Stalingrado e 77 italiani

La storia di una delle battaglie più famose della storia, 70 anni fa, e di alcuni soldati italiani che ci si trovarono in mezzo per sbaglio

di Davide Maria De Luca – @DM_Deluca

Esattamente 70 anni fa, un aereo da ricognizione tedesco che sorvolava Stalingrado, nella Russia meridionale, comunicò al comando che per la prima volta in sette mesi, tra le macerie della città, non c’erano più segni di combattimento. Due giorni prima il comandante tedesco aveva disobbedito all’ordine di Hitler di resistere fino all’ultima pallottola – quella destinata a sé stesso – e si era arreso all’Armata Rossa. Altri centomila soldati dell’Asse lo avevano seguito nei due giorni successivi. Tra questi c’erano anche 77 italiani, finiti per sbaglio nella morsa che aveva circondato la città di Stalingrado. Soltanto due di loro tornarono in Italia.

Quella dei 77 soldati a Stalingrado è una storia che è stata sconosciuta per lunghissimo tempo e di cui non si ritrova quasi traccia negli archivi ufficiali. Non ci sarebbero dovuti essere soldati italiani in città: quando nel novembre del 1942 i russi circondarono Stalingrado, ci combattevano solo tedeschi. Gli italiani si trovavano in un altro punto del fronte e per quei 77 italiani fu un incredibile colpo di sfortuna trovarsi coinvolti nell’ultima fase di una delle battaglie più famose (e più dure) della storia.

Nella steppa, lungo le sponde dei grandi fiumi Volga e Don, ma soprattutto nell’intrico delle rovine della città distrutta dai bombardamenti, si affrontarono per sette mesi più di 3 milioni di soldati, decine di migliaia di cannoni e migliaia di aerei e carri armati. Fu la prima e più grande sconfitta dell’esercito tedesco nella Seconda Guerra Mondiale, una sconfitta che rese chiaro al mondo come per la Germania la guerra sul fronte orientale era oramai persa ed era solo questione di tempo – e di milioni di altri morti – prima che i russi arrivassero a Berlino.

La storia di quella battaglia è più o meno questa. Nel 1939, dopo essersi spartiti la Polonia, Germania e Unione Sovietica avevano firmato un patto di non aggressione. Hitler non aveva intenzione di rispettarlo, a differenza di Stalin, che ci credeva in modo quasi fanatico. All’alba del 22 giugno 1941 – una giornata che oggi è una ricorrenza nazionale in Russia – la Germania presentò formalmente la dichiarazione di guerra. Due ore prima, quella che venne definita «la più gigantesca macchina da guerra mai assemblata nella storia dell’umanità» aveva cominciato a rotolare verso est, con obbiettivo Mosca.

Vale la pena di raccontare il modo con il quale Stalin reagì quella notte. Le sue spie lo avevano da lungo tempo informato delle intenzioni tedesche, ma Stalin si era rifiutato di credere a qualunque avvertimento – e diverse persone erano finite davanti al plotone d’esecuzione per aver insistito troppo. Stalin, incredibilmente, si fidava di Hitler. Quando la notte del 22 giugno il generale Zukov lo chiamò e gli raccontò che i tedeschi stavano bombardando le città russe, alla fine del discorso chiese: «Ha capito quello che le ho detto, compagno Stalin?». Dall’altro lato della cornetta si sentiva solo un respiro affannoso. Per diverse settimane quasi nessuno vide più Stalin.

Nonostante le perdite enormi subite dai russi, i tedeschi non riuscirono a conquistare Mosca. Dopo la pausa invernale nei combattimenti – una pausa che non fu percepita come tale da molti dei soldati al fronte – Hitler decise di cambiare obbiettivo. Non più Mosca, ma i pozzi petroliferi del Caucaso. In questa seconda offensiva capitò quasi per caso la città di Stalingrado, un po’ come per caso i 77 italiani capitarono nella stessa città nel novembre di quell’anno.

Capitò per caso perché – come potete vedere da una cartina – nel caso vogliate conquistare il Caucaso, la città di Volgograd – la vecchia Stalingrado, anche se oggi è tornata a chiamarsi così – non sembra essere proprio un obbiettivo prioritario. Però all’epoca Volgograd si chiamava Stalingrado, da oltre 15 anni, e quando le operazioni nel Caucaso si rivelarono molto più difficili del previsto – quasi fallimentari – Stalingrado si trasformò da un obbiettivo secondario in un punto d’onore. Come scrisse un generale tedesco in quei giorni, parlando di Hitler e della sconfitta nel Caucaso: «Quest’uomo ha perso la faccia; ha capito che il suo gioco con il destino è finito, che la Russia sovietica non sarà sconfitto in questo secondo tentativo». Hitler non era riuscito a sconfiggere Stalin sul campo: ora voleva sconfiggerlo simbolicamente, conquistando la città che portava il suo nome.

Dal settembre del ’42 la VI Armata, la più grande unità dell’esercito tedesco che contava quasi mezzo milione di uomini, venne concentrata nel piccolo spazio della città sul Volga, nello sforzo di conquistare la riva ovest con una serie di poderose testate. I russi tenevano una piccola striscia di terra lungo la riva e facevano affluire rinforzi attraverso il fiume, come si vede nelle prime scene del film il Nemico alle Porte di Jean Jaques Annaud. Mano mano che le truppe tedesche si concentravano a Stalingrado, i fianchi si facevano sempre più deboli, fino a che, nel novembre del 1942, a proteggere i lati della VI Armata tedesca c’erano solo le truppe degli alleati rumeni, pochi e male armati.

