Editoriale – L’Aventino è un colle

La spinta insurrezionale all'interno del PD è rientrata nei ranghi, sconfitta sul campo

L’Aventino è uno dei sette colli su cui la tradizione vuole che sia stata costruita Roma. Aventino, Campidoglio, Celio, Esquilino, Palatino, Quirinale, Viminale, è una delle liste ipotizzate: che uno non se li ricorda mai (un’altra volta facciamo i re). Oggi sull’Aventino ci sono belle case e deliziose passeggiate da fare: per i romani è un posto, un colle, appunto.

Per i non romani l’Aventino è più conosciuto per l’uso che si fa del suo nome come sinonimo di pacifica protesta secessionista. Per via di accadimenti storici che risalgono all’epoca romana – le proteste dei plebei che si ritiravano dalla città – citati come precedente quando nel 1924 un gruppo di deputati italiani abbandonò i lavori del Parlamento riunendosi separatamente (in una sala detta da allora Sala dell’Aventino) per protestare contro l’omicidio dell’onorevole Giacomo Matteotti compiuto dai fascisti.

L’altroieri i giornali italiani, e anche la politica, erano tornati a usare l’espressione, evocando concretamente la possibilità che le opposizioni si ritirassero dalla partecipazione ai lavori del Parlamento per protesta contro il colpo di mano della maggioranza sulla prescrizione breve. Dentro il maggiore partito di opposizione, una simile tentazione sembrava rappresentata nientemeno che dal presidente Rosy Bindi (e appoggiata vivacemente da Ignazio Marino), che ne parlava esplicitamente in un’intervista a Repubblica.

«Mai più una settimana tranquilla in Parlamento. Mai più una qualsiasi forma di collaborazione con la maggioranza. Avevo difeso l’astensione del Pd sul federalismo regionale. Adesso dico: è stato un errore. Un errore grave, un lusso che non possiamo permetterci. Basta concessioni a Berlusconi. Altrimenti non comunichiamo alla gente la nostra battaglia contro il premier».

«Il momento è tale che non possiamo rispondere con i mezzi ordinari a una situazione straordinaria»

«Dobbiamo decidere insieme qual è la soluzione migliore. Ma insisto: la non partecipazione può essere più chiara, più diretta, di una partecipazione che non incide e spesso si rivela inutile»

«Ci sono dei momenti straordinari. Noi viviamo in uno di questi. Se non facciamo niente di nuovo, ungesto di rottura contro l’imperatore, unsalto vero, anche il processo breve sarà presto derubricato, metabolizzato, dimenticato. Come è successo per altri provvedimenti vergognosi».

Possibile che non abbia un’idea su come mettere in pratica questo salto di qualità? Si può pensare alle dimissioni sue e di tutti i parlamentari del Pd che hanno ruoli istituzionali?
«Dobbiamo parlarne insieme. Poi agire. L’ho detto anche a Bersani. Prima di tutto sono d’accordo con il presidio permanente davanti a Montecitorio. La dittatura della maggioranza merita una risposta forte. Non c’è più rispetto per le regole e non c’è rispetto nemmeno perla realtà visto che il Parlamento si accinge a votare un testo che dice: sì, Ruby è la nipote di Mubarak»

A brigante brigante e mezzo? «Non dico questo»

Rosy Bindi non diceva questo. Però diceva che il fine giustifica i mezzi. D’Alema aveva intanto risposto alla sua invocazione di scelte straordinarie con la sua abituale sapienza comica (“Che vuoi? Che gli vado a menare? Mi levo gli occhiali e vado…”). Pare una buona battuta o un modo di chiamarsi fuori, ma sottolinea la difficoltà di questa opposizione che è troppo debole e inerme di fronte alle prepotenti e rovinose scelte della maggioranza. Ne avevamo già parlato qui mesi fa: cosa può fare questa opposizione?

Non è facile rispondere, ma è più facile dire cosa non deve fare. Non deve innanzitutto accelerare il disastroso percorso che sta annullando ogni differenza tra i ruoli dei rappresentanti istituzionali e quelli dei cittadini comuni. I parlamentari sono dotati di funzioni e strumenti straordinari e propri per ottenere ciò a cui i cittadini li hanno delegati: se vogliono rinunciarvi e tornare a comportarsi come gli altri cittadini, privilegiando forme di protesta e disobbedienza civile, si dimettano e tornino a essere come gli altri cittadini. Idem se si ritengono incapaci di svolgere il loro ruolo efficacemente.


