La Fictory su Piazza Fontana

Anche Giorgio Boatti mostra la fragilità del testo su cui è costruito "Romanzo di una strage" (e i difetti strumentali della memoria, a cominciare da quelli di Eugenio Scalfari)

Assieme ad Adriano Sofri, anche Giorgio Boatti, giornalista e scrittore – e autore tra l’altro di un libro sulla strage di Piazza Fontana – critica su Doppiozero le letture infondate e ardite del libro da cui è tratto il film “Romanzo di una strage” in uscita nei prossimi giorni. Spiegando il genere della “Fictory”, a partire da un freudianissimo lapsus di memoria di Eugenio Scalfari.

Proprio in vista dell’uscita del film di Marco Tullio Giordana Eugenio Scalfari rievoca, sulle pagine del quotidiano “Repubblica” da lui fondato, i giorni di Piazza Fontana e quelli venuti dopo. È una ricostruzione che, giungendo da un personaggio eminente della scena pubblica dell’ultimo mezzo secolo italiano, non può certo lesinare gli “io c’ero”.
“Intervengo perché io c’ero” – scrive Scalfari – “Ho assistito direttamente a gran parte di quei fatti come cittadino, come giornalista e come deputato al Parlamento”.

Traccia dunque il lungo elenco dell’“io c’ero”:
“Ero a Milano in via Larga quando fu ucciso il poliziotto Annarumma…”.
“La sera di quei giorno ero nell’aula magna dell’Università Statale…”.
“Ed ero con altri deputati di sinistra in Piazza Santo Stefano…”.
“E c’ero anche nel corteo che sfilò per la morte di Feltrinelli…”.
“Ero direttore dell’Espresso quando rivelammo il Piano Solo…”.
“Ed ero direttore di Repubblica quando Aldo Moro fu rapito e poi ucciso…”.

Una lunga e incalzante successione di colpi d’occhio su fatti storici, visti dall’angolazione privilegiata di chi sta in prima fila. Anzi, a volte è tra coloro che salgono sul palcoscenico (o almeno così gli è sembrato). Una galleria di istantanee – a distanza ravvicinata con la Storia – che lo portano ad affermare “insomma ho vissuto da vicino il lungo periodo della strategia della tensione che ha profondamente inquinato la vita pubblica italiana”.
Una carrellata che trova conclusione con l’esserci di Scalfari, nel gennaio del 1981, quando – rammenta – le Brigate Rosse “rapirono il giudice D’Urso e tentarono di imporci la pubblicazione di un loro lunghissimo documento minacciando che se i loro ordini non fossero stati eseguiti il prigioniero sarebbe stato ucciso. Rifiutammo e la notte di quel terribile giorno il prigioniero fu liberato da un blitz della polizia”.

Davvero?
Basta dare una sfogliata ai giornali di quel 15 gennaio 1981 per accertare che non è andata così: “Le Brigate Rosse – scrive ad esempio quel giorno il Corriere della Sera – liberano Giovanni D’Urso, il magistrato addetto alla direzione generale degli affari penitenziari, che hanno tenuto prigioniero per 33 giorni. Lo lasciano all’interno di un’auto, legato e imbavagliato, in una zona centrale della capitale, nei pressi del portico d’Ottavia”.

La memoria, anche dei testimoni più autorevoli, perfino di coloro che si ritengono protagonisti di primo piano degli eventi, dunque a volte scarta. Si inceppa. Funziona, in perfetta buona fede, à la carte. Scalfari sul caso del giudice d’Urso fu uno degli esponenti del partito della fermezza, contrario a ogni cedimento dello Stato – anche se finalizzato a salvare vite umane – verso i terroristi. Da questa posizione si scontrò duramente con Sciascia che invece si era espresso, con un appello, per una maggiore duttilità.
Sciascia fu redarguito: “non sarà l’appello di uno Sciascia qualunque a portare il paese a un altro 8 settembre…”. Lo scrittore rispose che preferiva essere uno Sciascia qualunque piuttosto che uno Scalfari eminente.

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