• Mondo
  • Lunedì 13 febbraio 2012

Di Grecia, Spagna e tutto quanto

Filippomaria Pontani spiega cosa succede intorno al Mediterraneo, e perché non gli piace

di Filippomaria Pontani

ATHENS, GREECE - FEBRUARY 12: A detailed view of the Bank of Greece sign is seen on its bulding during the demonstration against the new austerity measures in Syntagma Square on February 12, 2012 in Athens, Greece. Greece's creditors have demanded further austerity measures before approving a new bailout from the European Union, European Central Bank and International Monetary Fund amid renewed concerns the country may default. (Photo by Vladimir Rys/Getty Images)
ATHENS, GREECE - FEBRUARY 12: A detailed view of the Bank of Greece sign is seen on its bulding during the demonstration against the new austerity measures in Syntagma Square on February 12, 2012 in Athens, Greece. Greece's creditors have demanded further austerity measures before approving a new bailout from the European Union, European Central Bank and International Monetary Fund amid renewed concerns the country may default. (Photo by Vladimir Rys/Getty Images)

“Dovunque viaggio la Grecia m’accora”

(Giorgio Seferis, Alla maniera di G. S., 1938)

Prendiamola alla lontana: il Mediterraneo è uno.
Chi voglia guardare negli occhi la Spagna di oggi la troverà nello sguardo perso della sposa delle Bodas de Bergantiños, il capolavoro del “regionalista” Fernando Alvares de Sotomayor (1917) esposto nell’Accademia di San Fernando, a metà strada tra la Puerta del Sol e la sede centrale del Banco de España. Un Paese dinamico, capace negli ultimi vent’anni di una crescita e di un ammodernamento senza confronti nel Vecchio Continente, aperto sotto Zapatero a esperimenti avanzati di condivisione d’idee e di cultura, assiste con aria spaesata al repentino ritorno dei suoi vecchi fantasmi: la corruzione, la disoccupazione, l’oscurantismo.

A quella sposa, da domani o dopodomani, il ministro della giustizia Alberto Ruiz Gallardón permetterà di divorziare davanti a un notaio (privandola dunque della tutela del giudice nei casi di maltrattamenti o di affido di minori), ma non consentirà più di abortire liberamente e segretamente, come era lecito sotto Zapatero perfino alle sedicenni: nel furore demolitorio del nuovo governo spiccano i provvedimenti “eticamente sensibili” volti a propugnare, in omaggio ai dettami della Chiesa cattolica, una nuova immagine della donna, e a riportare sotto controllo le fasi salienti della sua vita, dal matrimonio alla concezione, dalla procreazione al divorzio. Ma la rivisitazione ideologica non si ferma qui, e investe anzitutto quello che Josep Ramoneda chiama il “peccato originale” della democrazia iberica: una Spagna perplessa assiste allo sdoganamento di Francisco Franco (“leader autoritario, non totalitario”, dall’alto valore militare) nel Dizionario Biografico compilato dalla Real Academia de Historia, nel quale peraltro si condanna il comunista Santiago Carrillo come un terrorista, e si decantano le esperienze mistiche di José María Escrivá de Balaguer, fondatore dell’Opus Dei. Forse il paradosso più bruciante è che per ascoltare per la prima volta in un tribunale spagnolo (come sta accadendo in queste settimane) le terribili testimonianze degli orrori e delle brutalità del franchismo, si sia dovuto attendere un processo nel quale è imputato proprio il giudice che per primo le aveva prese sul serio, in barba alle forzose amnistie del passato: Baltasar Garzón.

“I leoni erano scomparsi da tempo / non se ne trovava uno in tutta la Grecia / o forse uno, solitario, braccato / si era nascosto da qualche parte nel Peloponneso, non minacciava più nessuno / finché Eracle uccise anche quello. / Tuttavia il ricordo dei leoni / non smise mai di incutere terrore: / spaventava la loro immagine sugli scuri e gli stemmi, / spaventava il loro emblema / sui monumenti delle battaglie, spaventava il loro bassorilievo / sull’architrave di pietra della porta. / Spaventa sempre il nostro grave passato, / spaventa il racconto degli eventi / nella scritta incisa sull’architrave / della porta che attraversiamo tutti i giorni”

(Titos Patrikios, La porta dei leoni, 2002).

