Čeburaška va alla guerra
«È il Topolino russo, capace di unire le generazioni. Ma da quando la Russia ha attaccato l'Ucraina, appare in mimetica, armato, ricamato sulle toppe delle divise dei soldati»

Il giorno dopo il mio primo attacco di panico comprai un peluche in uno dei negozi sotterranei della metropolitana di Mosca, la città dove ero appena andata a studiare. Aveva le orecchie grandi e un’arancia in mano e non si capiva che animale fosse, però era carino e confortante, e questo era ciò che contava in quel momento.
Era il 2005. Ero arrivata nel mio studentato la sera precedente. Entrando nella stanza che mi era stata assegnata, il mio sguardo si era posato sulla carta da parati macchiata e poi era corso allarmato al pavimento, dove con ogni evidenza aveva da tempo preso dimora una colonia di blatte. Alcune erano morte, altre vive e sfrecciavano indifferenti tra i cadaveri delle prime. Mi precipitai in portineria a lamentarmi con una signora che sembrava piazzata lì solo per tranquillizzare ragazze occidentali senza nerbo spaventate da un pugno di blatte. Mi domandò, compunta: «Blatte, va bene, ma morte o vive?». Rimasi spiazzata. Era prevista solo un’opzione? C’era una risposta esatta e una sbagliata? Alla fine risposi: «Sia morte che vive».
La signora mi assegnò un’altra stanza, ugualmente sporca ma priva di insetti. Fu a quel punto che mi sentii male. Cominciai ad avere paura della moquette con macchie di vomito accumulate da decenni, dell’acqua corrente che non era potabile, della neve abbacinante anche di sera sotto i lampioni stradali, del freddo che – mi avevano detto – alla lunga avrebbe rotto il mio cellulare, del nastro adesivo applicato ai lati delle finestre per bloccare gli spifferi, dei cantieri che si vedevano dalla mia stanza, dove si lavorava persino col buio, delle astruse procedure che avrei dovuto seguire per chiamare al telefono i numeri italiani. E per 15 minuti mi sembrò di non respirare.
Il peluche che comprai per rassicurarmi si chiamava Čeburaška, ed era modellato sul protagonista dei libri per bambini scritti da Eduard Uspenskij a partire dal 1966, da cui negli anni Settanta fu tratta una serie animata di enorme successo. Čeburaška è un animaletto di una specie sconosciuta proveniente da un Paese esotico, che viene trovato addormentato in una cassa di arance nel mercato generale di Mosca. In città si trova spaesato, come lo ero io nello studentato, senza un nome e senza un posto nel mondo. Per fortuna gli viene in aiuto il coccodrillo Genja, bravo cittadino sovietico che gli dà un nome e gli trova una funzione all’interno della comunità.
La bestiolina fece la sua comparsa in tv nel 1969, grazie alle animazioni dell’artista Leonid Švarcman: enormi, tenere orecchie che si afflosciano quando è triste, occhi sproporzionati e vigili, la pelliccia marrone che richiama il manto di un orsacchiotto. In poco tempo Če – come viene spesso abbreviato, non disdegnando l’associazione con Che Guevara – diventò il Topolino russo, anzi dell’intera Europa dell’Est, il personaggio capace di unire le generazioni e incarnare il simbolo della bontà e dell’amicizia.
Poi, nel 2022, la Russia ha invaso l’Ucraina. Mentre leggevo incredula le notizie sulla guerra, mi è apparso ovunque: Čeburaška in mimetica, Čeburaška armato, Čeburaška ricamato sulle toppe delle divise dei soldati. Innumerevoli Čeburaška di cartoncino o feltro pronti per essere spediti al fronte, realizzati da bambini iscritti alla Junarmija, un’organizzazione paramilitare per ragazzini e ragazzine in età scolare. Perfino un lanciafiamme utilizzato nel conflitto in Ucraina è stato affettuosamente battezzato MLRS Čeburaška. Intanto il film Čeburaška, uscito nel 2023, è stato il più visto di sempre al cinema. Cos’era successo al mio pupazzo antipanico? Come aveva fatto a diventare il simbolo della guerra? E che cosa ne avrebbe detto Uspenskij, il suo creatore, se fosse stato vivo? Lui, che nel 2014 aveva condannato l’invasione della Crimea e chi la sosteneva: «Il 90% dei russi sono idioti», aveva detto in un’intervista.
