Gli annunci enfatici di Trump sui dazi per ora hanno poca sostanza
L'ultimo riguarda un accordo col Giappone su cui di nuovo ci sono pochi dettagli: è la strategia di Trump che sta faticando

Nelle ultime settimane i negoziati condotti dall’amministrazione del presidente statunitense Donald Trump per trovare accordi sui dazi si stanno concentrando, e stanno dando qualche risultato, soprattutto in Asia. Martedì per esempio ne è stato annunciato uno con il Giappone, che riduce i dazi dal 25 al 15 per cento. Vari paesi della regione (soprattutto nel sud-est asiatico) basano gran parte della propria economia sulle esportazioni, e quindi sono interessati a evitare l’imposizione di tasse troppo alte, come quelle annunciate da Trump lo scorso aprile.
Allo stesso tempo, la portata effettiva degli accordi conclusi da Trump rimane vaga. Il presidente statunitense li ha annunciati tutti con grande enfasi, ancora prima che ci fossero i dettagli e che quindi si potesse valutare il vantaggio politico che potrebbero portare agli Stati Uniti. Potrebbe essere un modo usato da Trump per provare a esibire dei successi dentro a una tattica – quella delle minacce continue di imporre dazi – che finora non ha portato ai risultati che lui sperava, e su cui però ha puntato molto del suo messaggio politico degli ultimi mesi.
Lo scorso 2 aprile Trump aveva annunciato enormi dazi su moltissimi paesi. Nel giro di una settimana li ha modificati e infine sospesi, dopo il crollo dei mercati finanziari e un enorme caos che stava mettendo in difficoltà l’intero settore del commercio. Trump ha detto che avrebbe negoziato «90 accordi in 90 giorni», quindi entro il successivo 9 luglio. Ha poi spostato la scadenza al 1° agosto, inviando lettere a vari governi stranieri con nuove minacce, per fare pressione e convincerli a negoziare. L’ha fatto anche con l’Unione Europea, con cui sono in corso trattative particolarmente complicate.
Finora Trump ha detto di aver concluso accordi di vario tipo con Regno Unito, Vietnam, Cina, Indonesia, Filippine e Giappone.
Quest’ultimo è stato confermato dai governi di entrambi i paesi. Come detto prevede una riduzione dei dazi al 15 per cento, compresi quelli sulle auto, un settore fondamentale per le esportazioni giapponesi. I dazi su acciaio e alluminio resteranno invece al 50 per cento. Trump ha anche detto che il Giappone investirà 550 miliardi di dollari negli Stati Uniti, senza dare molti altri dettagli, e il primo ministro giapponese Shigeru Ishiba ha aggiunto che questi investimenti dovrebbero concentrarsi sui settori dei semiconduttori, dell’aviazione, dell’energia e dell’intelligenza artificiale. L’accordo dovrebbe entrare in vigore il 1° agosto.

Visitatori al padiglione statunitense dell’expo di Osaka, in Giappone, il 19 luglio (Tomohiro Ohsumi/Getty Images)
Per i paesi del sud-est asiatico i termini e le condizioni degli accordi sono state annunciate da Trump, ma rimangono vaghe. L’accordo con il Vietnam per esempio era stato annunciato lo scorso 2 luglio, ma poi non se ne è più saputo nulla.
Secondo quanto detto da Trump, gli Stati Uniti dovrebbero abbassare i dazi sul Vietnam dal 46 per cento annunciato ad aprile al 20 per cento. C’è però un’eccezione importante: le esportazioni dal Vietnam agli Stati Uniti di merci cinesi (operazioni cosiddette di “transshipments”) resteranno tassate del 40 per cento. È una misura introdotta per evitare che la Cina, il paese colpito con i dazi più pesanti, trovi delle scorciatoie inviando i propri prodotti in altri paesi vicini, che poi li possono esportare pagando meno tasse.
Il 22 luglio Trump ha incontrato alla Casa Bianca il presidente filippino Ferdinand Marcos Jr. e ha detto che anche che i dazi sulle merci filippine saranno abbassati al 19 per cento, mentre le esportazioni statunitensi nel paese non saranno tassate. Per ora non sono state date altre informazioni, e non è chiaro se i due paesi abbiano effettivamente firmato qualcosa.
Sempre il 22 luglio è stato annunciato anche un accordo simile con l’Indonesia, con qualche informazione in più: i dazi statunitensi saranno abbassati al 19 per cento (dal 32 per cento), e il paese ha acconsentito a rimuovere tutti i dazi e quasi tutte le barriere commerciali per le esportazioni statunitensi nel paese, per esempio i controlli sui prodotti d’allevamento. L’amministrazione Trump ha stimato che l’impatto complessivo dell’accordo dovrebbe avere effetti positivi sull’economia americana per 50 miliardi di dollari (non è chiaro se all’anno o in generale), ma è ancora un’intesa preliminare che dovrà essere finalizzata nelle prossime settimane.
Secondo vari osservatori è probabile che anche altri paesi del sud-est asiatico negozino dazi intorno al 19-20 per cento. È una soglia molto più bassa di quella inizialmente minacciata, ma comunque alta se comparata ai dazi che erano in vigore prima che Trump sconvolgesse tutto.

Trump e il presidente filippino Ferdinand Marcos Jr. alla Casa Bianca, il 22 luglio 2025 (AP Photo/Alex Brandon)
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Un discorso a parte va fatto per la Cina: ad aprile Trump aveva imposto dazi esorbitanti, del 145 per cento, una soglia che di fatto rendeva impossibili gli scambi commerciali tra i due paesi. L’obiettivo era convincere la Cina a trattare, ma con il passare del tempo è diventato sempre più evidente che non stava funzionando. Trump ha ridotto i dazi, concesso esenzioni e in generale fatto retromarcia senza ottenere sostanzialmente nulla in cambio. A metà maggio è stato raggiunto un accordo temporaneo per dazi sulle importazioni cinesi del 30 per cento, e i due paesi stanno continuando a negoziare.
Durante i negoziati per i promessi «90 accordi commerciali in 90 giorni» è anche diventata evidente la tendenza di Trump a usare i dazi non tanto come strumento economico, ma come metodo di pressione politica utile a ottenere concessioni su temi che non hanno niente a che fare con i commerci. Lo si è visto chiaramente con il Brasile: a metà luglio Trump ha minacciato di imporre dazi del 50 per cento sulle importazioni brasiliane se la Corte Suprema del paese non avesse interrotto il processo contro l’ex presidente Jair Bolsonaro, di estrema destra e alleato di Trump, accusato di aver pianificato un colpo di stato per restare al potere dopo aver perso le elezioni del 2022.
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