La Spagna assiste all’interdizione dagli uffici giudiziari comminata al medesimo Garzón per aver compiuto intercettazioni illegali (la stessa accusa che da noi si sta muovendo a, si parva licet, Luigi De Magistris) ai danni di politici indagati per corruzione: mentre quegli stessi politici nel frattempo si addottorano in legge (come l’ineffabile sig. Camps, già presidente della Generalitat Valenciana, subissato di fischi in occasione della sua proclamazione all’università di Elche) nella speranza di far dimenticare i controversi affari in cui erano rimasti impaniati. E questo anche dinanzi a eventi cataclismatici come il crac di Spanair, asmatica compagnia aerea catalana nata e foraggiata tramite studiati maneggi della Generalitat a fini propagandistici, o come la criminosa dissipazione dei fondi statali per lo sviluppo dell’Andalusia, centinaia di milioni di euro distribuiti a pioggia tra amici, parenti e conoscenti di governatori e consiglieri della locale Junta. Chissà cosa accadrà, in questo rispetto, ora che il governo toglierà i vincoli sulle coste, e si potrà tornare a edificare allegramente a Marbella e a Formentera per “valorizzare il turismo”.

Nelle Nozze di Bergantiños, il giovane sposo è visto di profilo: in fondo al tavolo, su cui riposano le stoviglie del dì di festa e il cibo povero ma dignitoso dei contadini, siede il suocero, assorto nella sua minestra, apparentemente lontano dalle generazioni che ora tengono la scena. Tra questi due mondi – i vecchi e i giovani – si staglia ora uno spartiacque, ovvero la riforma del lavoro concepita dal ministro Luís de Guindos e presentata venerdì da due donne poco inclini alle lacrime, la vicepresidente Saenz de Santamaría e la ministra Fátima Báñez. Essa fonda la lotta alla disoccupazione galoppante (il paro, giunto ormai al 50% tra i giovani) su un deciso inasprimento dei medesimi strumenti esperiti senza successo dall’ultimo Zapatero: oltre ad agevolazioni di dubbia efficacia per promuovere l’impiego degli under 30 e degli over 45, il nocciolo della riforma prevede una maggiore facilità e un minor costo del licenziamento (soprattutto per le imprese in difficoltà), il depotenziamento o l’abbandono degli accordi sindacali nazionali in favore di quelli aziendali, la privatizzazione delle agenzie di collocamento, e la licenza per il datore di lavoro di modulare arbitrariamente il salario a seconda delle “esigenze di competitività o produttività” (con un preavviso di 15 giorni, e ben poche garanzie o risarcimenti per il lavoratore che non accetti il mutamento). L’apparente impulso alle assunzioni a tempo indeterminato è bilanciato dalla facilità dei licenziamenti, soprattutto durante il primo anno di prova, o in caso di prolungata difficoltà economica: contrariamente a quanto Rajoy prometteva in campagna elettorale, si sposa qui la nota linea liberista che lega la facilità di licenziamento all’aumento dell’occupazione stabile. E per incrementare l’occupazione giovanile si ricorre agli stessi slogan di buoni propositi che popolano – sempre uguali, come ha denunciato Xavier Vidal-Folch sul País di domenica scorsa – i documenti dei vertici europei dal 1997 a oggi.

“Resistete anche a quelli che sono detti grandi / a tutti quelli che scrivono discorsi sulla stagione / accanto alla stufa d’inverno / alle adulazioni agli auguri agli infiniti salamelecchi / degli scrivani e dei vili al loro saggio capo”

(Michalis Katsaròs, Il mio testamento, 1953).

