Le accuse di sfruttamento nella filiera di Loro Piana non sono un caso isolato
La procura di Milano ha avviato indagini simili su altre aziende e in altri settori, con un approccio nuovo e discusso

L’amministrazione giudiziaria che il tribunale di Milano ha disposto nei confronti di Loro Piana è l’ultimo provvedimento di questo tipo su un noto marchio di abbigliamento di lusso. Recentemente sempre il tribunale di Milano ha disposto provvedimenti simili anche nei confronti di aziende del gruppo Dior, Armani, Alviero Martini Spa (in questi casi l’amministrazione è poi stata revocata in anticipo) e Valentino.
L’amministrazione giudiziaria è un provvedimento con cui un’azienda viene affidata a un amministratore nominato da un tribunale per correggere pratiche illecite all’interno della sua filiera. In tutti questi casi i marchi in questione avevano affidato parte della propria produzione ad altre aziende, con l’obiettivo di ridurne i costi: sono state accusate di non aver fatto sufficienti controlli sulle condizioni lavorative. Al centro delle accuse ci sono vari casi di sfruttamento e caporalato, cioè il reclutamento illecito di lavoratori con l’obiettivo di sfruttarli.
I provvedimenti del tribunale di Milano sono significativi perché intervengono su un sistema fitto e ramificato che esiste da anni, ma su cui finora non c’erano stati interventi così sistematici proprio per via della difficoltà a individuare i responsabili dello sfruttamento. Le indagini sono state coordinate dal pubblico ministero Paolo Storari, che sulla filiera dei marchi del lusso ha seguito un orientamento nuovo rispetto al passato e inedito – anche criticato – rispetto a quello seguito da quasi tutte le altre procure: il suo approccio è ritenere responsabili dello sfruttamento non tanto o non solo le società appaltatrici ma anche i marchi committenti, per via dei mancati controlli sulla loro filiera.
Storari ha avviato indagini simili non solo nel lusso ma anche in altri settori, per esempio nella logistica: sempre a Milano negli ultimi quattro anni sono state aperte 13 inchieste che hanno coinvolto tutte le aziende più grandi del settore, tra cui Amazon, DHL, BRT, Esselunga, UPS e da ultima FedEx, con accuse di sfruttamento dei lavoratori e frode fiscale, e con sequestri da centinaia di milioni di euro.
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Il caso di Loro Piana è piuttosto esemplare del modo in cui funzionano le filiere produttive dei marchi del lusso e non solo. Parlando col Post della filiera dei gioielli per i marchi del lusso, Emilio Santoro, professore alla scuola di Giurisprudenza dell’università di Firenze e fondatore del centro di ricerca “L’altro diritto”, l’aveva definita «un sistema di scatole cinesi».
Partiamo dalle accuse della procura di Milano e da come si è difesa Loro Piana: la procura di Milano ha accusato l’azienda di aver «colposamente agevolato» condizioni di grave sfruttamento lavorativo di operai cinesi all’interno della propria filiera. Loro Piana, nello specifico, aveva esternalizzato una parte della produzione di giacche a un’altra azienda, la Evergreen Fashion Group Srl, che a sua volta aveva affidato la realizzazione dei capi a un’altra azienda, la Clover Moda Srl: a maggio del 2025 il titolare della Clover, un uomo cinese, è stato arrestato in flagranza con accuse di sfruttamento.
Secondo la procura, all’interno degli stabilimenti della Clover – a Baranzate, vicino a Milano – venivano impiegati operai asiatici in nero, in molti casi senza documenti e permesso di soggiorno, in ambienti di lavoro insalubri e pericolosi: in molti casi gli operai lavoravano anche di notte nei giorni festivi, sistemati in dormitori abusivi, utilizzando macchinari senza dispositivi di sicurezza né tutele sanitarie o corsi di formazione, e venivano pagati ampiamente meno di quanto previsto dalla legge.
A fronte delle accuse, Loro Piana ha risposto di non essere a conoscenza di quello che accadeva nella sua filiera: l’azienda ha detto che il fornitore coinvolto nell’indagine non li avrebbe informati sulla esistenza di un’ulteriore catena di subfornitori, cioè la Clover, e quindi sulle condizioni lavorative con cui venivano realizzate le giacche.
Un primo problema di questo tipo di filiere riguarda proprio la loro frammentazione: spesso i casi di sfruttamento e caporalato avvengono lontano dai marchi committenti, in aziende che non ne sono i primi interlocutori. Sono aziende piccole, che lavorano in conto terzi, a volte gestite da persone straniere che sfruttano altre persone straniere, in molti casi migranti irregolari.