Gli italiani si trovavano ancora più ovest, a fianco dei rumeni e ben lontani da Stalingrado, in una zona che fino a quel momento era stata tranquilla. Erano in circa duecentomila, con scarponcini da neve chiodati che facevano filtrare l’acqua e congelavano i piedi. Però avevano diversi camion e mentre a Stalingrado i tedeschi combattevano strada per strada (la chiamavano la Rattenkrieg, la guerra dei topi), il fronte italiano restava tranquillo. Così, a metà novembre un gruppo di quei camion venne inviato a Stalingrado con il compito di consegnare carburanti e munizioni e raccogliere assi di legno per costruire i bunker sotterranei in vista del freddo invernale.

Pochi giorni dopo la partenza di quella spedizione, i russi lanciarono un’offensiva contro i deboli fianchi di Stalingrado tenuti dai rumeni. Era il 19 novembre. L’obbiettivo era circondare tutti i 300 mila tedeschi che combattevano nella città e nella periferia. L’attacco riuscì e tre giorni dopo l’inizio dell’offensiva, il 22 novembre, i carri armati russi si incontrarono in un villaggio a sud di Stalingrado, completando l’accerchiamento. I 77 soldati italiani si erano avvicinati a Stalingrado appena in tempo per essere presi in trappola.

Avevano dai 20 ai 34 anni, quasi tutti avevano ricevuto la cartolina, uno di loro era volontario. Erano “autieri”, cioè uomini della logistica: si occupavano di trasporti, non combattevano in prima linea. Una delle prime volte in cui il loro caso comparve in un libri di storia, fu in Stalingrado, di Antony Beevor, del 1998, ma la ricerca storica più approfondita su di loro l’ha compiuta un italiano, Alfio Caruso, nel suo libro Noi moriamo a Stalingrado, del 2006. Caruso ha cercato i familiari di quei 77 italiani, li ha intervistati e ha ricostruito una grande mole di documenti storici (qui potete leggere il primo capitolo del libro).

L’assedio durò dal 22 novembre 1942 al 2 febbraio 1943. I tedeschi cercarono di rifornire le truppe intrappolate con un ponte aereo, ma né il cibo né le munizioni consegnate furono sufficienti. Dentro il Kessel – che vuol dire “sacca”, ma anche “calderone” – i tedeschi intrappolati morivano di fame e di freddo oltre che per le bombe e le pallottole. Per mesi i russi strinsero lentamente l’accerchiamento, fino a che, alla fine di gennaio, i tedeschi controllavano solo alcuni quartieri di Stalingrado.

Hitler aveva ordinato di resistere fino all’ultima pallottola, ma non fu un ordine molto rispettato. Quando il 2 febbraio gli ultimi tedeschi si arresero, i russi poterono contare tra i loro prigionieri ben 22 generali («Se credono che mi sparerò in testa per quel piccolo caporale boemo si sbagliano di grosso», aveva detto il comandante tedesco Friederich Paulus riferendosi a Hitler). A quei 22 andò tutto sommato bene, in confronto agli altri prigionieri. Su 100 mila soldati catturati, soltanto 6 mila tedeschi sopravvissero alla guerra.

Walter Poli e Vincenzo Furini furono gli unici due a sopravvivere tra i 77 italiani. Di molti di loro non c’è nemmeno un certificato di morte. La resa, che molti speravano avrebbe messo fine alla fame e al freddo degli ultimi mesi, si rivelò peggio dell’assedio. I prigionieri, così denutriti e deboli che morivano non appena mangiavano un pasto troppo ricco di grassi, vennero incolonnati – spesso senza scarpe e con vestiti inadeguati – e condotti ai campi di prigionia con lunghe marce a -30 gradi.

Nessuno dei due superstiti volle raccontare molto di quell’avventura, come se avessero voluto dimenticarla. Caruso, nel suo libro, racconta uno dei pochi episodi che uno dei due sopravvissuti si lasciò sfuggire una volta tornato a casa. Davanti ai capricci di un nipote, raccontò che una volta alcuni commilitoni erano così disperati per la fame che si cibarono del cadavere di un compagno morto. Come a dire che i problemi del nipotino non erano poi una gran cosa.

Ma la cosa più struggente di tutto il racconto, che vale tanto per gli italiani quando per i tedeschi, sono le lettere che i soldati spedivano a casa. Durante l’accerchiamento gli aerei arrivano trasportando rifornimenti – sempre pochi – e ripartivano con a bordo i feriti e la posta. Così ci sono rimaste molte delle lettere che gli uomini, morti a Stalingrado o nei campi di prigionia russi, spedivano a casa. Mentre nel Kessel i soldati cercavano di sopravvivere tagliando pezzi di carne dai cavalli morti, con gli arti congelati, senza poter bere nemmeno la neve perchè non c’era il carburante per scioglierla, la cosa di cui si preoccupavano di più nelle loro lettere era cercare di non far preoccupare i propri cari.

«Sempre allegria, è l’unico modo di vivere molto», scriveva a casa Bruno Calderigi. «Di’ a Gianni che gli voglio tanto bene e che se farà il bravo bambino gli porterò una bella bicicletta di quelle rosse», scriveva Bruno Puschiavo. A gennaio – sono tre mesi oramai che sono sotto assedio senza cibo, senza vestiti adatti e senza riscaldamento – Calderigi riusciva ancora a scrivere: «Scrivete sempre anche se io ritardo, ma non pensate male. La Madonnina che mi avete messo a protezione mi salverà». Calderigi morì, probabilmente di fame e freddo, in un campo di prigionia russo.