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Soffia il vento sul Kosovo

Che cos'era, che cos'è adesso, cosa può diventare e cosa c'entriamo noi, nel reportage di Filippomaria Pontani

di Filippomaria Pontani

Soffia il vento in cima al memoriale di Kosovo Polje, la torre che svetta sul Campo dei Merli dove nel giugno del 1389 si combatté tra i Turchi Ottomani e i Cristiani la battaglia decisiva per il controllo dei Balcani. Sul bordo del mastio, una targa di metallo raffigura in una piantina gli schieramenti dei due eserciti copiosi e compositi, le loro mosse e la posizione dei due comandanti, il sultano Murat e il principe Lazar, entrambi destinati a trovare la morte in quella giornata. Ma se alzo lo sguardo verso l’orizzonte, là dove insistevano i due accampamenti, vedo ora le ciminiere della centrale termoelettrica più inquinanti d’Europa, la famigerata Kosovo A, che da cinquant’anni brucia lignite locale e fumiga incessante ammorbando l’aria di Pristina, un paio di chilometri a sud. Verrà chiusa – sembra – nel 2017, quando gli investimenti americani avranno avviato una Kosovo C, più moderna, pulita e sicura.

Da quassù si vede ad un passo la strada che mena a Belgrado, la strada del nord che attraversa le zone ancora in mano ai Serbi, la provincia di Kosovska Mitrovica: una strada sconsigliata ai viaggiatori stranieri, nervosamente percorsa da 4×4 segnati “UN” o “KFOR”, e destinata a sfociare nei valichi 1 e 31 con la Serbia (Jarinje e Brnjak), presso i quali alla fine di luglio si sono riaccesi gli scontri. Le cronache raccontano di poliziotti di etnia albanese inviati dal governo di Pristina ad assumere il controllo di quelle dogane – attualmente gestite da Serbi e da forze internazionali – per bloccare in segno di ritorsione le importazioni dalla Serbia, visto che quel Paese non accetta prodotti che rechino il timbro del Kosovo, non riconoscendolo come Stato autonomo: i più spiritosi hanno parlato di “crisi dei biscotti Plazma”, dal nome di un noto prodotto che rischia di diventare introvabile a Pristina. Le cronache raccontano di resistenze organizzate dei Serbi locali, di tafferugli di hooligans serbi determinati a impedire il passaggio di consegne. Ci è scappato il morto tra gli incauti poliziotti, e si è riaccesa per un attimo la luce su questo lembo d’Europa che le diplomazie e i media, distratti dalle primavere arabe, degnano ormai di rare attenzioni. Poi la condanna circospetta di Belgrado, le proteste e le accuse del premier Hashim Thaci, le dimostrazioni di Serbi e Albanesi, e di nuovo il silenzio. Ma quella scaramuccia non è stata un fatto isolato.

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Chi entra in Kosovo rimane stupito, d’emblée, da due spettacoli inattesi: sui cartelli stradali, in larga parte bilingui, i toponimi serbi sistematicamente cassati da getti di vernice o colore, così da lasciare leggibili solo quelli albanesi; sulle case e i pennoni non già la bandiera a sei stelle del neonato stato indipendente (una stella per ogni etnia: oltre alle due dominanti, i turchi, i rom, i bosniaci, i gorani), bensì quasi ovunque l’aquila bicipite di Shqipëria, non di rado appaiata, incrociata, connessa, al vessillo degli USA. Questi piccoli segnali spiegano anche, in parte, le realtà macroscopiche all’intorno, soprattutto a Pristina e nei centri più grandi: le case appena finite o ancora attaccate alle gru, i centri commerciali fiammanti, l’enorme statua della Libertà che troneggia sul frontone di un albergo, le ruspe che in pieno centro rinnovano quartieri fatiscenti. Ci sono soldi per costruire, a Pristina, e c’è l’America.

Non a caso, uno dei viali più lunghi della capitale è intitolato a Bill Clinton, una cui statua a grandezza naturale, su alto piedistallo, saluta le auto col braccio sinistro in uno dei punti nevralgici del traffico cittadino. Se cerco nella mia corta memoria qualcosa di simile, mi sovviene l’Avenue George W. Bush che collega l’aeroporto di Tbilisi al centro città – ma i Georgiani, almeno fino a un paio d’anni fa, si erano limitati ad apporre sul cartello una foto del presidente, senza arrivare al simulacro di bronzo. L’analogia stradale è meno peregrina, forse, di quanto possa sembrare d’acchito: dietro ai cospicui investimenti americani in entrambi questi Paesi vi è stato il medesimo disegno d’imporre (“democraticamente”, beninteso) una classe dirigente manipolabile e obbediente, pronta anzitutto ad opporsi all’influenza russa e slava in due punti nodali della trasmissione delle risorse energetiche del Caspio (si veda quanto scrive in proposito un’Americana: Marjorie Cohn, The Myth of Humanitarian Intervention in Kosovo, in A. Jokic, Lessons of Kosovo, Peterborough ON, Broadview 2003, 121-52). Non sempre le ciambelle escono col buco, e talora i governanti “amici” possono prendere iniziative avventate, come accadde in Ossezia nell’estate 2008 (lo ha ricordato Elena Favilli sul Post), quando uno spregiudicato Saakashvili scatenò il prevedibile putiferio di Tskhinvali, illudendosi forse di avere l’appoggio degli USA; o come è accaduto a fine luglio, quando un baldanzoso Thaci ha pensato di dettar legge nel nord del suo Paese, illudendosi forse di riscuotere il sostegno dell’Occidente compatto (e invece dinanzi agli armigeri serbi, a Jarinje i soldati europei se la son data a gambe; solo a Brnak, pare, i Francesi hanno reagito dando pan per focaccia).

Ma quelle iniziative, perché definirle “avventate”? Non era avventata nel 2008 (se non certo nelle proporzioni) la guerra di Saakashvili, il quale mirava a raggrumare attorno a sé il nazionalismo di un popolo che per mesi con imponenti manifestazioni aveva contestato la sua leadership (e cosa farà l’opposizione ora che Hollywood celebra il presidente sotto le fattezze di Andy Garcia? l’imbarazzante film 5 Days of August è fresco di uscita). Non è avventata ora la prova muscolare di Thaci, tesa a tacitare l’opposizione interna, e a ribadire il concetto che lui, l’antico generale, è l’unico possibile garante dell’albanesità del Kosovo. Perché non sempre si ricorda che Thaci, vittorioso alle elezioni del 2007, è stato uno dei quattro padri fondatori dell’UCK, la formidabile armata di liberazione che dopo gli accordi di Dayton, dove la questione kosovara fu colpevolmente ignorata (1995), prese il sopravvento tra gli autonomisti sulla linea non-violenta di Ibrahim Rugova, l’intellettuale con la sciarpina morto nel 2006. All’epoca, dopo il ’95 e ancor più dopo la crisi albanese del ’97, l’UCK iniziò una capillare campagna di reclutamento forzato per creare una forte opposizione popolare al dominio e alle pulizie etniche perpetrate dai Serbi di Milosevic, il quale proprio qua sotto, davanti alla torre memoriale di Kosovo Polje, aveva tenuto nel giugno 1989 il discorso-chiave della sua vita, quello che l’aveva trasformato in un pomeriggio da alto funzionario del Partito in fiero nazionalista a 24 carati.

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