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«Non si fa»: Adriano Sofri su piazza Fontana

Adriano Sofri spiega perché ha scritto un libro per spiegare le bugie su Piazza Fontana, che si può scaricare gratis online

Inserendosi in un dibattito molto critico sulle fonti utilizzate dal regista Marco Tullio Giordana per il suo film su Piazza Fontana “Romanzo di una strage”, Adriano Sofri ha messo online un lungo testo – un libro, di fatto – che soprattutto contesta con puntualità e argomenti il saggio “Il segreto di Piazza Fontana” di Paolo Cucchiarelli: a cui il film deve diversi passaggi, mentre se ne discosta per altri. Il libro di Sofri si può scaricare gratuitamente, questi sono due passaggi in cui spiega il contesto e le ragioni della sua riflessione.

Se si intenda il “doppio Stato” non come una figura onnipervasiva capace di ingoiare e piegare a sé ogni ambito e ogni manifestazione della vita sociale e civile, ma come una condizione effettiva e influente dell’Italia nel contesto della guerra fredda e di un’eredità dal regime fascista tutt’altro che regolata, e poi del labirinto di trame che hanno costellato lo scontro politico e sociale fino al colmo di violenza fra fine dei ’70 e inizio degli ’80, si capisce come una visione sospettosa allarmata esasperata e disperata abbia largamente occupato allora menti e animi. Però la constatazione non è esauriente, se si guardi a che cosa è successo poi. È come con le ideologie totalizzanti ed escludenti di una volta, cui si fa carico di aver nutrito e coltivato odio e violenza cieca: e però, tramontate le ideologie, ne è venuta largamente meno un genere di violenza, ma non hanno affatto ceduto odio e messe al bando, sicchè si è dovuto amaramente ammettere che le ideologie totali offrivano loro un eccellente pretesto, ma che l’odio e l’intolleranza sanno cercarsi i propri pretesti anche nei climi più diversi. E dunque la visione paranoica che immagina il governo del mondo come una cospirazione maligna e occulta di pochissimi, e avvisa la gente comune, l’immenso parco buoi della Borsa e della vita, che “tutto ciò che sapete è falso”, non ha mai avuto fortuna così sfrenata come nel mondo in cui la storia era finita e i grandi sistemi ideologici crollati. Per quanti complotti percorrano la terra, la mania del complotto li eclissa tutti. Ma c’è qualcosa in più, oggi, che soverchia le guerre di religione e gli scontri di civiltà e gli arrembaggi della finanza internazionale, e che a tutto ciò imprime una veste uniforme: è la seduzione della fiction. Il film si intitola “Romanzo di una strage”, il libro che si vuole “di storia” vanta di somigliare a una “sceneggiatura”.

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Questa mistificazione passa anche attraverso una stanchezza, una distrazione, una rimozione che appartengono a un larghissimo numero di “quelli che c’erano”. Anche l’effetto retroattivo del disgusto che li oppresse quando il magniloquente assalto al cielo della fine degli anni ’60 finiva nel sangue e nella compromissione. Non si aveva più voglia di ricordare com’era prima. Si diffidava del contesto, perché il contesto è troppo pronto a entrare a servizio delle autoassoluzioni. Ho avuto prove vistose di queste censure, e del resto le ho misurate anche su me stesso. Quando mi misi a scrivere su Pinelli, avevo dimenticato anch’io in quali circostanze era stato redatto il manifesto contro Calabresi con quella impressionante sequenza di firme illustri. E per anni, per decenni, le firme erano state rievocate e rinfacciate senza che mai una volta, rinfacciatori e rinfacciati, facessero la minima menzione di quelle circostanze – il modo della ricusazione di un presidente di tribunale quando il processo mostrava di volgere al peggio per il commissario Calabresi – che non giustificavano il manifesto, ma lo spiegavano. Lo vada a leggere, nel mio libro, chi davvero si chieda come poterono figurare in calce a quelle frasi le firme di Primo Levi e di Giorgio Amendola, di Norberto Bobbio e di Federico Fellini.

Al contesto non si può rinunciare. Il compito di chi cerca di ricostruire e interpretare la storia, è di immaginarsi di nuovo, per poco, nel punto in cui le cose non sono ancora successe, nel punto in cui possono ancora succedere diversamente, e guardarle da lì. Le cose, quando avvengono, tradiscono sempre le intenzioni: nel doppio senso del verbo tradire, che le deviano, e le svelano. La storia non può accontentarsi di processare i fatti compiuti, il processo alle intenzioni è anche affar suo: una parte dell’affar suo. Non è bene farsi forti dell’evidenza dei fatti compiuti per proiettarli a ritroso, far divenire inevitabile ciò che era solo possibile, e far passare per plausibili ipotesi avventate.

Dunque l’altra ragione, quella più immediata e forte, per cui ho scritto è di difendere la memoria di Pinelli e, allo stato degli atti, di Valpreda. Non perché siano “simboli” e intoccabili e sacri. Ma perché tutto ciò che ne sappiamo depone a favore della loro estraneità alla strage. Tutto ciò che ne sappiamo, a condizione che ci impegniamo a saperlo – ciò che Cucchiarelli si è guardato dal fare, millantando credito come uno scolaro che imbroglia. Cucchiarelli ha fatto entrare Valpreda in una banca con una valigia di esplosivo: le ragioni che ha addotto sono infondate. Ha fatto precipitare Pinelli con una spinta dalla finestra dell’ufficio di Calabresi, dopo averlo dichiarato a parte del piano esplosivo. Non si fa.

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