Gli ultimi viaggi di Giorgia Meloni sono stati stranamente riservati

È andata in Tunisia e in Turchia dicendo ben poco alla stampa e con una gran fretta: c'entrano il caos in Libia e l'affanno del governo sui migranti

(Turkish Presidency via AP)
(Turkish Presidency via AP)
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La settimana scorsa Giorgia Meloni ha fatto due importanti viaggi: giovedì è andata a Cartagine, in Tunisia, a incontrare il presidente del paese Kais Saied; venerdì a Istanbul, dove ha avuto un colloquio col presidente turco Recep Tayyip Erdogan e con il primo ministro del governo di unità nazionale libico Abdul Hamid Dbeibah. Entrambi sono stati gestiti in un modo assai inusuale: la presidenza del Consiglio ne ha dato notizia solo poche ore prima (nel caso del viaggio in Tunisia, una manciata appena), inserendoli nell’agenda istituzionale a ridosso della sua partenza, e rendendo molto difficile per i giornalisti seguire Meloni, come abitualmente avviene in queste circostanze. Non a caso, a Cartagine non c’era nessun cronista al seguito.

Questa segretezza si spiega in parte col fatto che i viaggi sono stati organizzati all’ultimo e con una certa fretta. C’è poi da tenere conto della delicatezza dei temi trattati e della complicatissima situazione politica che c’è in Tunisia e in Libia: anche questo ha suggerito a Meloni discrezione. In parte, però, ci sono anche questioni più spicciole, che hanno a che vedere coi timori della presidente del Consiglio rispetto alla possibilità che la questione migratoria assuma eccessiva visibilità nel dibattito pubblico, evidenziando l’affanno del governo nel gestirla.

– Leggi anche: Chi accompagna Giorgia Meloni negli incontri internazionali

Nell’ottica del governo, la riduzione degli arrivi di migranti dal Mediterraneo centrale doveva essere garantita essenzialmente da due fattori: da un lato, da un ipotetico effetto deterrente generato dall’adozione di misure inedite e particolarmente restrittive, che avrebbero dunque dovuto scoraggiare i migranti dal voler venire in Italia; dall’altro lato, da accordi diplomatici e politici coi paesi africani di partenza e di transito delle persone migranti, e più in generale da quella che il governo vedeva come un’azione di stabilizzazione del Nord Africa.

Questo metodo, come del resto varie altre politiche adottate in precedenza da altri governi, sta mostrando i propri limiti: gli sbarchi avvenuti nel corso del 2025 sono quasi 37mila, il 60 per cento in meno rispetto al 2023, ma in lieve aumento rispetto allo scorso anno (34.700). Per Meloni è un problema, visto che sulla drastica riduzione degli sbarchi ha condotto per anni una dura propaganda, e lo è soprattutto a ridosso di importanti elezioni regionali come quelle che ci saranno in autunno.

Per quanto riguarda l’effetto deterrente, le cose non stanno andando benissimo. Certamente a questo proposito non sta funzionando il progetto su cui Meloni ha investito di più, e cioè l’apertura dei centri per migranti in Albania. La recente sentenza della Corte di giustizia dell’Unione Europea ha avuto l’effetto di rendere palese che, ventuno mesi dopo l’annuncio dell’accordo tra Italia e Albania, quei centri sono sostanzialmente inutilizzati, e lo resteranno ancora a lungo. Di certo non stanno servendo granché a dissuadere i migranti dal partire, come sperava il governo italiano.

Nel frattempo ci sono stati mesi di contenziosi tra il governo e vari tribunali italiani e numerosi stratagemmi legislativi più o meno contorti per rendere effettivamente operative quelle strutture, a fronte di una spesa complessiva che entro il 2028 sarà di circa 700 milioni di euro.

