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Saviano su Gomorra in tv, e tutto il resto

Una giornata tedesca a parlare del rinnovato successo delle sue cose, del rinnovato tormento della sua vita, dell'America e di altro ancora

di Francesco Costa – @francescocosta

Roberto Saviano a un certo punto mi dice: «A me è servito questo sostegno, perché se no sei solo».

Stiamo parlando insieme di Gomorra, la serie tv tratta dal suo famoso libro del 2006, e della sua più importante e delicata scelta di sceneggiatura; ma è una frase che potrebbe riferirsi a molte delle altre cose che Saviano racconta. Siamo a Monaco, in Germania: lui è arrivato sabato 28 giugno per presentare la serie di Gomorra al “Filmfest München”. L’albergo che ospita il grosso degli eventi collegati al festival – e ospita anche lo stesso Saviano e le sue molte interviste – è l’imponente Bayerischer Hof, su Promenadeplatz: è stato costruito nel 1841 e a un certo punto nel Novecento è stato il più grande hotel di tutta l’Europa. Chi ci arriva oggi nota soprattutto un bizzarro altarino ai piedi di una statua di fronte all’albergo: è stato allestito in onore di Michael Jackson, che dormiva qui quando passava in città.

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La serie tv di Gomorra ha avuto un successo italiano gigantesco. È stata la serie tv più vista della storia di Sky ed è stata già venduta in 60 paesi, tra cui gli Stati Uniti, dove l’ha comprata la Weinstein Company: quelli dei film di Tarantino (è stata prodotta da Sky con le società di produzione Cattleya e Fandango, e la collaborazione di LA7 e Beta Film). L’opinione assai diffusa tra i critici televisivi è che sia la miglior serie tv italiana di sempre. La rivista statunitense Variety l’ha recensita e ha scritto che è «la risposta italiana a The Wire», mettendo così l’asticella nel punto più alto possibile. «Io avevo l’ossessione di fare la serie di Gomorra», dice Saviano. «Un giorno vado da Riccardo Tozzi, il presidente di Cattleya, gli presento un progetto e gli dico: in questa serie il bene non c’è. Parliamo, gli lascio queste otto pagine, poi gli chiedo: mi dici quando avrò una risposta? Così almeno ho un tempo per proporla ad altri, magari a produttori esteri, ci tengo molto. Lui mi dice: no no, ti rispondo adesso. La facciamo».

Dentro Gomorra ci sono un sacco di cose – personaggi sfaccettati e imprevedibili, una fotografia curatissima, Scampia trasformata in un vero personaggio della serie – ma come hanno notato in molti non c’è la lotta tra il bene e il male. Non c’è nessun poliziotto eroe, non c’è il giornalista che fuma un sacco di sigarette, non si vede nemmeno per una scena l’immancabile magistrato all’apparenza burbero ma in fondo generoso e buono. «Volevamo provare a raccontare il mondo della polizia visto con gli occhi loro, con gli occhi della camorra. Dove polizia, società civile, città, sono solo intralci, campi di conquista. Non volevo che si raccontasse il commissario, il giudice coraggioso, volevo raccontare come il potere ragiona e sta al mondo. Questa è la prospettiva». Alcuni hanno criticato Gomorra dicendo che la serie, costruita così, non è abbastanza edificante, o che comunque è incompleta: che non contiene nessuna speranza, che ignora l’esistenza di cittadini che non accettano lo status quo, e di altri pezzi del contesto, che contribuisce alla diffusione di un’immagine negativa e parziale di Napoli e del Sud in generale. Roberto Saviano – a cui ormai capita di rispondere a questa domanda con una certa frequenza – rivendica che tutte le scene, anche le più violente, sono ispirate a fatti realmente accaduti, e che non voleva Gomorra fosse una di quelle serie «costruite come se qualcuno le avesse masticate prima di darle in pasto ai telespettatori per evitare che possano strozzarsi».

