Michele Ainis spiega sul Corriere della Sera perché ha firmato il referendum per abrogare la legge elettorale pur non ritenendolo uno strumento adeguato.
La disperazione gioca brutti scherzi. E la legge elettorale vigente da tre legislature (il Porcellum) ha innescato una situazione disperante: parlamentari degradati al rango di vassalli rispetto ai signori di partito, due Camere senza più alcuna autorità, e per sovrapprezzo un premio di maggioranza da Enalotto, che finisce per drogare le elezioni. Da qui l’ultima trincea: il referendum.
Siccome il parlamento chiacchiera ma non cava mai un ragno dal buco, siccome ai leader politici sotto sotto questa legge elettorale piace, che siano i cittadini a sbarazzarsene. E infatti la fila dietro ai banchetti delle firme s’allunga di ora in ora. Chi va a firmare lo faccia ad occhi aperti: sapendo di partecipare a un gioco di prestigio.
Non che gli altri referendum del passato fossero limpidi come acqua marina. Se è per questo, la storia delle consultazioni popolari è tutta punteggiata da trucchi e da malizie. A cominciare dalla formulazione dei quesiti, che in Italia da decenni vengono scritti usando le forbici anziché la penna a sfera. Per quale ragione? Perché la nostra Carta ammette soltanto il referendum abrogativo: per cancellare, non per aggiungere. Ma se una legge dice «Berlusconi non ha la barba» qualcuno può sempre chiedere d’abrogare per via referendaria il «non» e allora toh! al presidente del Consiglio crescerà una bella barba nera. Da ciò quesiti più lunghi d’un lenzuolo, da ciò una pioggia di coriandoli normativi sottoposti a referendum, un aggettiva di qua, una virgola di là.