Come esce l’Italia dalla fine di Gheddafi

Non male quanto si pensa, spiega Marta Dassù sulla Stampa

Marta Dassù espone sulla Stampa gli elementi che compongono lo scenario dei nuovi potenziali rapporti dell’Italia con la Libia, alla luce della sconfitta di Gheddafi.

La lettura che prevale è questa: con la caduta di Gheddafi – poi si vedrà che fine farà il dittatore – l’Italia ha perso il suo rapporto privilegiato con Tripoli.
E’ vero che Roma, dopo alcune esitazioni iniziali, si è ricollocata dalla parte di Bengasi, ha dato le sue basi alle operazioni Nato, vi ha partecipato direttamente e così via. Ma la strana guerra di Libia è stata voluta essenzialmente da Parigi e in seconda battuta da Londra. Nicolas Sarkozy cercherà quindi di raccogliere i frutti del suo impegno, guidando la ricostruzione economica. La presenza dell’Italia in Libia ne uscirà fatalmente ridimensionata.
C’è un dato vero, di cui tenere conto. I capi della Cirenaica – i famosi «ribelli» dell’Est – non hanno mai amato particolarmente l’Italia. La storia è ben nota. Ma è sempre utile ricordare che l’area attorno a Bengasi faceva parte dell’Impero Ottomano, fino a quando l’Italia non estromise la Turchia dalla Libia e decise, quale potenza coloniale (1911), di unificare Cirenaica e Tripolitania. Da Bengasi, il futuro re Idris istigò la resistenza contro gli italiani durante la Seconda Guerra mondiale. C’è in proposito una nota interessante nei documenti diplomatici britannici. Nel gennaio del 1942, Anthony Eden, allora Foreign Secretary di Sua Maestà, promise a Idris che «alla fine della guerra i Senussi di Cirenaica non sarebbero in nessuna circostanza ricaduti sotto il dominio italiano». Ecco: per quanto l’Italia abbia riconosciuto e aiutato, nei mesi scorsi, il Consiglio di Bengasi, c’è una storia che pesa. E di cui Roma deve tenere conto, quando si propone ai vertici del Consiglio Nazionale di Transizione – che ha dentro di tutto un po’: ex collaboratori di Gheddafi, capi di tribù rivali, islamisti – come un interlocutore preferenziale.

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