Saviano fa autocritica sulla necessità di liberarsi dall’ossessione degli ascolti: «Sai perché il meccanismo dello share ci sta fregando? Perché ci ha salvati da Berlusconi, e gliene siamo stati grati. Perché nessuno poteva chiudere quella trasmissione contro di lui? Perché la guardavano, faceva share e questo la proteggeva. Io stesso dicevo continuamente: lo share, lo share, abbiamo fatto il record… Invece è una fregatura. Perché significa non sperimentare mai. È un’estorsione continua che costringe i programmi a essere sempre uguali. L’Auditel deve scomparire o trasformarsi, e avere un conteggio mensile come nella parte maggiore dei paesi del mondo». Ma soprattutto Saviano rivendica la scelta dal punto di vista della scrittura; e qui parla di un sostegno che non l’ha lasciato solo. «La battaglia vera è togliere il bene. Costringere lo spettatore. Su questa storia c’è stato il sì vero di Andrea Scrosati, vice presidente dei programmi di Sky: e devi pensare che è stata una scelta tostissima. Hanno provato fino alla fine a farci cambiare idea. Chi veniva da fuori a darci suggerimenti, anche in ottima fede, ci diceva: facciamo una figura di Roberto giornalista, facciamo un giudice… Andrea a un certo punto ha detto: no, facciamola così. Non è che togliamo il bene, semplicemente mostriamo un’angolatura. A me è servito questo sostegno, perché se no sei solo e verrai bloccato».

Lo showrunner e regista di Gomorra è Stefano Sollima, già autore dell’acclamata Romanzo Criminale; ci sono episodi diretti da Francesca Comencini e Claudio Cupellini. Nei credits della serie Saviano è descritto come ideatore e coautore del soggetto. «Io sono quello che porta i materiali reali: scrivo la mia parte e gliela do. Ho un ruolo narrativo ma non riesco a costruire una fantasia su qualcosa che non sia accaduto: poi magari si tratta di una cosa accaduta a Catanzaro e non a Scampia, ma dev’essere accaduta. Tutto il mondo della narrativa noir che racconta i narco, per esempio, mi sembra sempre tre scalini sotto un bel pezzo che racconta i veri Los Zetas. La battaglia poi è trasformare il mio materiale in una sceneggiatura, ma con gli sceneggiatori mi trovo benissimo. Mi piace scrivere soggetti, mi piace scrivere sceneggiature. Colma la distanza tra realtà e fiction. Mi spiego meglio: se io scrivo un raccontino sulla famiglia Savastano, la famiglia protagonista della serie Gomorra, non so se viene fuori una cosa credibile. Non va, ti devo raccontare i Di Lauro, i Licciardi, i Prestieri, quelli veri, e allora dici: ecco, ora capisco molte cose. Se però tu la famiglia Savastano la vedi in una serie tv, con tutti quei dettagli, con le loro facce, con la capacità degli attori, allora capisci di cosa stiamo parlando. La stessa storia che resa sulla pagina è appena credibile, televisivamente o cinematograficamente è pazzesca, è potente. Ragionare su questo per me è stato fondamentale».

Secondo Saviano è una questione di dettagli, e questa è una delle cose che ha imparato dalle serie tv americane. «Mi sono formato soprattutto guardando I Soprano e Breaking Bad. Ci sono le storie, gli innamoramenti, gli omicidi, ok: ma i dettagli sono protagonisti. Nei Robinson, che era la serie tv più vista al mondo prima delle nuove produzioni, non c’erano i dettagli. Anche quando c’era un problema di droga, non ti raccontava cosa succedeva davvero: arrivava in casa la notizia e si affrontava. Invece, per esempio, quando Tony Soprano riceve una telefonata, e sa che dopo cinque minuti in cui si parla di fatti privati la polizia per legge deve smettere di ascoltare, e quindi le mogli hanno il cronometro e dopo cinque minuti passano il telefono ai mariti – ecco, quello è rendere protagonista un dettaglio. È uguale per Breaking Bad. Come scrittura invece, può sembrare assurdo, ma mi sono formato sul mondo di Mad Men: conta molto il dialogo. In una serie di mafia non era scontato. Poi c’è tutto il lavoro fatto dagli attori sulla trasformazione umana. Un meccanismo importante perché tu stai dicendo allo spettatore: non sono bestie unidimensionali, hanno la complessità che hai anche tu che stai guardando. Tutto sommato queste scelte hanno pagato. Anche il mondo degli addetti ai lavori, il mondo “colto” che in genere mi è ostile, in questo caso ha detto che il prodotto era molto fico e nuovo».

