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La storia di Spatuzza e dell’attentato a Borsellino

Piccola guida per capire gli sviluppi apparsi sui giornali di oggi e diffidarne

di Francesco Costa

I giornali di oggi aprono quasi tutti allo stesso modo. “Stragi, il pentito riconosce uno 007”, scrive il Corriere della Sera. “Uno 007 nell’agguato a Borsellino” è il titolo di apertura di Repubblica. Il Messaggero invece “Borsellino, accuse a uno 007”. E via dicendo. La storia è quella dell’ex mafioso Gaspare Spatuzza e delle sue presunte rivelazioni riguardo la strage del 19 luglio 1992, quando un’esplosione in via D’Amelio, a Palermo, uccise il giudice Paolo Borsellino e la sua scorta. Storia che comincia quindi molto lontano e il cui ultimo episodio è descritto dai quotidiani in maniera molto approssimativa, complice forse l’esigenza di sintesi richiesta dai titoli. Cominciamo dall’inizio, quindi.

La strage di via d’Amelio
Paolo Borsellino muore a causa dell’esplosione di una FIAT 126 contenente cento chilogrammi di esplosivo. La giustizia italiana celebra tre processi diversi per individuare esecutori e mandanti dell’attentato. Il primo processo ha portato alla condanna all’ergastolo di tre mafiosi, Orofino, Scotto e Profeta, esecutori della strage. Li accusa il pentito Vincenzo Scarantino, la cui testimonianza risulta fondamentale, insieme a quella di Salvatore Candura. Nel 1997 comincia il secondo processo, per individuare i mandanti: sette mafiosi vengono condannati all’ergastolo, tra cui Totò Riina. Poi c’è un terzo stralcio, partito pochi mesi dopo il secondo, riguardo altri mafiosi responsabili a vario titolo dell’attentato. Nel 1998 però Scarantino ritratta tutto. Nel 2007 la procura di Caltanissetta, titolare dell’inchiesta, la riapre: principalmente per scoprire – come testimonianze vaghe e non confermate lascerebbero intendere – se apparati dello stato deviati abbiano avuto un ruolo nella strage. I sospetti si intrecciano a quelli, simili, riguardo la strage di Capaci, nella quale morì il giudice Giovanni Falcone, e nel tentato attentato dell’Addaura, sempre ai danni di Falcone.

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Gaspare Spatuzza
È il personaggio centrale. Mafioso di Brancaccio, quartiere di Palermo: comincia come piccolo manovale e diventa boss e alleato dei fratelli Graviano. Fa parte del commando che uccide padre Pino Puglisi nel settembre del 1993. Viene arrestato in modo rocambolesco nel 1997, si rifiuta di collaborare con la giustizia. Viene condannato all’ergastolo per l’omicidio di don Puglisi e ritenuto responsabile di altri vari omicidi di mafia, ma non risulta avere a che vedere con gli omicidi di Falcone e Borsellino. Si rifiuta di collaborare con la giustizia: nel 2003 circola qualche indiscrezione sul fatto che stia parlando ai pm e la sorella si affretta a scrivere a Repubblica e smentire tutto. A un certo punto però inizia a collaborare per davvero: è il giugno del 2008.

La legge sui pentiti
La disciplina dei collaboratori di giustizia è regolata da una legge votata dal Parlamento italiano praticamente all’unanimità il 13 febbraio 2001. Stabilisce che un collaboratore di giustizia ha un tempo massimo di sei mesi per dire tutto quello che sa, e il tempo inizia a decorrere dal momento in cui il pentito dichiara la sua disponibilità a collaborare. I benefici di legge garantiti dalla legge vengono erogati solo dopo che viene provata l’importanza, la veridicità la novità delle dichiarazioni. Spatuzza collabora, e le cose che dice in sei mesi stravolgono tutto quello che i magistrati credevano di avere accertato nei sedici anni precedenti.

Che cosa dice Spatuzza
Oltre a fornire dettagli su vari reati per cui era già stato condannato, Spatuzza si denuncia di un crimine per cui non era mai stato accusato: l’attentato a Paolo Borsellino. Dice che a lui venne commissionato il furto della FIAT 126 che sarà poi riempita di esplosivo. Smentisce completamente quanto aveva raccontato Vincenzo Scarantino. Per confermare la credibilità della sua versione, dice ai magistrati di controllare i freni della FIAT 126, dicendo di averne messi di nuovi prima dell’attentato. Il dettaglio torna, insieme a molti altri. Scarantino aveva già ritrattato tutto, alla fine degli anni Novanta, ma i magistrati non gli avevano creduto. Candura ammette di essersi inventato quello che aveva raccontato. Un depistaggio in piena regola, del quale non sono noti con certezza i mandanti né gli scopi. Fatto sta che si ricomincia da capo.

L’attendibilità di Spatuzza
Siamo nell’aprile del 2009. I numerosi riscontri trovati alle parole di Spatuzza fanno sì che la procura di Caltanissetta lo consideri attendibile. La stessa cosa viene detta dalla procura di Firenze nel marzo del 2010, a proposito delle dichiarazioni rese da Spatuzza nel processo che indaga sugli attentati della mafia a Roma e a Milano e sui presunti rapporti della criminalità organizzata con Berlusconi e Dell’Utri. Solo che in quei mesi, da quando Spatuzza inizia a collaborare, le procure non chiedono che venga sottoposto al programma di protezione. Lo fanno un anno dopo, quando Spatuzza parla di Berlusconi e Dell’Utri, e il ministero degli interni la nega. Spatuzza, infatti, ha continuato a parlare superando il limite di sei mesi imposto dalla legge. O meglio: ha parlato per sei mesi dal giugno del 2008 e poi, un anno dopo, ha parlato dei rapporti di Berlusconi e Dell’Utri con la mafia, dei quali non aveva mai parlato prima. Quindi niente programma di protezione. Per quanto sull’attendibilità di questi ultimi elementi si discuta ancora, quella dei suoi racconti sull’attentato a Borsellino è oramai accertata.

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