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Gli occhioni di Čeburaška erano già stati utilizzati come simbolo della Federazione Russa, ma sempre per questioni pacifiche, per esempio come mascotte ufficiale della squadra olimpica dal 2004 al 2010 o perfino sui francobolli e su una moneta da 25 rubli. La metamorfosi bellica del personaggio è iniziata quando gli ucraini hanno definito la creatura di Uspenskij «un occupante», bandendo i suoi libri dalle scuole. A quel punto i russi si sono riversati su Telegram – l’app di messaggistica dove trovano voce sia il dissenso sia il nazionalismo russi – per protestare e da alcuni canali più influenti è venuta fuori l’idea di utilizzare Čeburaška come simbolo patriottico. L’unico contrario è stato Aleksandr Dugin, il controverso filosofo e politologo, secondo il quale Čeburaška è un demone venuto dalla luna il cui vero nome è Šerdbaršeotšertatan. I soldati mandati al fronte, spesso senza sufficiente preparazione, hanno iniziato a portare con sé il personaggio che aveva caratterizzato e cullato la loro infanzia. Era una situazione che mi ricordava qualcosa.
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In una delle scene finali più famose della storia del cinema, un plotone di soldati avanza in uno scenario in fiamme cantando la Marcia di Topolino. Il film è Full Metal Jacket di Stanley Kubrick e i soldati sono marines di stanza in Vietnam, dove hanno appena subito un agguato in cui sono morti due commilitoni che il protagonista ha vendicato uccidendo per la prima volta in vita sua. La Mickey Mouse March sembrerebbe l’ultima canzone a poter essere intonata da soldati in una situazione simile, ma lo spettatore supera lo straniamento perché capisce il loro bisogno di rifugiarsi nell’infanzia per prendere le distanze da una situazione disumana.
Kubrick pescava dalla realtà. Agli americani l’idea di utilizzare in guerra personaggi per bambini era venuta già durante il secondo conflitto mondiale. Dopo l’attacco giapponese alla base navale di Pearl Harbor del 7 dicembre 1941, l’esercito americano si rivolge alla Disney che mette i suoi impiegati al lavoro per produrre materiale informativo e propagandistico. Su richiesta dell’esercito gli illustratori realizzano gratuitamente 1.200 toppe in cui i topi, i paperi e gli altri animali umanizzati da Walt Disney sono affiancati a bombardieri, missili, navi, armi. Il più richiesto è Donald Duck, Paperino: accanto a un mitra questo personaggio inerme, sconclusionato e cronicamente sfortunato – in sostanza molto infantile – si trasforma in un fiero combattente americano. Bambi, Bugs Bunny, Topolino, Pluto, non c’è personaggio che non venga “arruolato”.
Durante la guerra le creature disneyane popolano i poster, gli opuscoli informativi, le guide per tecnici e ingegneri, i libretti dei titoli di stato emessi per finanziare lo sforzo bellico e i corti animati propagandistici. Uno di questi vince persino un Oscar: è Der Führer’s Face del 1943, ispirato a Tempi moderni e al Grande dittatore di Charlie Chaplin, che ha per protagonista un Paperino tedesco che non riesce a star dietro ai «Sieg Heil».
Un altro classico dell’epoca, questa volta della Looney Tunes, è The Ducktators, gioco di parole tra duck, “papero” e dictators, “dittatori”, che ritrae in tono parodistico, stereotipato e razzista i tre capi di Stato dell’Asse: l’imperatore Hirohito, il führer Adolf Hitler e il duce Benito Mussolini. Grazie a cortometraggi come questi, che sono indirizzati agli adulti, la guerra è raccontata come un gioco, uno scherzo che si può affrontare con leggerezza. Se ai bambini si regalano modellini di aerei e navi militari, per gli adulti c’è un universo dove la guerra è una storia della buonanotte, un mondo di cui si può ridere, dove la morte non esiste e nulla di cattivo può davvero accadere.