Nuovo, soprattutto: Saviano lo ripete spesso. E pensa che per questo la prossima stagione di Gomorra, anche fosse bella e appassionante come la prima, potrebbe non ricevere la stessa accoglienza. «Il fatto che una cosa sia nuova è fondamentale per i giudizi che dà un paese stanco. Se tu fai un bel libro, quello che ti dicono è: bravo, te la sei cavata, bravo. Con aria di sufficienza». È inevitabile qui pensare al rapporto tra Gomorra – il libro formidabile e “nuovo” che ha trasformato l’allora “nuovo” Roberto Saviano in quello che è adesso, e che ha venduto milioni di copie in tutto il mondo – e il secondo romanzo di Roberto Saviano.

Zero Zero Zero è uscito nel 2013 per Feltrinelli ed è stato il libro italiano più venduto dell’anno: mezzo milione di copie, dieci volte di più di quanto la gran parte degli scrittori italiani osi sognare di vendere, più di Camilleri e Fabio Volo. «È un miracolo. Vendere così tanto con un libro complesso, non aver ceduto a facili compromessi. Eppure tutto viene dato come scontato. Una scrollata di spalle. Non scrivo gialli o libretti, in quel caso arrivare a un grande pubblico non è così complesso. La mia sfida è sempre la stessa: prendere una visione complessa e portarla a più persone possibile». Il libro è stato primo su Amazon in Italia per moltissimo tempo e un pezzo del suo successo si deve anche al grande lavoro di promozione e diffusione fatto dallo stesso Saviano. «Per me promuovere i miei libri è parte del progetto di scrittura. Sono andato a proporre il libro praticamente casa per casa. Io dico sempre scherzando che andrei a citofonare alla gente: sono Roberto Saviano, lo scrittore, volete vedere il libro mio? Io lo farei, per far leggere le mie cose. Condividere è il motivo che mi porta a scrivere». Tra le altre cose, Zero Zero Zero è arrivato primo in classifica in Messico. «Non me l’aspettavo. Mi onora molto aver avuto questo ascolto in Messico, con un libro che per molti capitoli parla proprio di loro. Se guardi le interviste che ci sono online, vedi i messicani che mi chiedono di interpretare il regno di El Chapo. Lo chiedono a un napoletano! Ma questa è la forza della tradizione italiana che ha studiato e raccontato le mafie».

Il confronto tra l’Italia e il resto del mondo ritorna spesso nella conversazione, che si parli di Gomorra o di tutto il resto: un po’ perché è un termine di paragone inevitabile, nel bene o nel male, e un po’ forse anche per una serie di situazioni contingenti. Per esempio: siamo in Germania. Roberto Saviano non è andato a presentare Gomorra in Italia e nemmeno altrove, ma in Germania sì. «Io vengo apposta in Germania. È un gran paese, è un meraviglioso posto con cui potersi confrontare, ma sono convinti che la mafia non sia un problema loro. In Germania non esistono né il reato di associazione mafiosa né quello di riciclaggio. Se io faccio il cameriere in questo ristorante, e l’anno dopo mi compro l’intero albergo, no problem. Nessuno viene a chiederti niente, basta che paghi le tasse: infatti i mafiosi, quando vengono arrestati, vengono arrestati per evasione fiscale. C’è una ragione storica, secondo me: la STASI e la Gestapo. Non è che siccome c’è la mafia, la polizia qui inizia a usare intercettazioni o introduce reati associativi. Nella parte di Zero Zero Zero che parla della Germania io ho dovuto censurare tutto: un capitolo è pieno di nomi inventati perché la polizia tedesca mi ha impedito di pubblicare quelli veri. Non puoi pubblicare nomi di persone che hanno fatto reati in passato. C’è il diritto all’oblio. È il solito discorso, a quanta libertà sei disposto a rinunciare per avere sicurezza e legalità. La Germania secondo me potrebbe spingersi un po’ più in là, potrebbe decidere che certi strumenti siano usati solo per i reati di terrorismo e mafia. Solo che la comunità non si fida, preferisce sapere un mafioso libero di fare i suoi affari piuttosto che una polizia libera di poter intercettare e indagare chi vuole al minimo e pretestuoso indizio».

C’è un’altra ragione per cui finiamo a discutere dell’Italia in relazione al mondo, oltre al fatto che ci troviamo in Germania: Saviano non vive più in Italia.

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