Il “Giovedì nero” del 1929

Esattamente 90 anni la Borsa di Wall Street crollò segnando l'inizio della Grande Depressione, la più grande crisi economica del mondo moderno

(AP File Photo)
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Quando la mattina del 24 ottobre il suono della campanella segnalò l’inizio delle contrattazioni nella Borsa di Wall Street, a New York, l’indice di mercato stava già perdendo 11 punti percentuali. Dopo settimane di timori, i broker erano completamente nel panico e vendevano a più non posso. Alcuni grossi finanzieri cercarono di tranquillizzare il mercato intervenendo con massicci acquisti e a sera le perdite erano state ridotte al 6 per cento. Ma si trattò di un sollievo momentaneo. Nei quattro giorni successivi i prezzi delle società quotate collassarono. Quello che passò alla storia come il “Giovedì nero” del 1929 segnò l’inizio della Grande Depressione, la più grande crisi economica che si sia verificata nell’epoca moderna.

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Già negli anni successivi al crollo si iniziarono a studiarne le cause per evitare che una simile situazione si riproponesse di nuovo. Da allora gli studi non sono mai cessati e spesso esperti, storici ed economisti sono arrivati a conclusioni diametralmente opposte su quale fu la causa principale del collasso. Quello su cui oggi si è raggiunto un sostanziale consenso è che a rendere profonda la crisi e a impedire che venisse risolta con minori danni fu la mancanza di strumenti adatti da parte di governi, banche e banche centrali e la scarsa comprensione della complessità raggiunta dai mercati finanziari dell’epoca.

In sostanza, il Giovedì nero fu lo scoppio di una bolla che era stata alimentata nel corso del decennio precedente. A gonfiare questa bolla erano state la Prima guerra mondiale e le sue conseguenze. Con gli stati europei impegnati a distruggersi l’uno con l’altro, le banche americane avevano fatto affari d’oro prestando capitali soprattutto a Francia e Regno Unito. Nel dopoguerra, i ricchi interessi su questi prestiti continuavano ad affluire negli Stati Uniti e le banche americane si ritrovarono con le casse piene di soldi.

Questa massa di capitali che le banche americane prestarono all’economia fu il carburante con cui si alimentarono i “Ruggenti anni Venti”, il decennio di crescita economica celebrato in romanzi come “Il Grande Gatsby”. Ma mentre tutto sembrava andare bene, sotto la superficie i problemi si accumulavano. Le banche americane avevano talmente tanti soldi che iniziarono a prestarli un po’ a tutti, senza fare molto caso a chi aveva una solida situazione finanziaria e chi invece rappresentava un rischio. A questo va aggiunto che, negli anni Venti, non c’erano gli strumenti che le banche hanno a disposizione oggi per valutare il merito di un creditore.

Nel frattempo, la banca centrale americana, la FED, iniziava a guardare con preoccupazione il surriscaldarsi della situazione economica e i suoi esperti iniziarono a domandarsi fino a che punto si poteva continuare a permettere una crescita così disordinata dell’economia. Nel 1928, la FED prese una decisione fatale: ordinò alle banche commerciali di procedere alla sterilizzazione delle riserve d’oro.

All’epoca il dollaro, come gran parte delle monete al mondo, era legato all’oro: ogni banconota poteva essere cambiata con una quantità prestabilità di oro e per questo le banche commerciali erano obbligate a detenere una certa quantità di oro (depositata in genere nei bunker della FED). In tempi di crescita economica, la FED chiudeva un occhio sul fatto che le banche mettevano in circolazione più denaro di quanto oro avessero in deposito. Ma a partire dalla sterilizzazione del 1928, la FED impose loro di aumentare le proprie riserve e di renderle pari al denaro in circolazione.

La sterilizzazione significò il blocco improvviso dei prestiti. Quasi tutte le banche arrestarono immediatamente le loro operazioni mentre si affannavano ad accumulare nuove riserve. L’intervento inizialmente sembrò sortire l’effetto desiderato: l’economia surriscaldata dai prestiti iniziò a rallentare. Ma i dirigenti della FED non sapevano che il loro intervento aveva avuto fin troppo successo: l’economia non stava semplicemente rallentando, stava venendo soffocata.

Nel corso del 1929 i segnali di allarme si accumularono uno dopo l’altro. La produzione di acciaio rallentò, le vendite di auto diminuirono e il numero di privati e aziende che dichiaravano bancarotta perché non erano più in grado di ripagare i propri debiti iniziò ad aumentare in maniera preoccupante. Ma la borsa, a parte un paio di momenti di panico, non registrò immediatamente quel che stava succedendo. Soltanto a settembre i segnali divennero impossibili da negare. Poi, alla fine di ottobre, tra giovedì 24, il “Black Thursday”, e il crollo finale di lunedì 28, il “Black Monday”, la borsa collassò.

Il crollo di Wall Street non fu la causa della Grande Depressione, ma fu il momento in cui divenne chiaro in tutto il mondo che qualcosa di irreparabile era accaduto. La crisi economica era già iniziata e sarebbe durata anche quando la borsa riprese a crescere timidamente. Le sue conseguenze si fecero sentire anche in Europa e nel resto del mondo. Secondo calcoli moderni, nel periodo tra il 1929 e il 1932 il PIL mondiale scese del 15 per cento, a confronto di un tenue 1 per cento durante la recessione del 2008-2009. E questo calo colpì società molto più povere delle attuali, dove il livello di vita e gli standard alimentari e sanitari erano considerevolmente peggiori degli attuali.

Fu proprio la mancanza di comprensione e di strumenti con cui rispondere alla crisi che rese la Grande Depressione particolarmente grave e profonda. Non volendo ripetere l’errore degli anni Venti, la FED rimase testardamente legata alla parità con l’oro, rifiutandosi di allentare la cinghia delle banche e permettere loro di tornare a prestare soldi all’economia in difficoltà. Da questi episodi economisti come John Maynard Keynes trassero l’idea che in tempi di crisi lo stato doveva intervenire con la spesa pubblica per supplire alla domanda scomparsa a causa del settore privato in crisi. Negli anni Settanta, gli economisti monetaristi ne trassero una lezione sull’importanza di tenere sotto controllo gli aggregati monetari, cioè i soldi in circolazione, e gli altri indicatori macroeconomici.

Queste lezioni però arrivarono tardi per i paesi travolti dalla crisi, che in molti posti durò più di un decennio e causò enorme sofferenza alla popolazione. I primi ad uscirne furono gli Stati Uniti e per farlo il paese ebbe bisogno del grande piano di investimenti pubblici “New Deal”, avviato negli anni Trenta dal presidente Franklin Delano Roosevelt. Ma ancora più importante fu il successivo e mastodontico investimento pubblico: l’intervento armato nella Seconda guerra mondiale.