La strategia del Giappone è diversa. I film d’animazione mostrano il sacrificio, anche se in una cornice tranquillizzante. È il caso di Momotarō: Umi no Shinpei (in Occidente più noto come Sacred Sailors) di Mitsuyo Seo, il primo lungometraggio animato della storia giapponese, che dura 74 minuti e uscì il 12 aprile 1945, pochi mesi prima delle atomiche americane su Hiroshima e Nagasaki. Nel cartone animato – che è rivolto agli adulti, come dimostrano i sottotitoli scritti in caratteri cinesi kanji, complicati per i bambini – si racconta di un plotone di adorabili scimmiette antropomorfe che va in missione nell’Isola del diavolo e torna con un soldato in meno. La soddisfazione del generale per la riuscita dell’attacco fa dimenticare ai commilitoni sopravvissuti la perdita. Il film è l’ultimo di una serie iniziata nel 1943 sempre con Momotarō no Umiwashi, dove si ricostruisce in forma umoristica l’attacco di Pearl Harbor.
Non avendo un universo da cui attingere, i giapponesi pescano nella tradizione shintoista il personaggio di Momotarō, bambino nato da una pesca e adottato da una coppia di contadini senza figli, che da grande parte per l’isola di Onigashima per sconfiggere gli Oni, demoni del folklore giapponese. Momotarō ha molti pregi: è inviato dal cielo – quindi è “imparentato” con l’Imperatore, che ha origine divina – ed è un combattente, ma soprattutto è già noto ai soldati dell’esercito imperiale perché sono cresciuti con la sua storia, l’hanno studiata sui libri di scuola e vista nei kamishibai, i teatrini itineranti giapponesi.
Al pari dei personaggi Disney, anche Momotarō, “il bambino pesca”, è indenne dal passare del tempo. Rimane un bambino anche quando interpreta il ruolo di un generale, come in Momotarō: Umi no Shinpei. Al pari di Čeburaška, Momotarō è carino – oggi si direbbe “kawaii” – e ha occhi sognanti che stemperano i momenti più difficili della guerra. Il suo aspetto rispetta tutti i crismi del “kindchenschema”, i “segnali infantili” capaci di suscitare tenerezza descritti nel 1943 dall’etologo austriaco Konrad Lorenz: testa grande rispetto al corpo, viso rotondo, fronte alta e sporgente, occhi grandi, naso e bocca piccoli, corpo paffuto, movimenti oscillanti.
Ogni epica si fonda sull’opposizione tra buoni e cattivi. Ogni eroe richiede un antieroe. Per questo nel 1933 in Giappone alcuni personaggi Disney vengono presi in prestito e trasformati in nemici, conferendo loro un aspetto minaccioso: in Kuroneko Banzai un Topolino ghignante dal naso lungo attacca un’isola in groppa a un pipistrello sparamissili insieme a un plotone di suoi simili. Per trasformare un personaggio rassicurante nel simbolo del nemico basta rendere i suoi tratti più spigolosi e cambiare l’espressione. Anche negli Stati Uniti l’aspetto di Topolino cambia, ma subisce il processo opposto. Come spiega Stephen Jay Gould in Il pollice del panda, quando inizia la guerra Mickey Mouse viene disegnato con un profilo e una faccia più rotondi rispetto agli anni Trenta, in modo che susciti più tenerezza e rassicuri gli americani.
La propaganda che utilizza personaggi infantili non serve soltanto a dare coraggio e rassicurare in tempo di guerra. Serve anche a prepararla, la guerra. L’infantilizzazione può essere un’arma per allontanare la paura della violenza appena compiuta o subita, come in Full Metal Jacket, ma anche per quello che può accadere. Cliccando sulle immagini dei Čeburaška guerrafondai, mi sono imbattuta in una foto del 2016 in cui un gruppo di bambini della Junarmija regalava un carro armato fatto all’uncinetto a Sergej Shoigu, ministro della Difesa fino al 2024, oggi accusato di crimini di guerra. Oggi mi pare una premonizione: il corto che, otto anni dopo, avrebbe aperto il trentesimo Festival dell’animazione di Suzdal’ aveva per protagonista proprio un carro armato bambino, il “Malyš T-34”, il “Piccolo T-34”. Il suo sguardo era così carino che per un attimo mi sono dimenticata della sua natura, poi mi è venuto in mente che “Little Boy” era il nome con cui venne chiamata una delle bombe atomiche del Progetto Manhattan. Le cose fanno meno paura se vengono infantilizzate. Funziona quasi per tutto, purtroppo non credo per le blatte.
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