Il governo continua a contraddirsi su Almasri
Da mesi cambia versione alternando questioni politiche a motivi più burocratici, di nuovo ora che il generale libico è stato arrestato

Con l’arresto in Libia del generale libico Najim Osama Almasri, in Italia si è tornati a parlare di come il governo ne aveva gestito l’arresto a Torino lo scorso gennaio, e su come aveva deciso di rimandarlo in Libia in modo del tutto irrituale. Quella scelta aveva generato un grosso caso politico e giudiziario: mentre il procedimento giudiziario, nel quale erano coinvolti 3 esponenti del suo governo, è decaduto senza alcuna conseguenza, il caso politico va avanti perché il governo continua da mesi ad alternare versioni diverse della storia.
Secondo una, Almasri è stato rilasciato per una questione di sicurezza nazionale; secondo un’altra per ragioni procedurali e burocratiche, in particolare per via di una richiesta di estradizione delle autorità libiche.
Intanto i fatti essenziali. Almasri venne arrestato il 19 gennaio a Torino, sulla base di un mandato emesso dalla Corte penale internazionale, il principale tribunale per crimini di guerra e contro l’umanità: è accusato di omicidi, torture, stupri e altri gravi crimini. Il 21 gennaio fu liberato e rimpatriato in Libia su decisione del governo italiano. Dopo oltre 9 mesi, Almasri è stato arrestato mercoledì 5 novembre in Libia, accusato di tortura nei confronti di dieci migranti detenuti in un centro di sua responsabilità e della morte di uno di loro in seguito alle violenze.
Poche ore dopo, il governo ha diffuso una nota informale nella quale sosteneva di essere a conoscenza del procedimento a carico di Almasri e dell’intenzione da parte delle autorità libiche di arrestarlo. E che era sulla base di una richiesta di estradizione inviata all’Italia tra il 21 e il 22 gennaio scorso che il governo aveva deciso di non dare seguito al mandato d’arresto della CPI, e di rimpatriare Almasri con un volo di Stato.
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Ma solo una settimana fa il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano, delegato alla gestione dei servizi segreti e uno dei membri del governo più coinvolti nella vicenda, aveva sostenuto in un’intervista al Corriere l’altra tesi, cioè che il governo liberò Almasri per le possibili ritorsioni che avrebbero potuto subire le persone italiane in Libia, nel caso in cui il generale fosse rimasto in prigione o consegnato alla CPI. È una tesi, questa, che il governo all’inizio non adottò: anzi, nelle prime fasi, tra gennaio e febbraio, motivò il rilascio di Almasri con dei vizi di forma contenuti nella procedura seguita dalla CPI per richiedere l’arresto di Almasri, e poi di fatto scaricando ogni responsabilità sulla Corte d’Appello di Roma, competente sul caso.

Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano, a fine ottobre (Roberto Monaldo/LaPresse)
Poi aveva progressivamente adottato la tesi della sicurezza nazionale. È una versione che Mantovano, insieme al ministro della Giustizia Carlo Nordio e al ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, ribadì anche al tribunale dei ministri, il particolare collegio di giudici che svolge le indagini sui membri del governo quando sono accusati di reati compiuti nell’esercizio delle loro funzioni (anche Nordio e Piantedosi sono indagati). Sulla base di questa “ragion di Stato”, come si dice in questi casi, i deputati di maggioranza hanno negato l’autorizzazione a procedere nei confronti di Mantovano, Nordio e Piantedosi, facendo così decadere il procedimento nei loro confronti.
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Nelle ore in cui Almasri era detenuto in Italia i dirigenti dell’AISE (l’agenzia dei servizi segreti per l’estero) spiegarono ai ministri competenti il ruolo di Almasri nella RADA, una polizia giudiziaria alle dipendenze dell’ufficio del procuratore generale di Tripoli ma anche, come avviene spesso in Libia, una milizia che risponde ad altri interessi. Davanti alle giudici del tribunale dei ministri il direttore dell’AISE Giovanni Caravelli negò che in quel momento ci fossero specifiche minacce per la sicurezza dei circa 500 italiani che vivono o lavorano in Libia, ma disse che comunque non si poteva escludere del tutto il rischio di ritorsioni. Il governo sostenne quindi di aver deciso il rilascio di Almasri per evitare queste ritorsioni.
Ora invece torna a sostenere la tesi giuridica-burocratica, che contraddice quella politica della “ragion di Stato”. È una versione che presenta a sua volta diverse incongruenze.

La presidente del Consiglio Giorgia Meloni e i ministri della Giustizia Carlo Nordio e dell’Interno Matteo Piantedosi il giorno in cui la Camera ha negato l’autorizzazione a procedere al tribunale dei ministri (Roberto Monaldo/LaPresse)
Ci sono infatti molte anomalie nella lettera con cui la richiesta di estradizione è stata fatta: nel modo in cui è scritta e nei tempi in cui è stata ricevuta. Anche in questo caso tutte le informazioni vengono dalle indagini del tribunale dei ministri.
La prima volta in cui il governo parlò di questa richiesta di estradizione era il 20 gennaio, in una riunione organizzata il giorno dopo l’arresto di Almasri a Torino. La citò il direttore dei servizi segreti esteri Caravelli, che informò il sottosegretario Mantovano, i ministri e i loro capi di gabinetto presenti di aver ricevuto la richiesta di estradizione dal governo libico. Caravelli disse di averla ricevuta «in anticipazione», ma aggiunse che il documento era stato trasmesso all’ambasciata libica a Roma ed era stato elaborato e firmato dal procuratore generale libico Alsaddiq Ahmed Alsour.
Questa richiesta venne però formalmente consegnata dall’ambasciata libica a Roma al ministero degli Esteri, come da prassi, solo la sera del 21 gennaio, dopo che l’ambasciata italiana a Tripoli, grosso modo tra le 18 e le 20, ne aveva fatto una traduzione in italiano (su cui peraltro c’è un’altra bugia del governo). Questa venne poi depositata al ministero della Giustizia addirittura la mattina seguente, il 22 gennaio (anche se con data 20 gennaio). Solo a questo punto la richiesta di estradizione poteva dirsi ufficiale.
Il punto è che in quel momento Almasri era già in Libia da un pezzo: un aereo dei servizi segreti italiani lo aveva riportato da Torino a Tripoli la sera precedente, quella del 21 gennaio. Non è l’unica cosa strana di questa richiesta di estradizione.
Due importanti funzionari del ministero della Giustizia, Cristina Lucchini e Luigi Birritteri (che poi si è anche dimesso in seguito a questa vicenda), dissero al tribunale dei ministri che la richiesta di estradizione era del tutto anomala e «meramente strumentale», dato che mancavano tutti gli elementi di forma che rendono valida e solida una richiesta di estradizione. Per queste ragioni secondo il tribunale dei ministri non sarebbe mai stato possibile accettarla.
Se quindi il governo l’ha davvero accettata, come sostiene, lo ha fatto solo perché ha deciso di fidarsi di impegni del tutto vaghi esibiti dalla Libia. Solo nei giorni successivi Caravelli ottenne una forma di garanzia che il governo libico volesse effettivamente perseguire Almasri: andò in Libia per incontrare il procuratore generale libico, che gli disse che c’era effettivamente un’indagine a carico di Almasri. L’incontro però avvenne solo il 29 gennaio, cioè una settimana dopo la richiesta di estradizione, e con Almasri già in Libia.
Le promesse in ogni caso furono fumose e non ebbero alcun seguito immediato. La Libia ci ha messo quasi dieci mesi per arrestare Almasri.



