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  • Sabato 26 gennaio 2019

Il metodo Qatar

Per diventare un paese competitivo nello sport il Qatar ha messo in piedi un sistema che con la sua ricchezza abbatte regole, confini e diritti umani

Il difensore qatariota Bassam al-Rawi indica lo stemma nazionale sulla maglia dopo un gol segnato al Libano in Coppa d'Asia (GIUSEPPE CACACE/AFP/Getty Images)
Il difensore qatariota Bassam al-Rawi indica lo stemma nazionale sulla maglia dopo un gol segnato al Libano in Coppa d'Asia (GIUSEPPE CACACE/AFP/Getty Images)

Di sceicchi, soldi e sport si parla da almeno un decennio, ma solo nei prossimi quattro anni i ricchi paesi della penisola araba diventeranno veramente protagonisti dei maggiori eventi sportivi mondiali, con i quali ambiscono a guadagnare rilievo internazionale. Dopo aver consolidato la loro presenza negli sport motoristici — i primi arrivati sulle coste del Golfo Persico dopo l’ascesa economica della regione — ora è iniziato il quadriennio arabo dello sport internazionale.

Nelle prime settimane del 2019 gli Emirati Arabi Uniti hanno ospitato la prima edizione della Coppa d’Asia aperta a ventiquattro squadre. Il torneo è stato vinto abbastanza incredibilmente dal Qatar, una delle tre nazionali mediorientali arrivate in semifinale.

Nello stesso anno proprio il Qatar ha ospitato per la prima volta i Mondiali di atletica leggera, che non sono andati benissimo: gli atleti hanno trovato un clima insopportabile, gare organizzate a notte fonda e tribune semivuote ben prima della pandemia. Nel frattempo, però, il paese ha continuato a prepararsi per l’evento più atteso e discusso, i Mondiali di calcio del 2022, che si giocheranno per la prima volta in inverno per via delle condizioni climatiche del paese.

L’ex presidente della FIFA Joseph Blatter porge la Coppa del Mondo ad Hamad bin Khalifa al-Thani, emiro del Qatar dal 1995 al 2013 (Laurence Griffiths/FIFA via Getty Images)

Le nazioni della regione hanno avviato per tempo dei progetti, più o meno ambiziosi, per accrescere presenza e competitività negli sport più conosciuti. L’Arabia Saudita, per esempio, prima dei Mondiali in Russia ha stretto un accordo con la federazione calcistica spagnola per mandare nei campionati locali una decina dei suoi migliori giocatori, sperando in qualche beneficio. L’autorità sportiva saudita si è inoltre accordata con Lega Serie A per disputare in Arabia Saudita tre delle prossime cinque edizioni della Supercoppa italiana, generando polemiche già alla prima edizione.

Ma il paese che sta portando avanti il piano più ambizioso è il Qatar, una piccola nazione un tempo praticamente disabitata. La famiglia che governa il paese ha cominciato a investire nello sport più di un decennio fa, sostenuta dal nono fondo sovrano più ricco al mondo (nel 2018 di circa 320 miliardi di dollari, derivati principalmente dalla produzione di gas).

Anni fa l’ambasciatore statunitense a Doha – lo stesso che aveva definito il Qatar «un’impresa familiare con un seggio alle Nazioni Unite» – scrisse in un rapporto che il paese si sarebbe trovato presto con talmente tanti soldi da non saperne cosa fare. Una parte di quel gigantesco surplus è stato impiegato nello sport, in particolare nel calcio, la grande passione dello sceicco Jassim bin Hamad bin Khalifa Al Thani, figlio dell’emiro che di fatto ha portato avanti la modernizzazione del paese.

Aspire
Jassim prese il controllo del progetto sportivo del Qatar nei primi anni Duemila. La base di tutto fu l’Aspire Zone, un’entità creata per diventare un centro formativo d’eccellenza per atleti. Ma all’epoca di atleti qatarioti non ce n’erano. La popolazione locale era di poco superiore ai due milioni — molti dei quali stranieri lì solo temporaneamente — e la tradizione sportiva praticamente non esisteva: le discipline più seguite erano le corse con i cammelli e la falconeria. Come riporta Sebastian Abbott nel suo libro Fuori Casa oltre la metà della popolazione era considerata in sovrappeso per via di uno stile di vita sedentario.

