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  • Lunedì 30 settembre 2019

Manca un mese a Brexit

Se non ci sarà una richiesta di rinvio, il prossimo 31 ottobre il Regno Unito sarà fuori dall'Unione Europea: tutto quello che c'è da sapere per restare aggiornati

(Dan Kitwood/Getty Images)
(Dan Kitwood/Getty Images)

Il prossimo 31 ottobre potrebbe essere la fine della lunga e tormentata storia di Brexit, l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea. A meno di sorprese, alla mezzanotte del 31 ottobre – ora dell’Europa centrale – il Regno Unito sarà fuori dall’Unione, perché scadrà la proroga ai termini di Brexit concessa al governo britannico dai leader europei la scorsa primavera: se nel frattempo i britannici non avranno chiesto e ottenuto un nuovo rinvio, Brexit diventerà infine reale.

L’uscita potrà avvenire in due modi: con un accordo che metta un po’ d’ordine alla situazione o, come oggi sembra più probabile, con un “no deal”, senza alcun accordo, in una situazione che potenzialmente potrebbe divenire molto caotica.

Cosa cambierà il 31 ottobre?
In caso di uscita con accordo, è probabile che nel breve termine le vite dei cittadini britannici, europei e degli europei che vivono nel Regno Unito cambieranno poco, e inizierebbe un regime transitorio. Le cose sono un po’ più complesse e preoccupanti nel caso di “no deal”. Il rischio più grave, quello del caos nel trasporto aereo con centinaia di voli cancellati alla mezzanotte del 31 ottobre, sembra essere stato scongiurato da una serie di piani di emergenza sui quali Unione Europea e Regno Unito si sono accordati in precedenza.

Il governo britannico ha inoltre promesso che i cittadini europei che attualmente risiedono nel Regno Unito non avranno problemi in caso di “no deal” e che i diritti di cui godono oggi saranno mantenuti. Sono in molti però a temere che un’uscita senza accordo renderà il loro status più incerto. Anche qui nel breve termine non dovrebbero esserci conseguenze per chi già oggi risiede nel Regno Unito. Per quanto riguarda invece le visite al Regno Unito, anche in caso di “no deal” non cambierà nulla: almeno nel breve termine, si potrà ancora andare nel Regno Unito dai paesi dell’Unione Europea senza bisogno di visto.

Le conseguenze più gravi di un’uscita senza accordo sarebbero con ogni probabilità le difficoltà a importare ed esportare merci dall’Unione Europea al Regno Unito. Senza più gli accordi di libero scambio a tenere aperte le frontiere, i doganieri da entrambi i lati del confine inizieranno a effettuare controlli sulle merci di passaggio creando inevitabilmente giganteschi ingorghi.

Uno dei piani del governo britannico prevede di trasformare decine di chilometri di autostrada vicino al porto di Dover in un immenso parcheggio per i TIR in attesa dei controlli. Piani simili sono stati adottati dal governo francese dall’altro lato della Manica. Nel piano del governo britannico in cui si descrive lo scenario peggiore di un “no deal” si parla di un aumento dei prezzi dei beni alimentari, una riduzione delle forniture di medicine e disordini ai confini.

Come siamo arrivati a questo punto?
La storia in breve è questa: circa un anno fa il precedente governo britannico, guidato dalla conservatrice Theresa May, era riuscito a trovare un accordo per uscire dall’Unione Europea. I leader europei erano pronti ad approvare l’accordo, ma il Parlamento britannico lo aveva bocciato più volte. L’opposizione all’intesa era arrivata soprattutto dalla corrente di destra dello stesso Partito Conservatore di Theresa May, che sosteneva che l’accordo non fosse una vera separazione dall’Europa. Dopo aver tentato tre volte di farlo approvare senza successo, lo scorso luglio May si era dimessa.

Al suo posto è divenuto primo ministro e leader del Partito Conservatore Boris Johnson, esponente della destra del partito e disposto a tutto pur di uscire dall’Unione Europea: anche a rischiare le incertezze di un “no deal”. Fino a questo momento il governo Johnson ha avuto una vita turbolenta, con frequenti scontri con le opposizioni e con gli stessi membri del Partito Conservatore, scontri nei quali Johnson ha spesso avuto la peggio anche in Parlamento.

