Cosa significa navigare in solitaria
Un sacco di cose poco rassicuranti, racconta il velista Ambrogio Beccaria nel libro “Mare selvaggio”, scritto con Matteo Caccia

Il buio, la mancanza di sonno e il cibo non propriamente appetitoso sono tutte cose che deve mettere in conto chi si avventura in una navigazione oceanica in solitaria. Ma le insidie sono molte altre, come dover schivare le navi cargo, affrontare il vento che non molla o più semplicemente avere a che fare con sé stessi e basta. «Alla fine si impara e si va avanti», racconta in Mare selvaggio. Storie di vita e di vela Ambrogio Beccaria, che è considerato uno dei più forti velisti della sua generazione. Nato a Milano nel 1991, Beccaria vive a Lorient, in Bretagna, la cittadina che «ha soffiato a La Rochelle il primato» per la vela oceanica. Ha scritto il libro assieme a Matteo Caccia, attore teatrale, conduttore radiofonico e autore del podcast del Post Orazio. Beccaria e Caccia lo presenteranno lunedì 8 dicembre alle 18 a Peccioli, all’interno del programma di “A Natale libri per te“.
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Io sono qui, a Lorient. Ho un mese per mettere la barca in acqua, per prepararmi. Quattro settimane di lavoro, e di solitudine. Non conosco nessuno, non chiedo, non mi espongo. Sono uno che fa fatica, che si muove a piccoli passi dentro un mondo che sta imparando a conoscere.
Per qualificarmi alla Mini Transat devo percorrere mille miglia in solitario. Non posso scegliere il tragitto, solo il senso di marcia: orario o antiorario. Io scelgo quello orario. Si parte da Lorient, si torna a Lorient. Mille miglia di oceano, di silenzio, di vento. Dichiaro la mia partenza, la classe mi assegna un tutor, qualcuno che mi seguirà da lontano, che correggerà il mio diario di bordo. Ogni errore segnato, ogni scelta annotata.
Quando guardo la rotta, mi si chiude lo stomaco. Il primo passaggio critico è la Pointe du Raz nel mar d’Iroise, un tratto di mare che incute rispetto. Correnti violente, scogli nascosti, maree che trasformano il paesaggio in poche ore. Apolloni, il mio ex allenatore, mi dice: «Passa fuori, non pensarci troppo». Ma «fuori» vuol dire molte miglia in più, vuol dire cambiare i piani. Alla fine, però, decido che ha ragione.
Poi c’è un DST, un Dispositivo di separazione del traffico. Una gigantesca autostrada per cargo che vanno e vengono dalla Manica. Attraversarlo è come infilarsi in bicicletta in mezzo al raccordo anulare nell’ora di punta. «Prima guardi a sinistra, poi a destra» mi dice Riccardo ridendo. Ma questo incrocio è largo quaranta miglia. Ci entro di notte, la nebbia mi avvolge, i suoni dei cargo rimbombano nel buio. Non vedo nulla.
Poi su fino all’Irlanda, le acque calme. Riparto verso sud, direzione La Rochelle. Il vento sale, la barca accelera, partono le prime planate lunghe, il brivido della velocità. Comincio a sentire la barca, a capirla un po’. Sto cambiando. Non è ancora la vera sfida, ma lo percepisco, sto diventando parte di lei.
Sette giorni in solitario. Mai stato così tanto tempo solo con il mare. Dormo poco, scomodo, rannicchiato tra le vele. Mangio peggio, liofilizzati scadenti, una carbonara che sa di chimico e di plastica. Ma resisto, imparo, vado avanti.
Il vento continua a salire e io sono solo, lontano dalla costa, con il cellulare che non serve a nulla. Devo passare il ponte dell’Île de Ré e infilarmi tra due enormi piloni che regolano il traffico. Sembra largo, ma lo spazio reale è molto meno di quanto vorrei. Da un lato c’è un campo di ostriche, dall’altro fondali incerti. Guardo la carta e mi rendo conto di non aver capito bene le maree. Quattro metri, tre, cinque… ma, con onde di tre o quattro metri, cosa resta sotto la chiglia? E poi non vedo niente, c’è un’isola che copre la visuale, il buio che avanza, il vento che non molla. Sento un nodo salirmi in gola.
Riesco a chiamare Vitto, la mia fidanzata. Lei è con Tommy Stella, un amico navigatore, pazzo, esperto. «Non ce la faccio, non so cosa fare. Ho paura» confesso. Tommy, con la sua classica calma da bar, risponde: «Al massimo ti fermi. Ti metti all’ancora, aspetti. Ma non entrare in porto, aspetta il giorno dopo».
Sembra facile. Ma con un vento a quaranta nodi non mi sento capace di niente. Chiamo il mio tutor di regata, François Jambu. Anni dopo, alla fine di una gara a cui partecipavamo entrambi, dirà che sono il migliore marinaio che abbia mai visto. Ma quella sera non lo so ancora, e anche se lo sapessi non mi sentirei buono a nulla. Gli parlo in inglese: «Qua non ce la si fa, cioè… non posso fare il Pertuis Breton…». Il «pertugio bretone», brutto nome: chissà poi perché breton, dal momento che non è in Bretagna. Forse perché è così pauroso che si chiama breton per terrorizzarti.
«Qua c’è un bollettino meteo speciale…» proseguo, dal momento che in effetti avevo sentito un bollettino alla radio, o almeno mi sembrava di aver sentito una roba simile, e in teoria quando c’è questo avviso puoi fermarti senza che venga intaccata la qualifica. Ma lui mi dice: «No, guarda, in realtà in quella zona non c’è nessun bollettino… non puoi fermarti».
Mi viene da vomitare, ma non me la sento di mettere l’ancora, né di entrare in porto: comunque ci sono quaranta nodi di vento! O meglio, non so neppure quanto cazzo di vento ci sia, perché a causa di una strambata, prima di arrivare al ponte, avevo perso il sensore del vento…
Mi resta solo una scelta: andare avanti.
Armo la tormentina. L’unica volta nella mia vita in cui la userò davvero. Tre mani alla randa e parto. Virata dopo virata, sento il corpo che si sgretola. Le onde sono corte, ripide, il vento mi tiene in pugno. Non posso smettere. Non posso mollare. E non posso tornare indietro. Il «pertugio bretone» ormai mi ha inghiottito, l’unica via d’uscita è attraversarlo.
Non so quanto tempo passo là in mezzo. Tutta la notte. Poco prima dell’alba sono sceso un attimo sotto coperta e mi sono addormentato. Ho avvertito un rumore diverso dal solito, un fragore d’acqua, sono corso fuori ed ero a pochi metri dagli scogli. Non ho guardato niente, ho solo spinto il timone per virare.
Quando sorge il sole, capisco di avercela fatta. Sono sopravvissuto. Il mare ha ancora la sua presa su di me, ma ora so che posso resistere. Impiego ore a rimettere fuori le vele. Il vento cala, ma io resto con la tormentina e tre mani alla randa. Come se ancora non mi fidassi della quiete.
Riprendo il largo, la prua verso Lorient. Un giorno e mezzo di bolina contro un vento di nordovest ostinato. Nulla ormai mi può fermare.
Quella notte a La Rochelle mi ha insegnato cosa significa navigare in solitario. Non è solo tenere il timone e regolare le vele. È guardare dentro se stessi, trovare risorse che non pensavi di avere, combattere la paura con la logica.

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