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  • Martedì 17 giugno 2014

USA e Iran possono essere alleati, sull’Iraq?

Ci stanno provando, malgrado il passato e tutto il resto: ma potrebbero uscirne anche guai maggiori

Shiite tribal fighters raise their weapons and chant slogans against the al-Qaida-inspired Islamic State of Iraq and the Levant (ISIL) in the northwest Baghdad's Shula neighborhood, Iraq, Monday, June 16, 2014. Sunni militants captured a key northern Iraqi town along the highway to Syria early on Monday, compounding the woes of Iraq's Shiite-led government a week after it lost a vast swath of territory to the insurgents in the country's north. (AP Photo/ Karim Kadim)
Shiite tribal fighters raise their weapons and chant slogans against the al-Qaida-inspired Islamic State of Iraq and the Levant (ISIL) in the northwest Baghdad's Shula neighborhood, Iraq, Monday, June 16, 2014. Sunni militants captured a key northern Iraqi town along the highway to Syria early on Monday, compounding the woes of Iraq's Shiite-led government a week after it lost a vast swath of territory to the insurgents in the country's north. (AP Photo/ Karim Kadim)

Lunedì 16 giugno i rappresentanti diplomatici di Stati Uniti e Iran si sono incontrati a Vienna, in Austria, per parlare della grave situazione in cui si trova l’Iraq – che ha il suo più esteso confine con l’Iran – da circa una settimana.
L’amministrazione americana, che aveva annunciato già nei giorni scorsi una collaborazione con l’Iran, vorrebbe sfruttare i legami tra il governo iracheno e quello iraniano per convincere il primo ministro sciita dell’Iraq, Nuri al-Maliki, a risolvere la crisi e respingere l’offensiva militare dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (noto anche con la sigla ISIS). L’ISIS è un gruppo estremista sunnita che opera sia in Siria che in Iraq: negli ultimi giorni ha preso il controllo di una decina di città nell’Iraq del nord e martedì mattina ha conquistato anche Baquba, a soli 60 chilometri da Baghdad.

L’inusuale collaborazione tra Stati Uniti e Iran
Non è la prima volta che Stati Uniti e Iran collaborano su questioni che riguardano il Medioriente, ma è una novità rilevante che lo facciano in maniera così esplicita e su temi di sicurezza così importanti. I due governi hanno infatti interrotto i rapporti diplomatici nel 1979, anno della rivoluzione contro l’allora Scià di Persia guidata dal Grande Ayatollah Rohullah Khomeini e della conseguente istituzione della Repubblica Islamica dell’Iran. Dal 1979 l’Iran – prima alleato con l’Occidente – ha assunto posizioni violentemente anti-americane e dagli anni Ottanta è trattato dalle amministrazioni statunitensi come uno stato nemico che sostiene il terrorismo (si parla soprattutto dell’appoggio iraniano al movimento libanese Hezbollah e a quello palestinese Hamas, entrambi considerati minacce alla sicurezza nazionale di Israele, che è a sua volta alleato degli Stati Uniti). Dall’estate del 2013 le relazioni tra i due paesi sono leggermente migliorate, grazie soprattutto alle aperture del nuovo presidente moderato Hassan Rouhani, che tra le altre cose ha firmato un accordo temporaneo con diversi paesi occidentali sul tema dello sviluppo del nucleare iraniano.

(Cosa sono sciiti e sunniti)

Gli Stati Uniti hanno cominciato a collaborare con l’Iran – paese sciita – per via dei rapporti che il governo iraniano ha stabilito con quello iracheno dopo la destituzione dell’ex presidente sunnita dell’Iraq Saddam Hussein con l’intervento americano del 2003. Iran e Iraq – che furono nemici in una guerra negli anni Ottanta – sono ora guidati entrambi da sciiti, anche se negli ultimi anni i rapporti tra i due paesi sono stati molto ambigui, per esempio riguardo le rispettive posizioni sulla guerra in Siria (l’Iran è esplicitamente a favore del presidente Bashar al Assad, l’Iraq sta un po’ di qua un po’ di là): la maggior parte degli esperti ritiene comunque che l’Iran abbia una grande influenza sul governo iracheno di al-Maliki, e possa condizionare alcune sue scelte importanti sul futuro del paese.

