La crisi del governo Berlusconi come crisi di sistema
Il 4 agosto 2010, con la spaccatura della maggioranza sulla mozione di sfiducia al sottosegretario Caliendo, non si è aperta una crisi di governo, ma una crisi di sistema. Una crisi che sta alla politica italiana come la crisi economico-finanziaria del 2008 sta all’economia mondiale: un evento che costringe a riconsiderare un’intera visione del mondo. Una vera e propria ideologia che negli ultimi venti anni si è progressivamente condensata in un vasto catechismo di formule precostituite, immutabili e indiscutibili, fino a cristallizzarsi in una nuova forma di saggezza convenzionale. La coincidenza tra crisi economica internazionale e crisi del sistema politico democratico non è casuale, e non si manifesta solo in Italia, ma in un panorama europeo segnato dal primato dell’economia sulla politica, dall’indebolimento degli strumenti nazionali di governo dell’economia e dallo smarrimento delle classi medie. In Italia tutto questo assume però caratteristiche particolarmente radicali.
La crisi del governo Berlusconi è un passaggio in cui si mescolano, come in un caleidoscopio, tutti gli elementi che hanno caratterizzato la stentata esistenza dei governi che si sono succeduti negli ultimi sedici anni: l’impatto delle iniziative giudiziarie e delle relative campagne di stampa, le oggettive difficoltà nel gestire una politica economica improntata al rigore di bilancio, le sempre più profonde divisioni interne alle coalizioni di maggioranza. Dalla crisi del primo centrodestra nel 1994 fino alla caduta dell’ultimo esecutivo Prodi nel 2007, nessun governo è uscito indenne da un simile percorso, indipendentemente dall’ampiezza della propria maggioranza parlamentare.
Per sedici anni, a ciascuna di queste crisi è stata data un’identica giustificazione: la congiura ordita da alleati infedeli e burocrati di partito desiderosi di “tornare indietro”, alla Prima Repubblica, al tempo dei governi “fatti e disfatti in Parlamento”. Dunque un identico movente: cancellare i frutti della “rivoluzione maggioritaria”, bipolarismo e governabilità, valori indiscutibili e non negoziabili della Seconda Repubblica. In nome del bipolarismo e della governabilità, non per nulla, per quasi venti anni si sono promossi referendum, leggi elettorali e riforme istituzionali, il cui esito concreto è stato però l’esatto contrario di quanto promesso: trasformismo e ingovernabilità.
A giustificare la costante paralisi dell’azione di governo, le ripetute scissioni e successive moltiplicazioni di partiti, correnti e movimenti, sono state additate negli anni, a destra e a sinistra, lunghe schiere di traditori, in funzione di capri espiatori. Ma simili interpretazioni di comodo non possono reggere oltre le costanti repliche della storia di questi sedici anni, tanto meno possono essere riproposte oggi come nuove, per la quinta, la sesta o la settima volta consecutiva.
Piuttosto, proprio coloro che all’indomani delle ultime elezioni politiche celebrarono il compimento della lunga transizione, con la nascita di un sistema politico “tendenzialmente bipartitico” incentrato su Pd e Pdl, dovrebbero ora riflettere sulle conseguenze da trarre dinanzi all’ennesima crisi di governo. Dovrebbero riflettere, partendo dalle loro stesse previsioni di due anni fa, sulle condizioni ideali in cui si trovava questa volta il governo Berlusconi: una legge elettorale violentemente maggioritaria, con parlamentari di fatto nominati dal leader, che gli aveva regalato una maggioranza schiacciante e priva di ogni autonomia; un presidente del Consiglio al tempo stesso capo e proprietario di un partito quanto altri mai leggero, senza alcuna forma di democrazia interna; un leader carismatico dotato di risorse extrapolitiche, economiche e mediatiche, inimmaginabili per qualunque altro segretario di partito; un parlamento completamente in suo controllo, un’opposizione debole e divisa, una legittimazione senza precedenti.
Se neanche tutto questo è sufficiente, se neanche tutto questo basta ad assicurare la tanto sospirata governabilità, cos’altro si potrà mai escogitare, lungo questa china, dopo avere azzerato l’autonomia del parlamento e colpito le stesse prerogative del Capo dello stato con la finzione dell’elezione diretta del premier (una finzione di cui la crisi attuale mostra ancora una volta tutte le pericolose conseguenze, anzitutto sul piano della divisione dei poteri), dopo avere messo al bando ogni forma di pluralismo dentro i partiti, dopo avere costruito le condizioni di una perfetta dittatura della maggioranza e di un governo sostanzialmente monocratico? Fin dove bisogna arrivare? Quand’è, insomma, che basta?
Noi pensiamo che basti, adesso.
Noi pensiamo che il momento di fermarsi sia esattamente questo. Non per “tornare indietro”, ma per cambiare strada.