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  • Martedì 12 novembre 2019

Per combattere il razzismo bisogna combattere le diseguaglianze

Dall'Europa agli Stati Uniti se gli stati si occupano solo di frontiere è inevitabile che la politica diventi sempre più violenta, scrive l'economista Thomas Piketty su Le Monde

(AP Photo/Rich Pedroncelli)
(AP Photo/Rich Pedroncelli)

Dall’ascesa dei partiti della destra radicale (in Spagna Vox è appena divenuto il terzo partito) al crescente numero di manifestazioni e attacchi violenti dell’estrema destra, sono sempre più numerosi i segnali di come la politica europea si stia radicalizzando. La polarizzazione che spesso divide i nostri paesi corre lungo linee razziali ed etniche, come avviene da tempo negli Stati Uniti e in molti altri paesi del mondo. Secondo l’economista francese Thomas Piketty, uno dei massimi esperti mondiali di diseguaglianze, l’Europa deve guardare proprio a quei paesi per imparare come affrontare questa situazione ed evitare di scivolare in un confronto politico violento e razzista.

In un articolo sul sito del quotidiano francese Le Monde, Piketty scrive che per lungo tempo gli europei hanno osservato a distanza di sicurezza il dispiegamento di queste dinamiche negli Stati Uniti, un paese dove da oltre un secolo la politica è genuinamente “etnica”. In altre parole: origine, cultura e tratti somatici costituiscono spesso ottimi predittori delle preferenze politiche degli individui.

All’inizio di quest’epoca, prima e durante la Guerra Civile, il Partito Democratico statunitense era il partito della schiavitù, mentre i Repubblicani, come il presidente Abraham Lincoln, erano, in sostanza, abolizionisti. A partire dal 1870, dopo la guerra, i democratici iniziarono a cambiare. La difesa della schiavitù non era più un obiettivo praticabile e così iniziarono gradualmente ad adottare quello che Piketty chiama un “differenzialismo sociale”: «Erano violentemente segregazionisti nei confronti dei neri, ma più egualitari dei Repubblicani nei confronti della popolazione bianca (in particolare nei confronti dei nuovi immigrati provenienti da Italia e Irlanda)».

I democratici, ad esempio, appoggiarono l’introduzione della prima imposta federale sul reddito nel 1913 e poi i primi tentativi di creare un sistema di protezione sociale dopo la crisi del 1929, mentre molti di loro si schierarono contro il proibizionismo che, sotto la maschera di una campagna contro gli alcolici, era in realtà una battaglia dell’America rurale e anglosassone contro i nuovi immigrati residenti nelle grandi città.

Poi, negli anni Trenta e negli anni Quaranta, sotto la guida del presidente Franklin Delano Roosevelt, i Democratici si spostarono ancora più “a sinistra”: divennero il partito del “New Deal”, della spesa pubblica e dell’intervento dello stato nell’economia per alleviare le condizioni dei più poveri colpiti dalla crisi. Ci vollero altri 30 anni, ma alla fine la lotta alle diseguaglianze portata avanti dal partito finì per includere anche i neri e le altre minoranze. Negli anni Sessanta, sotto la pressione dei gruppi per i diritti civili, il Partito Democratico terminò la sua svolta di 180 gradi rispetto al suo passato segregazionista e divenne il partito dei diritti civili e dell’inclusione delle minoranze.

Allo stesso tempo, continua Piketty, il Partito Repubblicano ha gradualmente riempito il vuoto che i Democratici stavano lasciando: rappresentare quegli americani che credono che le minoranze ricevano troppe attenzioni. Il processo iniziò con il presidente Richard Nixon, proseguì con Ronald Reagan e ha probabilmente raggiunto il suo culmine con Donald Trump e il suo appoggio ai suprematisti bianchi che due anni fa hanno marciato a Charlottesville. «Non stupisce quindi – scrive Piketty – che dagli anni Sessanta la percentuale di neri che vota per il Partito Democratico si aggiri intorno al 90 per cento».