Cosa vogliono gli Stati Uniti
L’amministrazione statunitense vorrebbe convincere al-Maliki a formare un governo inclusivo di tutte le forze irachene, che comprenda quindi anche i sunniti e i curdi, ora nettamente sottorappresentati. Una decisione di questo tipo non convincerebbe i sunniti dell’ISIS a fermare i combattimenti – l’obiettivo del gruppo è creare un califfato islamico nella regione del Medio Oriente, e della rappresentanza nei posti di governo gli interessa ben poco – ma potrebbe essere sufficiente per gli altri gruppi militari sunniti meno estremisti che stanno combattendo a fianco dell’ISIS: tra questi ci sono per esempio alcuni gruppi laici sostenitori delle idee del partito Baath, lo stesso di cui faceva parte Saddam Hussein, che chiedono una maggiore rappresentanza politica e la fine delle violente scelte settarie portate avanti dal governo di al-Maliki in questi ultimi anni.

A quel punto l’ISIS perderebbe molta della sua forza e sarebbe più facile per il pur debole esercito governativo iracheno riprendere il controllo delle città conquistate dai sunniti. C’è poi un’altra questione rilevante: Kirk Sowell, analista politico statunitense ed esperto di Iraq, ha detto a Zack Beauchamp di Vox che l’ISIS potrebbe “fallire” economicamente, perché le sue entrate economiche – che arrivano principalmente da attività illegali svolte nella città settentrionale irachena di Mosul – non sarebbero sufficienti a sostenere nel tempo l’espansione territoriale di questi ultimi giorni.

La strategia statunitense potrebbe fallire in due casi, scrivono Michael Gordon e David Sanger sul New York Times: se l’Iran non volesse impegnarsi nelle faccende irachene – ipotesi comunque piuttosto improbabile, viste le numerose interferenze dell’Iran in Iraq degli ultimi anni – e se l’Iran dovesse decidere di impegnarsi troppo. Quest’ultima opzione potrebbe verificarsi in due modi: il governo iraniano potrebbe sostenere e fomentare l’azione delle milizie sciite in Iraq guidate per lo più da leader religiosi locali, alimentando ancora di più le tensioni e le violenze tra sunniti e sciiti; oppure potrebbe mandare direttamente in Iraq i membri di al Quds, corpo speciale della Guardia Rivoluzionaria iraniana (forza militare istituita dopo la rivoluzione del 1979) specializzato in missioni all’estero e già attivo da tempo in Iraq. La diplomazia statunitense in questo caso finirebbe per dover affrontare un’enorme contraddizione: dall’inizio della guerra in Siria gli Stati Uniti sono schierati contro la fazione alauita – sostenuta dagli sciiti e dall’Iran – del presidente siriano Bashar al-Assad. Di fatto stanno dalla parte dei sunniti e uno dei loro obiettivi è proprio frenare l’aumento dell’influenza delle milizie sciite e di al Quds. In altri termini: l’amministrazione americana rischia di sostenere apertamente due strategie opposte e conflittuali in due paesi confinanti del Medioriente.

Cosa hanno deciso di fare per ora
Il presidente statunitense Barack Obama ha notificato al Congresso che manderà 275 militari in Iraq per garantire la sicurezza dell’ambasciata statunitense a Baghdad (c’è già comunque un piano per spostare parte del personale diplomatico in altre sedi). Finora l’amministrazione ha negato un’ulteriore collaborazione militare con i governi iraniano e iracheno, anche se si stanno valutando diverse opzioni, tra cui l’utilizzo di droni per colpire l’ISIS. Gli Stati Uniti stanno anche pensando alla possibilità di incentivare la sostituzione del primo ministro al-Maliki – ritenuto da molti il principale responsabile dell’aumento delle tensioni settarie in Iraq – con un altro leader sciita più inclusivo e disposto a raggiungere dei compromessi con i sunniti e i curdi.

Un’eventuale collaborazione tra Stati Uniti e Iran sulle vicende irachene potrebbe anche condizionare i colloqui che stanno proseguendo sul nucleare iraniano, tema che finora è stato prioritario nella politica estera di Obama in Medioriente. La data fissata per il raggiungimento di un accordo definivo è il 20 luglio: l’Iran sta facendo pressioni affinché le limitazioni che gli saranno imposte sul processo di arricchimento dell’uranio – fase necessaria anche per lo sviluppo del nucleare militare – possano essere solo temporanee, mentre i paesi occidentali, e soprattutto gli Stati Uniti, vogliono che abbiano carattere permanente.

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