Surrogati identitari e fragilità strutturali del centrosinistra
Alla destrutturazione dei partiti, all’accettazione di una concezione monocratica e privatistica della politica, alla conseguente messa al bando di qualsiasi possibilità di organizzazione del dissenso si è accompagnata in questi anni, inevitabilmente, la progressiva perdita di senso, principi e ispirazione della stessa attività politica. Di qui la costante ricerca di sempre nuovi contenitori in cui travasare leadership incapaci di misurarsi con una lettura autonoma dei problemi del paese; ma anche di sempre nuovi surrogati identitari. Di qui, a fasi alterne, il fanatismo anticlericale, ambientalista, pacifista.
L’idea che in questa disarticolazione dei partiti stia la modernità, che rappresenti anch’essa una forma di secolarizzazione, inevitabile e forse persino auspicabile, è semplicemente falsa. E’ vero semmai il contrario: non è il crescente distacco dal popolo a spiegare il venir meno del ruolo assolto un tempo dai partiti. E’ il venir meno del loro ruolo, il fatto che sempre meno al loro interno si prendano le decisioni fondamentali che riguardano la vita di tutti, che spiega il loro abbandono, da parte del popolo, e anche la loro involuzione democratica. Tutti questi elementi, combinandosi con l’ideologia antipolitica della Seconda Repubblica, spiegano quindi la condizione di rachitismo organizzativo, incertezza identitaria e ingovernabilità politica del Pd. Un partito nato all’insegna della subalternità al sistema dell’informazione, specchio a sua volta di quel capitalismo a suffragio ristretto che rappresenta una delle ragioni, e non l’ultima, dell’arretratezza economica, politica e civile del paese. Di qui la sua estrema esposizione a tutte le mode e le suggestioni indotte dal circuito della comunicazione. Di qui dirigenti che parlano sempre più spesso come divi di Hollywood in tour promozionale, capaci di ripetere soltanto quanto amino l’Italia, le sue bellezze artistiche e i suoi struggenti paesaggi.
Il mito dell’autosufficienza dall’Unione al Pd
L’idea di autosufficienza che ha guidato sia l’esperienza del secondo governo Prodi sia la prima fase del Pd è figlia di questa stessa filosofia. Una concezione che vede nelle alleanze possibili, nei compromessi ragionevoli e nel dialogo costruttivo tra i diversi partiti una forma di degenerazione della politica, anziché la sua fisiologia (almeno in una democrazia parlamentare). Ancora una volta, in questa impostazione si manifesta dunque un limite culturale del Partito democratico. Un limite che ha però una precisa traduzione, squisitamente tecnocratica, in termini di politica economica. Una concezione che nasce dalla suprema diffidenza verso un’idea della politica come attività sovraordinata.
La crisi del secondo governo Prodi ha segnato anche simbolicamente la chiusura del lungo ciclo cominciato con i governi Amato e Ciampi nel 92-93.
Il Partito democratico deve ripartire dunque da una riflessione complessiva sulla vicenda del centrosinistra. Cominciando magari con lo sfatare un altro mito, quello della “meglio classe dirigente”.
Fermi restando i meriti storici dei gruppi dirigenti del centrosinistra e delle forze sindacali che in quel momento hanno realmente salvato il paese, attraverso un patto con l’establishment ovviamente non privo di rischi e di prezzi da pagare, oggi bisogna riconoscere che di quello schema e di quella stessa formula di governo il centrosinistra è rimasto prigioniero, anche, e non da ultimo, nell’immaginario collettivo degli italiani. Invece di essere percepito come forza di trasformazione e di rovesciamento degli equilibri consolidati, ne è apparso come il massimo garante. Offrendo così alla destra berlusconiana la possibilità di presentarsi come l’unica opzione di rottura.