Alle Olimpiadi di Rio de Janeiro del 2016 il Qatar è riuscito comunque a mandare trentanove atleti, il numero più alto di sempre. Di questi trentanove, ventitré erano nati fuori dal Qatar: c’erano corridori sudanesi, pugili tedeschi, giocatori di beach volley brasiliani e pallamanisti slavi, tutti ingaggiati per provare a vincere qualcosa. A Tokyo 2020 il Qatar si è presentato con meno della metà degli atleti, ma ha ottenuto risultati nettamente migliori, vincendo per esempio le sue due prime medaglie d’oro: una con un egiziano naturalizzato, l’altra con un altista nato a Doha da genitori sudanesi.

L’Aspire Zone venne costituita nel 2003 per fare del Qatar una nazione dedita anche allo sport. Da allora coordina e indirizza l’operato di tre società controllate: una per la formazione degli atleti, una per l’organizzazione logistica di eventi e la terza per la fornitura di assistenza medica d’eccellenza. La più nota di queste è la prima, l’Aspire Academy, un mastodontico centro sportivo di 290.000 metri quadri la cui costruzione è costata (si dice) oltre 1 miliardo e 300 milioni di dollari. Il suo obiettivo è diventare entro il 2020 il miglior centro formativo d’eccellenza al mondo: a giudicare da quello che ha ottenuto negli ultimi anni, pare ci stia riuscendo.

Il PSG in allenamento all’Aspire Academy nel 2012. In lontananza il Khalifa International Stadium (KARIM JAAFAR/AFP/Getty Images)

Nella sosta invernale del 2019 l’Aspire Academy di Doha ha ospitato i ritiri di dieci squadre europee, molti dei quali organizzati in contemporanea, data la vastità del centro. Bayern Monaco, Paris Saint-Germain (dal 2011 di proprietà del fondo sovrano qatariota), PSV Eindhoven, Club Brugge, Eupen, Zenit, Spartak Mosca, Lokomotiv Mosca e Rostov hanno usufruito delle strutture di allenamento all’avanguardia e delle tecnologie del centro medico d’eccellenza Aspetar, riconosciuto come tale dalla FIFA.

Le stesse strutture sono impiegate durante l’anno per la formazione dei nuovi atleti qatarioti. Nel 2018 il centro ha diplomato quarantadue ragazzi, i quali hanno portato a 352 il numero complessivo di diplomati negli ultimi dieci anni. Ha poi formato quasi ogni componente della nazionale di calcio qatariota under-23, terza classificata all’ultima Coppa d’Asia giovanile, oltre alla medaglia di bronzo nei 400 metri ostacoli ai Mondiali under-20 e la medaglia d’oro nei 110 ostacoli ai Giochi olimpici giovanili.

Football Dreams
L’Aspire Academy si occupa di decine di attività sportive ma la sua struttura calcistica è la più complessa e ambiziosa. Nel 2022 il Qatar diventerà la prima nazionale ospitante di un Mondiale a esordirci soltanto in quanto paese organizzatore. Le origini della tradizione calcistica del paese risalgono agli anni Cinquanta, ma il gioco ci mise un oltre un ventennio a radicarsi. La federazione calcistica nazionale si iscrisse alla confederazione asiatica nel 1970, acquisendo solo allora il diritto di partecipare alle competizioni continentali. L’esordio in Coppa d’Asia avvenne in Kuwait nel 1980. Oltre alla scarsa tradizione, il successo del calcio in Qatar è inevitabilmente ostacolato dalle ridotte dimensioni del paese: i calciatori sono appena seimila.

