Le inchieste sullo sfruttamento nelle grandi aziende stanno avendo un effetto preventivo
Ci sono aziende che si sono mosse negoziando con la procura di Milano, ha scoperto il Post, prima ancora che si muovesse lei
di Alessandra Pellegrini De Luca

Alcune grandi aziende che avevano o sospettavano di avere casi di sfruttamento nelle proprie filiere produttive si sono date da fare per regolarizzarli, prima che quei casi venissero scoperti, indagati o puniti dalla procura di Milano, che negli ultimi anni – adottando un approccio nuovo e molto discusso – si è concentrata sulle grandi società di settori, soprattutto moda e logistica, nelle cui filiere sono stati denunciati casi di sfruttamento, caporalato, frode o evasione fiscale.
Al Post risulta che negli ultimi anni almeno tre studi legali di Milano abbiano assistito grandi aziende della moda, della logistica e della grande distribuzione per regolarizzare le proprie filiere prima di un eventuale intervento della procura di Milano, e in conseguenza di quelli già avvenuti. Gli studi legali non hanno fatto i nomi delle aziende per ragioni di riservatezza, anche perché ne hanno seguito la regolarizzazione in via preventiva per evitare ripercussioni negative sulla loro reputazione.

Il tribunale di Milano (ANSA/MOURAD BALTI TOUATI)
Le grandi aziende affidano molto spesso la fornitura di beni e servizi ad aziende più piccole, che a loro volta affidano parti di lavoro ad altre aziende ancora più piccole: è in questa catena di appalti e subappalti che si creano spesso le irregolarità (lavoro in nero, sfruttamento, eccetera). È molto difficile però attribuire la responsabilità di eventuali reati ai marchi committenti, che non hanno (o sostengono di non avere) il controllo su tutta la filiera: per questo finora le azioni giudiziarie si sono concentrate generalmente sulle singole aziende più piccole.
Con il nuovo approccio della procura di Milano, e in particolare del sostituto procuratore Paolo Storari, vengono invece ritenute responsabili dello sfruttamento non solo le società appaltatrici più piccole ma anche i marchi committenti, per il mancato controllo sulla filiera. Non potendo accusare questi marchi per i reati compiuti da altre aziende, la procura di Milano ha fatto ricorso a strumenti diversi: misure di prevenzione come l’amministrazione giudiziaria (nominare un incaricato del tribunale che supervisioni la regolarizzazione della filiera), o sequestri preventivi di denaro.
I titolari dei tre studi legali sentiti dal Post, più un sindacalista che nell’ultimo anno ha seguito l’assunzione di centinaia di lavoratori nel settore della moda, concordano sul fatto che le recenti inchieste della procura di Milano abbiano avuto un peso nella scelta delle aziende che si sono regolarizzate in maniera autonoma.
Le aziende che si sono mosse preventivamente hanno discusso e negoziato i loro interventi proprio con la procura di Milano, per stabilire quelli che vengono definiti “piani rimediali”: per esempio interrompendo i contatti con i fornitori sospettati di pratiche illecite, oppure assumendo direttamente il personale che prima lavorava in condizioni di sfruttamento.

Il procuratore Paolo Storari (AP Photo/Antonio Calanni)
Alle aziende anticipare la procura conviene. Armando Simbari, un avvocato penalista che ha seguito alcune aziende che hanno deciso di intervenire in maniera autonoma, dice che la prima ragione per farlo ha a che fare con la reputazione.
Storari ha avviato inchieste contro marchi come Armani, Alviero Martini, Valentino, Loro Piana, oppure Amazon, DHL, GLS, FedEx, Esselunga, tra le altre: in tutti questi casi le aziende sono finite su tutti i giornali per quanto accadeva nelle loro filiere, e sono state costrette dalla procura a intraprendere lunghe e costose trattative per negoziare la revoca o l’archiviazione dei provvedimenti nel minor tempo possibile, e poter riprendere così la propria attività.
«Giocare d’anticipo permette di evitare la visibilità negativa che spesso deriva dai provvedimenti della procura, di avere un maggior controllo sulla riorganizzazione della filiera e ovviamente di poter successivamente esibire la qualità della propria filiera come un valore aggiunto», dice Simbari, che assiste aziende in tutti e tre i settori su cui lavora Storari: moda, logistica e grande distribuzione. Nella maggior parte dei casi le aziende che si sono regolarizzate hanno scelto di farlo perché sapevano di avere fornitori comuni con aziende su cui la procura di Milano aveva già avviato inchieste.
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Le procedure con cui un’azienda può muoversi in maniera autonoma per regolarizzare la filiera sono diverse a seconda delle irregolarità da eliminare. Nel tempo si è però consolidata una prassi per cui ci si mette in contatto con la procura e si dichiara la propria intenzione di rimediare a potenziali o sospette irregolarità all’interno della propria filiera, prevenendo possibili provvedimenti. «Il passaggio con la procura è in realtà l’ultimo di un percorso complesso, che parte internamente dall’azienda», dice Simbari. Si cerca di arrivare dal procuratore «già con un piano rimediale convincente».
«Si passano in rassegna tutti i fornitori di beni e servizi, il loro profilo di rischio rispetto a determinati tipi di irregolarità, si fanno ispezioni per controllare che rispettino le leggi sul lavoro, sulla sicurezza o sui pagamenti di tutte le imposte e i contributi», aggiunge Simbari, che definisce quest’attività «molto complicata perché un privato ha strumenti di controllo molto più limitati rispetto a un organo investigativo». Una delle critiche rivolte a Storari e al suo “metodo” riguarda proprio il fatto che, per aziende che hanno filiere così lunghe e ramificate, è complicato controllare tutti i fornitori, e non si può chiedere loro di trasformarsi in organi di vigilanza.
È un compito che secondo molti andrebbe affidato a soggetti terzi e indipendenti appositamente creati per monitorare il funzionamento delle filiere, visto che enti come l’Ispettorato del Lavoro o la Guardia di Finanza si limitano a punire le singole violazioni senza però risalire ai marchi committenti e ricostruire la filiera. I recenti provvedimenti di Storari e la loro visibilità hanno portato a qualche discussione sul tema, per ora in una fase molto iniziale. Nel frattempo, dice Simbari, alcune aziende da lui assistite si sono rivolte a società esterne specializzate negli audit, cioè nel controllo della regolarità delle filiere delle aziende a cui vendono i propri servizi.
Nel caso di reati fiscali, come l’evasione dell’IVA o dei contributi, è possibile regolarizzare la propria posizione con il cosiddetto “ravvedimento operoso”, una procedura con cui un’azienda versa allo Stato quello che doveva con gli interessi, ma pagando una sanzione ridotta proprio perché lo fa in maniera spontanea. In questo caso, in base alle norme tributarie, alcuni tipi di reati non sono punibili se l’azienda paga tutto ciò che deve prima che vengano eventualmente fatti controlli.
In poche parole: se l’azienda si muove spontaneamente non è perseguibile. «Storari ha in qualche modo messo in piedi un vero e proprio incentivo all’autodenuncia per le aziende che hanno irregolarità nelle proprie filiere», dice uno dei tre avvocati ascoltati per questo articolo, che ha preferito restare anonimo.

