea maschile» riguardo alla famiglia imperiale. E nei suoi governi ci sono sempre state poche ministre: in quello tuttora in carica sono due su venti.

I membri dell’ultimo governo di Shinzo Abe, in posa, l’11 settembre 2019: le uniche due donne sono la ministra dell’Interno Sanae Takaichi, in basso a destra, e la ministra per i Giochi olimpici e paralimpici Seiko Hashimoto (Tomohiro Ohsumi/Getty Images)

Non si sa ancora chi prenderà il posto di Abe alla guida del suo partito, quello dei Liberal Democratici, e che diventerà così primo ministro, ma nessuno dei tre candidati rimasti in ballo, tutti uomini, sembra particolarmente intenzionato a occuparsi della condizione femminile. Quello su cui è riposta maggiore fiducia dalle donne che vorrebbero un cambiamento è Yoshihide Suga, considerato il braccio destro di Abe e favorito alla successione: diversamente dalla maggior parte dei politici giapponesi, non è ricco di famiglia e quando faceva parte del consiglio comunale di Yokohama si era impegnato per ridurre le liste di attesa dei nidi. Ma è capitato varie volte che dimostrasse di avere idee tradizionaliste sul ruolo delle donne nella società.

Secondo molte giapponesi e diversi esperti di politica, le cose potrebbero cambiare in Giappone se le donne avessero una maggiore rappresentanza politica. Solo il 15 per cento dei parlamentari giapponesi sono donne. In numeri assoluti sono 102 e meno della metà fa parte dei Liberal Democratici. Di recente dieci di loro hanno scritto una lettera ai tre candidati al posto di primo ministro per invitarli a sostenere una riforma per aumentare il numero di donne in Parlamento: consisterebbe nell’introdurre una soglia minima del 3o per cento.

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