Perché questa è una democrazia nel 2011, non un impero precristiano né una dittatura fascista che fa uccidere i deputati dell’opposizione. La democrazia compiuta prevede le maggioranze e prevede anche le maggioranze forti. Quello che sta facendo questa maggioranza sta nelle regole democratiche, piacciano o no i suoi contenuti (non piacciono, qui). Può capitare, purtroppo, che una opposizione abbia spuntate tutte le sue armi.

Quello che però va aggiunto, è che non è capitato questa volta. Lo dice Dario Franceschini in un’intervista all’Unità (“il dibattito sull’Aventino è chiuso”), fiero del suo intervento sopra le righe di mercoledì che se non rientra esattamente nella categoria dei solidi argomenti politici di certo ha ottenuto il risultato di mandare ai pazzi il ministro La Russa e avviare la catastrofe della maggioranza delle 24 ore successive. Ma lo dice più chiaramente ancora Stefano Cappellini, direttore del Riformista, in un editoriale che sarà il caso di tenere a portata di mano, in caso se ne riparli, dell’Aventino (un colle).

Se ieri il Partito democratico avesse seguito la via suggerita dai teorici dell’Aventino, se avesse prevalso la lezione pasionaria di Rosy Bindi che voleva lasciare l’aula insieme a tutta la truppa democratica, se i maestrini dipietristi e le loro sguaiate gazzette avessero imposto la linea del gesto eclatante, il risultato è che stasera il processo breve sarebbe già stato approvato dalla Camera dei deputati. Invece la maggioranza ha commesso errori, s’è incartata e sfilacciata e alla fine non ha portato a casa niente. Il blitz per regalare a Silvio Berlusconi un’altra legge ad personam alla vigilia della prima udicenza del processo Ruby è fallito. Difficile trovare una dimostrazione più evidente e incontestabile del fatto che il mestiere dell’opposizione è innanzitutto opporsi bene in aula, con tutti i mezzi che il regolamento consente.

Bindi, che non è un dirigente qualsiasi, bensì il presidente dell’Assemblea nazionale del Pd, e gode di un largo credito presso l’elettorato democrat, ha proposto in una intervista a Repubblica una linea di condotta che, riletta alla luce della giornata parlamentare di ieri, avrebbe condotto il suo partito alla disfatta. «Se non facciamo niente di nuovo – diceva Bindi – un gesto di rottura contro l’imperatore, un salto vero, anche il processo breve sarà presto derubricato, metabolizzato, dimenticato». Ma l’unica conseguenza del gesto di rottura sarebbe stata, appunto, quella di spianare la via ai piani del Pdl.

Nel delirio dell’altroieri, quando una pattuglia di nostalgici dell’hotel Raphael ha pensato che si potesse dare la spallata a Berlusconi presentandosi davanti all’uscio di Montecitorio e svuotandosi le tasche delle monetine da 10 cent, c’è stato persino chi, come il senatore Ignazio Marino, è arrivato a ipotizzare dimissioni collettive: «Dobbiamo fare dei gesti eclatanti – ha detto il chirurgo ed ex candidato alla segreteria del Pd – come abbandonare tutti l’Aula e, perfino, dimetterci in massa per arrivare a nuove elezioni». Per poi concludere: «Le persone non ne possono più e non possiamo essere complici di questo regime».

L’idea che l’opposizione si renda «complice» di qualcosa, qualunque cosa, semplicemente facendo il suo dovere, cioè dando fino in fondo battaglia in aula, è la prova definitiva che il male che si sta divorando la nostra democrazia, lo svuotamento e la decadenza del Parlamento sovrano, non è certo solo figlio del Porcellum o della nota allergia di Berlusconi per le Camere (invero miracolosamente attenuata da quando si tiene a galla solo grazie alla raccogliticcia pattuglia di trasformisti che ha arruolato). Il virus ha attecchito bene, eccome, anche a sinistra, dove le trombe del primitivismo, del massimalismo un tanto al chilo, suonano a tutte le ore e spesso riescono a coprire, quando non a zittire, la voce della politica.