Non c’è chi non veda come la riforma spagnola porti a effetto, senza concertazioni e con la celerità decretale consentita dalla larga maggioranza ottenuta dal Partido Popular nelle elezioni di novembre, alcuni dei principi più volte esposti nei dibattiti italiani sulla riforma del mercato del lavoro. Che da noi simili principi alberghino non solo – come sarebbe da attendersi – nella destra, ma anche nel principale partito progressista, va di pari passo con il fatto che essi siano stati primamente adottati in Spagna, sia pure in forma embrionale, dal governo socialista, checché ne dicano gli esponenti del PSOE che oggi si stracciano le vesti gridando al “decretazo” e  alla cancellazione dei diritti fondamentali dello Statuto dei lavoratori. Le voci dei sindacati maggiori, che inizieranno la mobilitazione il 19 febbraio, paiono tanto indignate quanto complessivamente fievoli. In generale, reduce da un’epocale sconfitta nelle urne, il fronte socialista pare più impegnato in battaglie di vertice che nell’elaborazione di un coerente programma alternativo: la recente disfida per la segreteria del PSOE ha visto uno scontro all’ultimo sangue fra Alfredo Rubalcaba (già ministro dell’interno di Zapatero) e Carme Chacón (già ministra della difesa), con la vittoria di giustezza del primo, appoggiato da una parte importante dell’apparato nonostante la débâcle novembrina. Rubalcaba, cui ha giovato forse la maggiore esperienza a fronte della più giovane e ruspante (e secondo alcuni più confusa) catalana Chacón, si è mostrato pronto a rimarcare la continuità con lo “zapaterismo” – unico discorso “di rottura” è stata la proposta di abolire il Concordato e i conseguenti privilegi della Chiesa cattolica, un’idea così impraticabile nel clima attuale da risultare quasi balzana in bocca a chi fino a pochi mesi fa aveva il pieno potere formale di applicarla.

Come si conviene a un governo conservatore già in difficoltà in quella medesima politica economica su cui aveva puntato buona parte della propria campagna, muta così di segno e s’inasprisce la propaganda ideologica (il ministro dell’istruzione Wert annuncia contenuti affatto nuovi per l’insegnamento di Educazione civica nelle scuole), ma prosegue l’addomesticamento dei giudici scomodi, e si persevera nel propugnare la riforma del mercato del lavoro come panacea della crisi economica. In nessuna di queste materie (e certo non nell’ultima) il partito socialista sembra poter vantare una credibilità maggiore del Partido Popular; e i crudi retroscena delle lotte intestine fra Rubalcaba e Chacón, nel riportare alla mente certe dinamiche del nostro Partito Democratico, rendono ancora più assordante l’insistito e quasi esibito disinteresse rispetto alla piattaforma politica più innovativa uscita dal 2011 spagnolo, ovvero quella dei cosiddetti indignados, che tante speranze e tanto clamore aveva suscitato worldwide. Nonostante il gruppo “Democracía real ya”, dopo la grandissima eco del maggio scorso, continui a mobilitarsi e a convocare riunioni in tutta la Spagna, la politica ufficiale – che pure, specie a sinistra, ha pagato dazio a tale movimento in termini di astensionismo e di perdita di consenso – sembra vivere in un mondo parallelo, ripiegato su se stesso, incapace di oltrepassare vieti caroselli di un tempo perduto o ricette banali quanto inutili (le misure economiche di Zapatero sono state utili per la crescita dell’economica spagnola? quelle di Rajoy, di segno affine e ancor più profonde, lo saranno?). Per chi voglia avere un’idea di cosa si sia elaborato, in termini di proposte concrete, nelle giornate di Puerta del Sol, e nei laboratori dei mesi seguenti, si raccomanda l’aureo libretto di Pilar Velasco, Non ci rappresentano, con una nota di E. Deaglio, Tropea, Milano 2012.

“Qui si parla di Spagna. / Si vede bene che qui si parla / di quella Spagna / delle sbarre, della tortura, della mordacchia. // Di quella Spagna / che per non voler tacere, / né morire, si ribella. / Sempre più si ribella. // E non è sola nel mondo, / anche se ha la gola / secca dal gridare, perché sa / che altre voci, altre mani / l’accompagnano”

(Rafael Alberti, Que trata de España, 1972).

***

Uno dei graffiti ricorrenti del 15-M a Madrid recitava “Violenza è prendere 600 euro”. Il Paese in cui questo slogan risulta di più drammatica attualità è indubbiamente la Grecia, dove le nuove misure economiche appena approvate prevedono la riduzione del salario minimo da 751 a (appunto) 600 euro, con un ulteriore -10% per gli under 25, secondo una progressione (fino a pochi mesi fa il salario minimo era di 856) che – a meno di sorprese – porterà in poco tempo ai livelli tipici dei Paesi dell’Europa dell’est, come i 310 euro della Repubblica ceca o i 161 della Romania (e si è visto che anche lì ogni tanto le piazze fremono, come a Bucarest non molti giorni fa).