Ma questi limiti, invalicabili per qualsiasi altra nazione al mondo, sono stati letteralmente abbattuti dalla ricchezza e dalle ambizioni della famiglia regnante, portate avanti dallo sceicco Jassim. La ricchezza del paese ha garantito finanziamenti e strutture, ma non avendo nessun know-how calcistico, nel 2007 Jassim si affidò al talent scout spagnolo Josep Colomer, il quale creò Football Dreams, definito il più grande progetto di scouting nella storia dello sport. Colomer aveva lavorato come assistente nella nazionale brasiliana campione del mondo nel 2002 ma soprattutto era stato responsabile del famoso settore giovanile del Barcellona. Ebbe un ruolo fondamentale nell’inizio del ciclo più vincente nella storia del club catalano e fu il dirigente che contribuì a lanciare la carriera del più forte giocatore nella storia del calcio, Lionel Messi, promuovendolo fino alla squadra riserve anticipando i tempi.

Josep Colomer e Lionel Messi nel 2008 all’Aspire Academy (KARIM JAAFAR/AFP/Getty Images)

Colomer aveva già condotto ricerche di talenti in ogni parte del mondo quando il Qatar lo contattò per avviare Football Dreams, il progetto con cui negli ultimi quindici anni ha visionato migliaia di ragazzini, la maggior parte dei quali in Africa, il continente meno frequentato dagli osservatori europei. Lo scopo del progetto è tuttora quello di inviare all’Aspire i migliori talenti scovati nelle ricerche: quello che però non è mai stato chiarito è quali siano le vere ragioni a monte, anche perché nel corso degli anni le carriere di migliaia di ragazzini spediti in Qatar sono state dirottate in varie direzioni.

In principio le ragioni del progetto Football Dreams erano formative: creare le nuovi nazionali di calcio qatariote. Ma dopo l’assegnazione del Mondiale del 2022 il paese tentò più volte di convincere calciatori stranieri, soprattutto brasiliani, a trasferirsi: una scorciatoia già praticata in altri sport per evitare figuracce in tornei di rilevanza internazionale. Questi tentativi diventarono però talmente frequenti da allertare la FIFA, che nel 2008 irrigidì le regole per la naturalizzazione dei calciatori: oggi l’idoneità nazionale viene concessa solo se il giocatore richiedente ha trascorso ininterrottamente cinque anni, dopo averne compiuti diciotto, nel paese che andrà a rappresentare.

Pedro Miguel, terzino brasiliano naturalizzato qatariota (GIUSEPPE CACACE/AFP/Getty Images)

Le nuove norme di idoneità nazionale hanno complicato i piani del Qatar ma non li hanno sospesi. Il paese si è presentato alla Coppa d’Asia negli Emirati Arabi con una squadra competitiva come forse non aveva mai avuto, allenata dallo spagnolo Felix Sanchez, ex allenatore delle giovanili del Barcellona (e dell’Aspire Academy). Il Qatar era data tra le favorite in partenza e infatti ha vinto  riuscendo a battere squadre più quotate come Arabia Saudita e Corea del Sud.

Sul campo ha meritato la posizione che ha raggiunto, ma c’è chi ne ha contestato la validità. Il miglior marcatore del torneo, Almoez Ali, è un sudanese naturalizzato qatariota. La sua idoneità a giocare per la nazionale è stata contestata insieme a quella di un compagno di squadra, Bassam Al-Rawi, poiché in entrambi i casi sarebbe stata concessa pur non soddisfacendo il requisito di cinque anni di permanenza nel paese per gli stranieri.

Lo staff delle nazionale qatariota: a destra Felix Sanchez (KHALED DESOUKI/AFP/Getty Images)

Le carriere di Almoez Ali e Al-Rawi, così come quelle di altri sei componenti della nazionale, hanno in comune una militanza nell’Aspire e poi in una piccola squadra belga, l’Eupen. L’Aspire Zone l’ha comprata per mandarci a giocare i suoi migliori talenti, dato che questi non avrebbero avuto nessuna possibilità di crescere restando a Doha a disputare amichevoli con squadre europee in mancanza di avversari locali. Nel 2011 l’Eupen era in seconda divisione e vicina alla bancarotta: ora è in prima divisione, è allenata dall’ex centrocampista del Real Madrid Claude Makélélé e ogni stagione viene composta da diversi giocatori provenienti dall’Aspire o dall’altro club europeo controllato dai qatarioti, il Cultural Leonesa.