Questa divisione dell’elettorato su base razziale-etnica sta arrivando anche in Europa. I cittadini di origine straniera, rigettati dalla destra, si rifugiano negli unici partiti che offrono loro una rappresentanza, quelli di sinistra o comunque dell’arco progressista. È un fenomeno che si può misurare soltanto da pochi anni e soltanto in alcuni paesi, quelli dove significativi numeri di persone di origine straniera hanno ottenuto la cittadinanza. Piketty fa l’esempio della Francia, dove alle elezioni del 2012 il 77 per cento di coloro che dichiaravano di avere origini extra-europee ha votato per il candidato del Partito Socialista (una percentuale molto simile all’89 per cento di neri che hanno votato per Hillary Clinton alle presidenziali americane del 2016).

Piketty ricorda che in teoria l’Europa sembra un luogo dove queste tensioni dovrebbero essere meno pronunciate. Tra gli immigrati provenienti dal Nord Africa di prima generazione il tasso di matrimoni misti è del 30 per cento, contro appena il 10 per cento dei neri americani. Ma secondo l’economista, la questione religiosa e l’ostilità all’Islam (un problema quasi del tutto assente negli Stati Uniti) rendono la questione europea potenzialmente più intrattabile di quella americana.

Secondo Piketty un paragone più efficace è con quello che sta accadendo in India dove, al posto dei partiti cosiddetti “sovranisti” europei (un modo edulcorato per indicare la destra radicale), c’è il partito nazionalista hindi BJP, guidato dal presidente indiano Narendra Modi. In India, la linea di frattura politica costruita da Modi e dai suoi alleati passa tra il vegetarianesimo dei più convinti aderenti all’induismo e il consumo di carne bovina da parte dei musulmani. In Europa, osserva Piketty, la stessa linea divide, ad esempio, i favorevoli e i contrari all’utilizzo del velo da parte delle donne di religione musulmana.

La componente religiosa, secondo Piketty, contribuisce a rendere lo scontro sempre più violento. Il BJP indiano, come il Front National francese, accusa chi difende i diritti della minoranza musulmana di essere un alleato delle sue componenti più violente. Difendere i diritti dei musulmani viene additato come equivalente al sostegno al terrorismo estremista. In Europa, gli avvocati dei diritti dei migranti sono accusati di essere parte di complotti che mirano alla “sostituzione etnica”. Involontariamente, i difensori delle minoranze possono finire per contribuire a esacerbare lo scontro, scrive Piketty, ad esempio difendendo di più il diritto delle donne musulmane a indossare il vero che l’altrettanto importante diritto a non indossarlo se non vogliono.

«Come si sfugge a questa spirale di conflitti?», si domanda l’economista e la risposta che si dà è che bisogna almeno in parte partire dalla lezione appresa a inizio secolo dal Partito Democratico americano: cominciare non dall’identità, ma dalla questione economica, dalle diseguaglianze e dalle discriminazioni. In altre parole, fare della questione razziale ed etnica non una guerra culturale, ma una questione di equità. Piketty cita ad esempio gli innumerevoli studi che dimostrano che in Europa chi ha un nome con un’assonanza araba ha molta più difficoltà a ottenere un colloquio di lavoro. Questo tipo di discriminazioni sono quelle che prima di tutte devono iniziare ad essere monitorate e quindi combattute.

Ma più in generale, la guerra identitaria e culturale viene alimentata dall’assenza di una discussione sulla giustizia economica. «Se abbandoniamo ogni discussione su possibili alternative economiche – sostiene Piketty – se continuiamo a spiegare che lo stato non può fare nulla tranne sorvegliare le frontiere, allora non dobbiamo sorprenderci se la discussione politica rimane focalizzata solo su frontiere e identità». Per Piketty, tutti coloro che non credono allo scontro tra populisti nazionalisti ed elite cosmopolite dovrebbero mettersi d’accordo su un programma di trasformazione economica, in grado di introdurre giustizia sociale ed educativa, andare oltre l’idea di proprietà esclusivamente capitalistica e di pensare delle reali e importanti riforme per i trattati europei. «Se non ci riusciamo – conclude – i nostalgici della violenza fascista rischiano di vincere».