Sarebbe fin troppo facile, sul piano iconografico, identificare il volto della Grecia con quella piangente a Missolungi nel celebre quadro di Delacroix. Più utile, forse, è cercare di cogliere le analogie che legano il destino di quel Paese al resto del Mediterraneo (al Portogallo, non meno sferzato dai medesimi disegni, penseremo un’altra volta); perché da ogni parte – anche autorevolmente – si sente dire che “l’Italia non è la Grecia”, “España no es Grecia”, “la Grèce ne fait rien de ce qu’elle devrait”, “Griechenland ist ein Sonderfall”, e nessuno sembra chiedersi l’effetto di queste confortanti rassicurazioni sull’autocoscienza di un popolo non necessariamente composto di bancarottieri né votato in via programmatica al martirio. In molti, nel paese del sì, ci indignammo per il sorrisetto complice in conferenza stampa fra la Merkel e Sarkozy (quest’ultimo, peraltro, recentemente insignito da re Juan Carlos dell’ambitissimo ordine del Toson d’Oro, come documenta un’istruttiva mostra alla Fundación Carlos de Amberes di Madrid); ma oggi nessuno sembra battere ciglio dinanzi alla sprezzante superiorità con cui l’arcigno Schäuble o il tecnocrate Draghi o il borioso Verhofstadt quotidianamente richiamano i nipotini di Pericle ai loro dettami, fomentando di riflesso spinte nazionalistiche e atavici rancori.

“Sii molto prudente con le parole / proprio come lo sei quando porti in spalla un ferito grave”

(Aris Alexandru, Zona morta, 1959)

La Grecia ha ormai una disoccupazione a livelli spagnoli (21%, che sale al 48% sotto i 25 anni), ma un debito pubblico più che doppio (viaggia verso il 170%), un reddito nazionale in caduta libera (-12% in 2 anni) e un’economia infinitamente più debole, già prostrata in tutti i settori da misure di austerità che hanno falcidiato il settore pubblico (destinatario ora di altri 150mila licenziamenti in 3 anni, per non parlare dei nuovi tagli previsti ai già esigui stipendi) e hanno avvitato l’impresa privata in una coclea d’inazione, provocando una massiccia fuga di capitali, e viceversa la privatizzazione – spesso in mano a capitali stranieri – di alcune delle realtà produttive pubbliche più importanti. Gli effetti sul tasso d’impiego, sull’andamento della domanda interna, sul tenore di vita generale, sono lampanti a chiunque abbia occasione di passeggiare nel centro di Atene, e di osservare i segni di un recente benessere repentinamente cangiato in desolata stasi.

Il disegno di legge discusso nella Vulì domenica pomeriggio consiste essenzialmente nell’approvazione del piano per i titoli di stato (35 miliardi), nella decisione di ricapitalizzare le banche (per 23 miliardi), e nella delega al premier Papadimos per la firma del protocollo d’intesa legato alla concessione di un nuovo prestito da parte dell’Europa e del Fondo Monetario Internazionale (130 miliardi). Il protocollo si fonda sul memorandum esibito dalla trojka dei negoziatori internazionali (Commissione Europea – BCE – FMI), la stessa compagine che il sindacato di polizia (non un centro sociale) ha minacciato, non si sa quanto provocatoriamente, di tradurre nelle patrie galere per oltraggio al Paese e attentato al suo assetto democratico. Qualunque fine facciano i suoi estensori, il testo di questo memorandum– che è il secondo del genere, dopo il sostanziale fallimento del primo, varato nel 2010 e già di per sé non poco allarmante – rimane un documento assai istruttivo.

Esso prevede, o meglio impone, un avanzo primario di 3,6 miliardi nel 2013 e di 9,5 miliardi nel 2014 (questo nel draft del 9 febbraio: fino al giorno prima erano rispettivamente 2,6 e 7,3: miliardi come bruscolini). Propedeutici a tale risultato sono tagli importanti nei seguenti settori: spesa farmaceutica (con riduzione dei margini di guadagno per i farmacisti); spesa per gli straordinari dei medici ospedalieri; spese militari; investimenti pubblici (400 milioni); magistrature locali (vicesindaci); spese di rappresentanza e rimborsi elettorali; fondi ed esenzioni per aree remote o disagiate; pensioni di enti pubblici e integrative; in prospettiva (entro settembre) di nuovo tutte le pensioni. Inoltre viene richiesta una “lenzuolata” di liberalizzazioni in diversi settori, dai notai ai dentisti, dai commercialisti alle guide turistiche, dai macelli alle officine, con speciale attenzione ai trasportatori e ai benzinai, sullo sfondo di un’ulteriore ondata di privatizzazioni, che dovranno obbligatoriamente fruttare 50 miliardi di euro entro il 2015: lo Stato dovrà rimanere in controllo soltanto, se necessario, di “critical network infrastructure”, mentre treni, autobus ed aeroporti dovranno essere alienati, ed enti come quelli energetici dovranno subire l'”unbundling” per sceverare le reti dalle compagnie fornitrici.