Chi ne paga le conseguenze
I piani del Qatar sono costati oltre un miliardo di dollari, ne costeranno altri e in tutti questi anni hanno impiegato migliaia di lavoratori da ogni parte del mondo. L’Aspire Zone occupa tuttora decine di allenatori, preparatori  e consulenti occidentali, tra i quali l’italiano Valter Di Salvo, ex preparatore di Roma, Real Madrid e Manchester United, e l’esperto allenatore serbo Bora Milutinovic. Per arrivare a selezionare le centinaia di giocatori professionisti che ora orbitano attorno all’accademia e formano gran parte delle nazionali del paese, migliaia ne sono stati scartati nelle varie fasi.

A tutti i ragazzi portati a Doha, il Qatar paga una piccola quota di mantenimento e invia alle famiglie un contributo mensile: nel caso delle famiglie più povere, questo contributo arriva a essere anche settanta volte superiore alle paghe dei genitori. I soldi inviati alle famiglie dei giocatori africani spesso creano dispute per le richieste di indennizzi da parte di presunti dirigenti e allenatori delle squadre locali che ritengono di aver avuto un ruolo nel percorso formativo dei ragazzi.

A Doha la formazione dei calciatori comprende anche delle ore di attività scolastica, ma i diversi luoghi di provenienza e le differenze fra i trascorsi studenteschi dei ragazzi complicano inevitabilmente l’efficacia dei corsi. Di recente, inoltre, diversi ragazzi dell’accademia si sono lamentati di non avere il controllo delle loro carriere e di non aver potuto accettare contratti da squadre europee perché bloccati dai dirigenti. La permanenza all’Aspire dipende poi esclusivamente dal rendimento nell’attività sportiva. Questo vuol dire che qualsiasi ragazzo può essere tagliato anche dopo anni di permanenza a Doha, da dove poi dovrà ritornare a casa nel giro di qualche giorno.

Il cantiere dello stadio di Lusail, una delle sedi dei Mondiali del 2022 (FIFA World Cup Event via Getty Images)

Il prezzo più alto delle ambizioni del Qatar, però, viene pagato dagli operai impiegati nella costruzione delle strutture. Delle pessime condizioni di lavoro nel paese, dei lavoratori sfruttati, delle misure di sicurezza insufficienti e delle morti tra gli operai, si parla da anni senza che efficaci contromisure siano mai state veramente adottate. Tre anni fa Amnesty International, l’organizzazione non governativa che si occupa della difesa dei diritti umani in tutto il mondo, diffuse un rapporto sui maltrattamenti e gli abusi non solo nei cantieri per i Mondiali, ma anche nei siti di costruzione del Qatar National Vision 2030, il progetto che dovrebbe trasformare il paese “in una società avanzata in grado di raggiungere uno sviluppo sostenibile”.

Gli operai, quasi esclusivamente stranieri e provenienti dal sud-est asiatico, subiscono trattamenti spaventosi e sono costretti a vivere ammassati in pochi metri quadrati dentro strutture fatiscenti, percepiscono salari miseri e non hanno la possibilità di lasciare il paese perché i loro passaporti vengono confiscati dai datori di lavoro: di fatto una condizione di semi-schiavitù. Secondo molte organizzazioni non governative, nei cantieri qatarioti sarebbero morti più di cinquemila operai.

In seguito alle indagini di ong e FIFA, gli organizzatori si sono limitati ad adottare un protocollo standard di sicurezza e a garantire maggiori tutele agli operai, che però continuano a morire sul lavoro. L’ultima notizia risale allo scorso agosto, quando il comitato organizzatore ha annunciato il decesso di un operaio nepalese di 23 anni senza però aggiungere nessun altro dettaglio.