• Italia
  • Mercoledì 4 luglio 2012

Un paese vecchio, e fallito

Vincenzo Latronico spiega sul Corriere perché non è l'età a mettere in discussione le classi dirigenti italiane, ma i risultati

Rinnovando una discussione sulle necessità di rinnovamento e ricambio generazionale, a partire dalle parole di due giorni fa di Cesare Prandelli, il Corriere ospita oggi una riflessione di Vincenzo Latronico che cerca di mostrare come la questione “giovani contro vecchi” sia ingannevole e fuorviante, se non si parla del contesto e del bene comune.

Spesso, quando discuto con mio padre delle primarie del Pd, raggiungiamo un’impasse. Motivando il mio appoggio a Matteo Renzi, finisco per lamentare la gerontocrazia e le attuali barriere all’ingresso delle nuove generazioni nei vertici della società italiana. Gli porto ad esempio, per contrapposizione, l’età di Giulio Andreotti alla Costituente, o di Saint-Just alla Convention Nationale — 25 anni, l’uno e l’altro. Altrettanto invariabilmente, mio padre mi fa notare che in entrambi i casi il potere non era stato concesso dall’alto ma ottenuto, e con armi ben diverse dal piagnucolio. È vero, ha ragione. Ma, dati anagrafici alla mano, si può dimostrare che quelle barriere esistono. Quindi, abbiamo ragione entrambi.
Forse è un problema di parole. Non è un caso che in un paese come l’Italia, in cui i giovani hanno poco spazio, la parola «giovane» viene usata con grande facilità. Chi te lo dice offre un alibi ai tuoi eventuali errori («è giovane, imparerà!»), ma al contempo ti confina al parco giochi, a un regime di prova da cui puoi essere espulso senza giustificazioni («levati, ragazzino, lasciaci lavorare»); la definizione di «giovane» è un bavaglio camuffato da bavaglino. A dodici anni si è giovani per bere e vecchi per iniziare le scuole, a sessanta si è vecchi per farsi un tatuaggio e giovani per andare in pensione (già!). In tutte queste frasi, e non è un caso, è implicita una valutazione morale, che dipende da parametri taciuti, ma condivisi. È sbagliato ubriacarsi a dodici anni, e (probabilmente) fuori luogo tatuarsi a sessanta.

(continua a leggere sulla rassegna stampa della Camera)

– Mario Calabresi, Chi supera la crisi