A tutto questo si accompagna un aumento del 25% delle tariffe ferroviarie e metropolitane, una revisione globale del sistema sanitario, una riforma fiscale con totale riscrittura delle leggi sull’evasione, chiusura di 200 uffici delle imposte giudicati “inefficient”, e nuove indagini speciali sui contribuenti ricchi; in più, nella cornice una radicale riforma di tutti gli apparati dello stato, il ripensamento dell’Ispettorato del Lavoro, l’inserimento di una “labour card” elettronica, i citati licenziamenti nel settore pubblico (15mila con effetto immediato), e il citato abbassamento del salario minimo del 22% rispetto al livello del 1 gennaio – qui peraltro i filologi hanno pane per i loro denti: nel draft dell’8 febbraio si parlava non (come nella versione definitiva) di “minimum wages”, ma di “wages” tout court, dunque dell’abbattimento di tutti quanti i salari greci: un refuso davvero singolare, quasi un lapsus freudiano. Si tratta di un vero e proprio programma di governo, che offre indicazioni dettagliate anche su molte altre materie, dalla gestione delle energie rinnovabili ai metodi di amministrazione della giustizia (revisione del codice civile, eliminazione dell’arretrato etc.) fino all’allocazione delle frequenze telefoniche e televisive, e indica numerose – benché largamente velleitarie – prospettive di crescita economica.

Non è mestieri sottolineare qui ciò che è evidente a chiunque, ovvero la stretta analogia di parte di questo memorandum con i principali criteri ispiratori, e le principali misure, del governo italiano presieduto da Mario Monti: non c’è di che stupirsi, giacché la trojka rappresenta le medesime istituzioni che redassero la famosa lettera a Berlusconi, e giacché di quelle istituzioni il premier Papadimos, il premier Monti e il loro amico Draghi sono o sono stati fino a ieri tra i membri più influenti. Tra gli aspetti più caratterizzanti dell’intervento greco ne spiccano due: a) il suo carattere ultimativo, il “prendere o lasciare” che prescinde da ogni possibile contrattazione con le parti politiche o sociali, esattamente come il “Salva-Italia” approvato alla bulgara o la nuova riforma del lavoro spagnola, il cui passaggio per il Congreso si prevede già ora come una mera formalità; b) la previsione di un’infinita serie di rendiconti mensili (in certi casi settimanali) su tutte le attività del governo, della Banca di Grecia e dei tribunali, da inviare per mail all’indirizzo ecfin-greece-data@ec.europa.eu: la lista di documenti da produrre a getto continuo (per la cui sola redazione ci s’immagina quale elefantiaco apparato burocratico dovrebbe essere mobilitato) occupa 6 pagine, e dà la misura di quanto si sia già pienamente realizzato l’auspicio della sig.ra Merkel per un controllo diretto, costante e capillare della vita sociale ed economica della Grecia da parte di organismi economici sovranazionali e non elettivi. Che in Italia e in Spagna non si sia giunti a mettere nero su bianco questo dato di fatto è dipeso solo dal maggior tempo a disposizione (la Grecia non ha i soldi per rimborsare 14,5 miliardi di titoli di stato il 20 marzo, quando dovrebbe dunque dichiarare bancarotta) e dalla cortese arrendevolezza dei governanti di quei Paesi, da Zapatero a Napolitano.

“Atene. Fulminei sviluppi dei fatti / che apprese esterrefatta / la pubblica opinione: ‘Ormai non c’è / più tempo’ ha detto il ministro testè”.