La sua ultima sconfitta è stata la decisione della Corte suprema britannica di dichiarare illegale la sospensione dei lavori parlamentari che Johnson aveva adottato per avere le mani libere nelle ultime settimane prima di Brexit.

– Leggi anche: Cosa ha sbagliato Boris Johnson?

Cosa dice l’opposizione?
L’opposizione non è messa molto meglio. Al momento i partiti di opposizione sono più o meno divisi in due campi: da un lato il Partito Laburista, guidato da Jeremy Corbyn, che è piuttosto combattuto su Brexit. Circa il 90 per cento dei suoi parlamentari, attivisti e dirigenti è favorevole a restare nell’Unione Europea, ma più o meno un terzo dei suoi elettori ha votato per uscire dall’Unione Europea.

Corbyn fino a oggi ha deciso di gestire questa complicata situazione stando nel mezzo, senza schierarsi completamente né per restare né per uscire (e attirandosi per questo parecchie accuse da tutte le parti). La posizione ufficiale del partito è andare rapidamente ad elezioni, raggiungere un nuovo accordo sull’uscita con l’Unione Europea e sottoporre l’accordo a un nuovo referendum (nel quale il partito potrebbe restare neutrale). I Laburisti, comunque, hanno detto che non appoggeranno elezioni anticipate fino a che il governo Johnson non avrà chiesto e ottenuto un rinvio di Brexit, sempre nel caso che non venga trovato un nuovo accordo con l’Unione Europea entro la metà di ottobre.

Nell’altro fronte dell’opposizione al governo ci sono invece i LibDem e gli scozzesi del SNP, entrambi fermamente contrari all’uscita dall’Unione Europea. L’SNP ha minacciato di indire un nuovo referendum sull’indipendenza scozzese in caso di “no deal”, mentre i LibDem si presentano apertamente come “il partito del Remain”. Laburisti, LibDem e l’SNP sono divisi non solo su Brexit ma anche su molti altri temi, oltre che da rivalità e antipatie personali. Anche per queste ragioni fino ad oggi hanno faticato ad agire insieme.

Come si può evitare il “no deal”?
Ci sono soltanto due possibilità. La prima è che il Parlamento britannico voti un accordo per uscire ordinatamente dall’Unione Europea. Al momento esiste solo un accordo di questo genere: quello ottenuto da Theresa May e bocciato per tre volte dal Parlamento britannico. Sembra molto improbabile che nei prossimi trenta giorni Johnson o qualcun altro riesca a negoziarne uno nuovo, anche perché, come ha detto Michel Barnier, capo negoziatore dell’Unione Europea su Brexit, finora il governo britannico non ha fatto proposte alternative all’accordo su May, e i negoziati sono praticamente fermi da mesi.

Se il Parlamento non riuscirà ad accordarsi, l’unica altra possibilità per evitare il “no deal” è chiedere un nuovo rinvio della scadenza di Brexit. Per farlo il governo britannico dovrà inviare una lettera formale ai capi di governo europei, i quali dovranno approvare la richiesta di rinvio con un voto all’unanimità: basta anche un solo voto contrario e il Regno Unito non riceverà alcuna proroga. Il timore di molti esponenti dell’opposizione è che Johnson possa provare a convincere qualche capo di stato o di governo dell’Unione Europea – come il primo ministro ungherese Viktor Orbán – a votare contro la richiesta di rinvio.

Attualmente una legge votata dal Parlamento britannico obbliga il governo a inviare una richiesta di rinvio se entro il prossimo 17 ottobre non sarà stato votato un accordo per un’uscita regolare. Johnson però ha detto più di una volta che non chiederà mai alcun rinvio di Brexit, anche a costo di infrangere la legge, e diversi membri del suo governo hanno fatto sapere che potrebbero trovare il modo di non rispettare il vincolo. La richiesta di proroga e lo scontro per obbligare il governo a rispettarla potrebbero essere il prossimo principale terreno di scontro della politica britannica.