«Non si può fare un romanzo su una ferita aperta»

Ezio Mauro spiega perché per assolvere gli errori storici di "Romanzo di una strage" non basta dire che è un film

Nel dibattito sul film “Romanzo di una strage” di Marco Tullio Giordana interviene oggi il direttore di Repubblica Ezio Mauro, in prima pagina sul suo giornale.

Il fatto è che non si può fare un romanzo su una ferita aperta nel Paese. Al romanzo – che per forza di cose ha una sua necessità narrativa, nutrita dalla realtà ma anche autonoma, quando serve, e deve riannodare tutti i fili di una vicenda complessa nel capitolo finale – si contrappone il bisogno di verità che dura da più di quarant’anni, ed è stato deluso, mandato a vuoto, calpestato per tutto questo periodo, e ormai in modo irrimediabile. Non è la vicenda che non sopporta il romanzo, perché qualsiasi storia si può raccontare, per parole o per immagini. È questo furto di verità che non tollera letteratura. Finché la ferita non sarà chiusa. Non ci vuol molto a capirlo.

Naturalmente c’è invece chi benedice il romanzo, proprio perché una lettura letteraria con tutte le licenze proprie del genere sposta la vicenda in un’altra dimensione, con codici diversi da quelli giudiziari e politici. E quarantatré anni dopo, con un racconto ben confezionato di una tragedia italiana si può essere tutti d’accordo, finalmente, anche quelli che non riescono invece a riconciliarsi con la realtà italiana, dove depistando, cancellando e rinviando si è infine giunti a decidere che non si potevano e non si dovevano più trovare colpevoli per la bomba di piazza Fontana. Questa ostinazione finirà tra non molti anni, probabilmente, con la scomparsa di una generazione che è stata segnata pesantemente da quel 12 dicembre, dalle stragi di Stato, e da una strategia della tensione che dal 1969 al 1980 contò 12.690 attentati, con 362 morti e 4490 feriti. Un pezzo di generazione si è colpevolmente perduta anche per reazione a quell’accaduto, e alla condotta dello Stato. Un’altra parte ha poi deciso di difendere lo Stato dal terrorismo nonostante piazza Fontana: difenderlo per poterlo cambiare, difendere le istituzioni anche se non ce ne si fidava, per difendere semplicemente la democrazia. Ecco perché il segno umano, civile e politico di quella data è ancora presente, come il bisogno di verità.

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