(G. Seferis, Il Tordo, 1947)

Sappiamo com’è andata la votazione di domenica: alla defezione di diversi deputati socialisti e dell’intero partito di estrema destra LAOS (il cui leader Karatzaferis ha scomodato Kavafis e il “grande no” di Celestino V, forse senza ricordare né il contesto dantesco né quello dello stesso poeta alessandrino), si è sommata l’ostilità di molti deputati delle isole (ferite mortalmente dall’abolizione dei privilegi fiscali), quella di singoli eletti di PASOK e Nea Dimokratía che hanno disubbidito alla disciplina di partito, e quella di lobbies colpite nei loro interessi vitali. All’esterno del Parlamento, dopo gli scontri di venerdì, è nuovamente degenerata in feroce violenza urbana (ai livelli del dicembre 2008, e forse peggio) l’ennesima manifestazione di piazza Sìndagma, promossa fra gli altri dall’anziano musicista Mikis Theodorakis (egli stesso vittima dei lacrimogeni). Se anche gli “incappucciati” – a chiunque rispondano (e il Partito Comunista insinua che siano provocatori appositamente infiltrati o sobillati dal governo, per facilitare la repressione) – , se anche i black-bloc verranno domati questa volta, è da prevedere che nuove ondate di violenza si scateneranno nel futuro prossimo, in proporzione all’esasperazione della gente e all’incalcolabile debolezza della politica che dovrebbe contenerla.

La partecipazione attiva di Theodorakis (forse uno degli ultimi “grandi vecchi” dopo le scomparse di Anaghnostakis e Anghelòpulos) indica come anche il mondo della cultura percepisca acutamente la criticità del momento: molti osservatori indipendenti, in Grecia e fuori, segnalano l’assoluta insostenibilità delle misure previste, oltre alla loro inutilità in ragione della natura profondamente depressiva che le contraddistingue. Che futuro può avere un Paese allo sbando, vera bleiche Mutter à la Delacroix, che viene invitato a tagliare altri 400 milioni di investimenti pubblici e di sussidi agli investimenti privati? Che prospettive possono emergere dalla peraltro sacrosanta (e giustamente perseguita) lotta a corruzione ed evasione, o dall’ammodernamento economico a colpi di decreto, se il quadro generale è quello di un’affannosa rincorsa a pagare rate sempre più macroscopiche, nella speranza pazzoide di imminenti “crescite” a due cifre?

“In nessuna parte del mondo come a Wall Street si sente l’assenza totale dello spirito”

(Federico García Lorca, 1933)

Non ci vuole un Krugman per capire l’assurdità di queste mosse, o meglio la loro funzionalità alla tutela degli interessi delle banche, come spiega Marco Onado sul “Fatto” di domenica. D’altra parte, non si può chiedere a una classe politica corrotta e squalificata da ambedue le parti (senz’altro ben più che in Spagna), di farsi carico di fornire un’alternativa chiara e credibile: è palese che dopo il memorandum, comunque vada, il quadro politico greco è destinato a cambiare radicalmente, come si evince anche solo dall’appassionata e contraddittoria arringa parlamentare di Ghiorgos Papandreou, che ha difeso la propria storia familiare e di partito, ma ha scaricato sulla corruzione e il malcostume dei decenni passati il peso dell’odierna vergogna. Voci convinte e competenti sul processo in atto si levano solo da settori della sinistra radicale e da movimenti extraparlamentari, ma non si sa fino a quando il malcontento non verrà raccolto e convogliato da forze autoritarie di diverso segno.

Ad ogni modo, una cosa pare certa: l’insistenza sulla trasformazione (o l’abbattimento) dello stato sociale e dei diritti dei lavoratori è del tutto sproporzionata rispetto al peso di tali voci sull’insieme del bilancio, o al grado della loro responsabilità nella genesi della crisi in atto, che è e rimane primariamente di natura finanziaria: la prospettiva – pur con le aggravanti di uno Stato che ne ha combinate di ogni colore – è la medesima acutamente descritta da Luciano Gallino nel libro Finanzcapitalismo, Einaudi, Torino 2011. La diminuzione dei salari, l’eliminazione di agevolazioni essenziali per i più deboli, la flessibilizzazione e precarizzazione del lavoro, nella mancanza di ragionevoli prospettive di uscita dal tunnel (e in costanza di un sistema bancario pervicacemente tutelato), rendono de facto la Grecia un interessante laboratorio per sondare i meccanismi di coercizione economica e per creare in prospettiva un nuovo Paese da sfruttare, soprattutto per quanto riguarda la manodopera, sul modello di quelli emersi dalla cortina di ferro negli anni ’90.