(ANSA/ UFFICIO STAMPA)
La negoziazione con la procura è una parte fondamentale del lavoro fatto dalle aziende che scelgono di regolarizzare in maniera autonoma la propria filiera. L’avvocato Simbari spiega che, dopo aver lavorato con l’azienda a un’ipotesi di piano “rimediale”, ci si mette in contatto con lo stesso Storari, dicendo che il proprio cliente è venuto a conoscenza di possibili irregolarità all’interno della filiera facendo controlli specifici, e che si è già attivato per correggerle. «Quindi, per dimostrare un atteggiamento collaborativo, si chiede di poter lavorare insieme per risolvere eventuali problemi del passato ed evitare possibili conseguenze penali», dice Simbari.
In situazioni di questo tipo Storari indirizza l’azienda all’Agenzia delle Entrate o all’INPS per definire l’entità dei mancati pagamenti, e regolarizzare la sua posizione, senza aprire procedimenti penali. Storari controlla inoltre la procedura di regolarizzazione fino alla sua conclusione, per chiudere poi la questione anche dal punto di vista penale.
Come altri aspetti dell’attività di Storari, anche la negoziazione con gli avvocati è poco convenzionale: «Lo è rispetto al principio giuridico dell’obbligatorietà dell’azione penale, cioè il principio per cui un pubblico ministero è obbligato ad avviare un’indagine se viene a conoscenza di un reato perseguibile d’ufficio», dice Michele Caianiello, professore ordinario di Diritto processuale all’università di Bologna. Una volta dichiarate le irregolarità da parte delle aziende, insomma, Storari sarebbe obbligato ad aprire un’indagine.
Caianiello aggiunge però che, benché non convenzionale, le negoziazione tra procura e aziende è coerente e prevista da strumenti come l’amministrazione giudiziaria – quella imposta da Storari ai grandi marchi –, che non presuppone responsabilità penali da parte dell’azienda committente: «In alcuni settori, come quelli della prevenzione, non opera il principio costituzionale dell’obbligatorietà», dice Caianiello.
Le cose sono più complicate quando si parla invece di reati per i quali si dovrebbe procedere con un sequestro preventivo: «Quando c’è in gioco la responsabilità penale degli enti, anziché di persone fisiche, la questione dell’azione penale obbligatoria è molto dibattuta tra gli studiosi: per alcuni in quel settore specifico non opererebbe il principio di obbligatorietà, o comunque sarebbe fortemente attenuato», dice Caianiello.
Anche in contesti più piccoli le inchieste della procura di Milano stanno avendo degli effetti. Alessandro Picchioni, sindacalista che lavora nel distretto della pelletteria di Firenze, dice che nell’ultimo anno ha contrattato la regolarizzazione di circa 500 lavoratori che prima lavoravano in condizioni di sfruttamento in aziende che riforniscono marchi più grandi con sede o altri fornitori in zone di competenza della procura di Milano.
Picchioni dice che ormai a queste società, che nella filiera sono a metà tra i grandi marchi e le aziende più piccole, non conviene più affidarsi a piccole aziende che sfruttano i lavoratori: temono di perdere grosse commesse da parte dei grandi marchi, che a loro volta temono le inchieste.
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