Accade spesso che il marchio committente affidi in maniera diretta una parte di produzione ad aziende intermedie formalmente in regola, magari con dipendenti ben pagati, senza preoccuparsi di cosa succeda da quel momento in poi. È il caso della Evergreen Fashion Group Srl, un’azienda con sede nel centro di Milano che si dice specializzata nella progettazione e realizzazione di capi di abbigliamento. La Evergreen però non aveva un vero e proprio reparto produttivo, e per realizzare le giacche si rivolgeva invece alla Clover, dove poi i lavoratori venivano sfruttati.
Le accuse della procura di Milano si basano sull’idea che un’azienda delle dimensioni e della rilevanza di Loro Piana debba avere la responsabilità di mettere in piedi meccanismi per controllare tutta la propria filiera produttiva: non solo le società a cui affida direttamente la produzione, ma anche quelle a cui la produzione viene ulteriormente subappaltata.
In teoria meccanismi di questo tipo esistono: Loro Piana, come altri marchi, prevede delle ispezioni regolari nelle aziende a cui affida il lavoro (dei cosiddetti “audit”). Il punto, però, è quanto queste ispezioni siano approfondite ed efficaci nell’individuare criticità sul lavoro. Secondo la procura di Milano, gli audit organizzati da Loro Piana all’interno della sua filiera erano sostanzialmente operazioni di facciata: la procura ha definito i controlli dell’azienda «più formali che sostanziali», a partire dal fatto che quando l’azienda ha affidato una parte di produzione a Evergreen non ha verificato se la società potesse concretamente realizzare i capi.
Nella scheda dell’audit organizzato su Evergeen, scrive la procura, «non sono riportate considerazioni o verifiche inerenti la capacità produttiva». In altre parole: per abbattere i costi Loro Piana ha affidato la produzione delle giacche a Evergreen, senza preoccuparsi di verificare se Evergreen potesse effettivamente produrre le giacche, e senza quindi preoccuparsi di sapere chi le avrebbe prodotte, e in quali condizioni. Sempre secondo la procura, anche il fatto che Loro Piana abbia interrotto il proprio contratto con Evergreen solo dopo l’arresto del titolare della Clover dimostrerebbe la superficialità dei controlli svolti.
Un altro aspetto critico riguarda l’opacità dei contratti con cui i marchi committenti affidano la produzione ad altre società: molte aziende dicono di inserire nei propri contratti clausole sulle condizioni a cui possono o non possono affidare il lavoro. Ma i contratti sono documenti riservati delle aziende, che in assenza di provvedimenti giudiziari in corso possono non divulgarli.
All’esistenza dello sfruttamento e del caporalato all’interno delle filiere del lusso contribuiscono poi altri fattori. Per esempio, ci sono casi in cui le aziende subappaltatrici che lavorano in conto terzi reclutano i lavoratori usando strumenti legali di gestione dei flussi migratori.
Nel distretto orafo aretino, in cui producono gioielli molti importanti marchi del lusso, spesso il contatto col possibile lavoratore avviene direttamente nel paese d’origine, sfruttando la procedura permessa dal cosiddetto “decreto flussi”, la legge annuale che permette l’ingresso in Italia ad alcune categorie di lavoratori stranieri.
La norma prevede che chi abbia individuato lavoratori stranieri da assumere in Italia chieda un nulla osta alla prefettura. A quel punto la persona a cui è stato offerto il lavoro va nella sede diplomatica italiana del proprio paese per ottenere un visto e partire. Arrivata in Italia deve presentarsi col datore di lavoro in prefettura per ottenere il permesso di soggiorno per motivi di lavoro. A volte capita che il datore di lavoro non si presenti in prefettura, che il visto scada, e che il lavoratore diventi migrante irregolare, per poi venire impiegato nella stessa azienda in nero, in modo che il datore di lavoro non debba pagare i contributi.
Anche in questo caso il datore di lavoro utilizza degli intermediari, come persone che conoscono la famiglia nel paese d’origine, a cui chiedono grosse somme. Se non paga o se il lavoratore in Italia si ribella i familiari vengono minacciati, picchiati, o vengono sequestrate le loro proprietà.
Far emergere tutto questo è molto complicato anche per via della mancanza di strumenti da parte dei lavoratori sfruttati nel far valere i propri diritti. Non è detto che parlino italiano o che siano iscritti a un sindacato, anche perché non sempre i sindacati si attrezzano di mediatori culturali o anche solo di persone in grado di comunicare con i lavoratori sfruttati. Chi denuncia, inoltre, rischia ritorsioni o violenze.
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