Ma anche la “via diplomatica” si sta rivelando particolarmente complessa. Per ridurre l’immigrazione Meloni e Piantedosi avevano puntato molto sulla definizione di accordi con vari paesi africani e asiatici, quelli da cui proviene un gran numero di migranti arrivati in Italia negli ultimi anni: la base degli accordi prevedeva in sintesi sostegno economico e politico in cambio del contenimento delle partenze. Alcuni stanno funzionando abbastanza bene, come quello con la Costa d’Avorio e in parte quello col Bangladesh, e a parecchi di questi il governo ha dato grande enfasi.

Ma indubbiamente i due paesi decisivi e su cui gli accordi sono più delicati sono Libia e Tunisia.

Il governo ha investito molto nel rapporto con il presidente tunisino Kaïs Saïed, facendosi per certi versi garante dell’affidabilità di un leader autocratico e illiberale, e convincendo l’Unione Europea a fornire prestiti al suo regime, che è da anni alle prese con una gravissima crisi economica e istituzionale. Meloni si è esposta molto, anche nei confronti degli Stati Uniti, per agevolare la concessione di finanziamenti a Saïed proprio perché è dalla Tunisia che nel 2023 era partita la stragrande maggioranza dei migranti che sbarcavano in Italia, e in quell’anno la quantità di arrivi era diventata difficilmente sostenibile per il governo.

A distanza di quasi due anni, però, in Tunisia la situazione rischia di complicarsi di nuovo. In parte perché Saïed, dopo la sua rielezione (quasi senza una reale opposizione) nell’ottobre del 2024, pretende nuovo sostegno finanziario in cambio di un suo ulteriore impegno a ridurre le partenze, senza però offrire garanzie sulle riforme che sia l’UE sia il Fondo monetario internazionale raccomandano di adottare, e in parte perché la sua posizione nei confronti degli Stati Uniti si è ulteriormente compromessa. Il 22 luglio scorso, al consigliere di Donald Trump per l’Africa, Massad Boulos, Saïed ha mostrato le foto di bambini affamati e in fin di vita a Gaza, criticando così in modo plateale la politica di Israele e il sostegno degli Stati Uniti al governo di Benjamin Netanyahu. Questa presa di posizione, non prevista, non è stata affatto apprezzata dall’amministrazione Trump.

Kais Saied riceve Giorgia Meloni nel palazzo presidenziale di Cartagine, il 31 luglio 2025 (Tunisian Presidency via AP)

In Libia la situazione è quanto mai complessa, con due governi in confitto tra loro e l’Italia costretta a tenere buone relazioni con entrambi, con tutte le ambiguità e le contraddizioni che questo impone. Il pasticcio diplomatico avvenuto a Bengasi l’8 luglio scorso è stato sintomatico di come il ruolo che l’Italia intende svolgere, ponendosi come mediatore tra le parti in causa, sia sempre più complicato. Il governo di Meloni sta cercando di organizzare una nuova visita nella Libia orientale, per ridefinire degli accordi col generale Khalifa Haftar che controlla la Cirenaica, ma vuole farlo senza che questo generi ulteriori risentimenti o preoccupazioni nel governo di Tripoli, quello formalmente riconosciuto a livello internazionale. Del resto, entrambi i governi hanno efficaci armi di pressione nei confronti dell’Italia, e su tutti proprio quella legata al controllo delle partenze dei migranti.

In questo senso il trilaterale a Istanbul, sul cui esito si sa comunque ben poco, è stato piuttosto delicato: insieme a Erdogan, che si è posto un po’ come garante, Meloni ha rassicurato Dbeibah sulla fermezza del sostegno italiano nei confronti del suo governo, ribadendo però la necessità di fare nuove intese con Haftar, anche per limitare la penetrazione militare e politica della Russia in Libia.

Per Meloni la gestione dei flussi migratori è ancora una delle principali, forse anzi la principale faccenda di politica estera: perché dalla riduzione degli sbarchi dipendono a suo avviso aspetti di sicurezza nazionale e di contrasto al terrorismo, ma soprattutto per ragioni elettorali. Per questo i viaggi che ha fatto negli ultimi giorni, così come altri che sta pensando di fare nei prossimi, sono per lei particolarmente delicati. E per questo preferisce gestire il tutto col massimo riserbo possibile e senza dare risalto a questi colloqui.