Che una simile operazione cozzi contro diversi articoli della Costituzione greca, come l’apposito comitato scientifico del Parlamento ha apertamente dichiarato, interessa forse solo i legulei; che tale operazione sia guidata e promossa dal governo tedesco, però, rappresenta uno di quei ricorsi storici cui forse non solo i letterati dovrebbero guardare con preoccupazione: non più sull’estremista “Avghì”, ma perfino sul moderato giornale To Vima compaiono articoli (Gheorghios Maluchos nell’edizione di venerdì) che rammentano il famoso “Ochi!” (“No!”) opposto dalla resistenza greca alle potenze dell’Asse nel 1940-41, e invitano i politici a un sussulto di dignità atto a distinguerli dal servilismo di altre nazioni – dopotutto, si osserva, Hitler in persona ebbe a onorare i resistenti greci come gli oppositori più fieri e degni di rispetto che la Wehrmacht avesse mai incontrato.

“Anzi ora dico che Voi mi avete aperto la via, / avanzando con passo di danza nell’erebo, / miei guerrieri immortali; / dico che accanto a Voi / le tenebre della morte sono l’ombra / di un grande albero, distesi sotto il quale / discutiamo della Grecia, di come La vedevate / mentre i Vostri occhi si chiudevano su questo mondo, / il mondo che crollava perché Lei sorgesse / illuminata dal bagliore della Vostra anima”

(Anghelos Sikelianòs, Giuramento sullo Stige, 1947).

Chi non ha competenze di economista, e non sa addentrarsi con piede sicuro nei meandri dei Credit Default Swaps o delle aste dei bonds, può nondimeno trovare interessanti alcuni dei meccanismi retorici e propagandistici tramite i quali vengono perseguiti e conseguiti gli obiettivi testè descritti (meccanismi peraltro subdolamente all’opera anche nel memorandum stesso): farà dunque bene a tornare a Madrid, e a visitare al IV piano del Centro de Arte Reina Sofía la grande retrospettiva dedicata al catalano Antoni Muntadas (1942), ormai newyorkese d’adozione e a lungo docente al MIT di Boston. Le opere di questo artista concettuale, relativamente poco noto in Italia ma alquanto trendy nei milieux più sensibili alle tematiche di Foucault e Bourdieu, affrontano temi “time-specific” ma di valenza universale, come quando associano un archivio internazionale dei casi di censura (The File Room, 1994-2011) all’esame delle dinamiche di esclusione e di incastellamento nelle città del Brasile (Alphaville e Outros, 2011), la denuncia visiva della pericolosa caratura ideologica delle riunioni segrete dei grandi (The Board Room, 1987) alla rappresentazione della realtà riflessa nei neri vetri di una lussuosa limousine in giro per New York (The Limousine Project, 1991).

Non è dunque un caso che uno dei più recenti lavori di Muntadas (About Academia) sia dedicato alle dinamiche finanziarie e politiche che presiedono all’università “come impresa” invalso ai nostri giorni, e a quello stesso modello americano che la riforma Gelmini ha cercato di importare anche da noi. Perché forse, come rileva Gallino, uno dei problemi di fondo soggiacenti all’evoluzione economica in atto – e forse anche alla mancanza di uno sfogo politico del dissenso, per cui Atene brucia – sta nell’inettitudine delle istituzioni di ricerca e istruzione superiore a sviluppare un adeguato spirito critico tra docenti e discenti, nella passività dinanzi all’uso e all’abuso corrente della retorica e dello spazio pubblico, nella corrività con le dinamiche dell’applauso e dell’ovazione, delle labbra e dei microfoni, che Muntadas effigia in memorabili installazioni come Stadium (1989) o Applause (1999). Sarà forse sulla base di queste intuizioni che l’artista catalano aveva capito, 3 anni prima dei trattati di Maastricht, che l’Europa in via di costruzione stava coincidendo sempre più con un tappeto blu decorato da 12 vezzose stellette, ciascuna con una moneta nel cuore (CEE Project, 1989).

“Siamo noi e dove ritorniamo? / La povera casa in cui nascemmo / le mani tribolate che ci hanno fatto crescere / i nomi di ragazzi sulla corteccia dell’eucalipto, i corpi / che abbracciammo sopra l’erba ribelle, / cos’era dunque tutto ciò, cos’era / se non ha potuto saldarci in un legame più umano / se non ha potuto salvarci / quando s’è oscurata la nsotra sorte e siamo rimasti, / radici desolate e divelte, nella cenere? // Il nostro ritorno è un nuovo esilio. / Gli occhi fissi nel vento nero / cercano altrove, lontano / cercano la nostra patria / cercano assai lontano”.

(Viron Leondaris, Il ritorno dei combattenti, 1959).

(foto Vladimir Rys/Getty Images)