Chi mise davvero la dinamite dell’Addaura?

Il 21 giugno 1989 vengono trovati cinquantotto candelotti di dinamite davanti la casa di Falcone

Il 20 giugno 1989 il giudice Giovanni Falcone si trovava in vacanza sulla costa dell’Addaura, in una villa che aveva affittato per l’estate. Falcone era ovviamente seguito dalla scorta, e la villa aveva davanti un fazzoletto di spiaggia. Quella sera a casa di Falcone c’erano anche i magistrati svizzeri Claudio Lehmann e Carla Dal Ponte, che in quei mesi stavano indagando su un traffico di denaro dalla Sicilia alla Svizzera. Il giudice palermitano li ha invitati per una cena e un bagno.

La mattina dopo gli uomini della scorta fanno una perlustrazione sulla spiaggia. Niente di straordinario: pratiche che una scorta deve evadere ogni giorno. Camminando sulla spiaggia, però, un agente scopre una borsa contenente cinquantotto candelotti di dinamite. E’ la storia dell’attentato fallito dell’Addaura, sulla quale da subito si scatenarono diverse polemiche – ci fu chi disse che Falcone se l’era fatto da solo, “per farsi pubblicità” – e rispetto alla quale le indagini non chiarirono mai del tutto la dinamica e i mandanti.

Repubblica di oggi dedica alla storia dell’Addaura due pagine firmate da Attilio Bolzoni, che avanza un’ipotesi non del tutto inedita, ma fornendo però qualche elemento in più: tra i mandanti di quell’attentato non ci sarebbero stati soltanto mafiosi – Riina, Biondino e Madonna sono stati condannati per l’accaduto – ma anche “un pezzo di Stato”, interessato a togliere di mezzo Giovanni Falcone.

Ci sono testimonianze che rivelano un’altra verità e che irrobustiscono sempre di più l’ipotesi di un “mandante di Stato”. La scena del crimine è da spostare di ventiquattro ore: la borsa con i candelotti di dinamite è stata sistemata sugli scogli non il 21 giugno del 1989 ma la mattina prima, il 20 giugno. E, da quello che sta emergendo dalle investigazioni, sembra che fossero due i ‘gruppi’ presenti quel giorno davanti alla villa di Falcone. Uno era a terra, formato da mafiosi della famiglia dell’Acquasanta e da uomini dei servizi segreti. E l’altro era in mare, su un canotto giallo o color arancio con a bordo due sub. I due sommozzatori non erano di “appoggio” al primo gruppo: erano lì per evitare che la dinamite esplodesse. Non c’è certezza sull’identità dei due sommozzatori ma un ragionevole sospetto sì: uno sarebbe stato Antonino Agostino, l’altro Emanuele Piazza.

Agostino e Piazza erano due poliziotti specializzati nella caccia ai latitanti. Entrambi furono uccisi poco dopo l’attentato fallito – Agostino nell’agosto del 1989, Piazza nel marzo del 1990 – e su entrambe le loro morti non si è fatta mai la necessaria chiarezza.

Di Agostino, il pentito Ferrante disse che fu ucciso “perché voleva rivelare i legami mafiosi con alcuni della questura di Palermo”: circostanza confermata dal pentito Pagano. Dopo la sua morte, la squadra mobile di Palermo seguì per mesi un’improbabile “pista passionale”. Piazza invece fu ucciso dalla mafia, ma anche nel suo caso le indagini presero tutt’altra strada: la squadra mobile di Palermo indirizzò inizialmente le ricerche su “una fuga della vittima in Tunisia, in compagnia di una donna”.

Un depistaggio nelle indagini sul primo omicidio, un altro depistaggio nelle indagini sul secondo omicidio. Sul fallito attentato dell’Addaura sta affiorando un contesto sempre più spaventoso: un pezzo di Stato voleva Falcone morto e un altro pezzo di Stato lo voleva vivo. Ma chi ha deviato le indagini sugli omicidi di Antonino Agostino ed Emanuele Piazza? Chi ha voluto indirizzare i sospetti verso la “pista passionale” per spiegare le uccisioni dei due poliziotti?

Dare una risposta a queste domande diventa ogni giorno più complicato per una ragione semplice e banale: i protagonisti di questa vicenda sono quasi tutti i morti. Morto il mafioso Francesco Gaeta, che il giorno del fallito attentato aveva casualmente assistito alle manovre militari intorno alla villa del giudice. Morto anche Luigi Ilardo, informatore dei carabinieri che aveva detto: “Noi sapevamo che a Palermo c’era un agente che faceva cose strane e si trovava sempre in posti strani. Aveva la faccia da mostro. Siamo venuti a sapere che era anche nei pressi di Villagrazia quando uccisero il poliziotto Agostino”.

Sono due i livelli del coinvolgimento degli apparati di sicurezza all’ombra delle stragi: ci sono i servizi sospettati di aver trattato con la mafia e ci sono i servizi sospettati di avere avuto un ruolo attivo negli attentati. Se non si scopriranno queste trame, non sapremo mai chi davvero ha ucciso Falcone e Borsellino e perché. C’è puzza di spie in ogni massacro siciliano. Misteri di mafia che si confondono con misteri di Stato.

L’inchiesta di Repubblica è stata oggi ripresa politicamente da Walter Veltroni, e da altri parlamentari.

“Le rivelazioni di Repubblica sull’attentato a Falcone sono di enorme importanza e possono aiutare a rileggere non solo il sacrificio di un giudice che credeva nelle istituzioni, ma tutta la storia del rapporto tra mafia e potere, tra mafia e poteri”. Lo afferma Walter Veltroni chiedendo “al presidente della Commissione parlamentare antimafia, Pisanu, di dedicare la seduta di martedì prossimo all’esame urgente di questa vicenda”.

La sollecitazione di Veltroni trova una prima risposta in un comunicato della Commissione. “In relazione alle notizie di stampa sull’agguato mafioso dell’Addaura – si legge nel documento – il presidente della Commissione antimafia senatore Giuseppe Pisanu, si è riservato di prendere le decisioni opportune dopo aver sentito l’Ufficio di presidenza integrato dai capigruppo”. ”Nel frattempo – prosegue la nota – lo stesso senatore Pisanu” ha concordato con il presidente del Copasir Massimo D’Alema di valutare insieme “gli aspetti della vicenda che possano riguardare i servizi segreti”. “Per parte sua – conclude il comunicato – il presidente D’Alema ha già avviato le iniziative opportune”.