Il ritiro parziale degli Stati Uniti dalla Siria
L'amministrazione Trump vuole ridurre i suoi soldati impegnati a combattere l'ISIS, ma ha bisogno che il governo di al Sharaa funzioni

Gli Stati Uniti hanno cominciato a ritirare centinaia di soldati dalla Siria, dove avevano un contingente di circa 2.000 persone incaricate di contrastare i miliziani dello Stato Islamico (ISIS) ancora presenti nel nord-est del paese. Secondo fonti sentite dal New York Times, da altri media e analisti indipendenti, i soldati caleranno a 1.400 e poi, dopo un breve periodo di verifica della situazione, potrebbero essere ulteriormente ridotti. Delle otto basi e postazioni militari che l’esercito americano gestisce in Siria, tre saranno chiuse.
Le ragioni di questo ritiro parziale sono due. Il presidente Donald Trump vuole eliminare completamente la presenza americana nel paese, e di recente ha detto che quella in Siria «non è la nostra guerra». Spera inoltre che la situazione della Siria in futuro possa stabilizzarsi con il nuovo governo guidato da Ahmed al Sharaa, leader che ha guidato la rivolta contro il regime di Bashar al Assad.
Come detto, le truppe statunitensi sono in Siria per contrastare lo Stato Islamico, gruppo terroristico che un tempo dominava un ampio territorio tra Iraq e Siria. Il gruppo perse quel territorio nel 2019, quando fu sconfitto da una coalizione a guida americana che aveva come principale forza sul campo le Forze democratiche siriane (SDF), una milizia controllata dai curdi siriani. Tuttavia non scomparve del tutto: da allora ha continuato a mantenere una presenza clandestina in alcune zone della Siria, e continua tutt’oggi a fare attacchi terroristici.

Membri delle SDF nel dicembre 2023 (AP Photo/Baderkhan Ahmad)
Dopo il 2019 i soldati americani furono ridotti a 900 (principalmente su iniziativa di Trump, durante il suo primo mandato), e poi riportate a 2.000 negli ultimi anni dell’amministrazione di Joe Biden, probabilmente per rispondere a un aumento generalizzato della tensione nella regione provocato dall’invasione israeliana nella Striscia di Gaza.
La caduta del regime di Assad e la conseguente fine della guerra civile siriana a dicembre sono state un problema per lo Stato Islamico, che prima godeva di una certa libertà di azione soprattutto nelle zone centrali desertiche del paese, dove erano anche concentrati gli sforzi di reclutare nuovi membri. Ora le cose sono cambiate. Secondo Charles Lister, uno dei principali esperti internazionali di Siria, dal dicembre 2024 a oggi gli attacchi terroristici dello Stato Islamico nel paese sono diminuiti dell’80 per cento, e la loro mortalità del 97 per cento.
Non è detto comunque che questa tendenza continui. Sempre secondo Lister, la debolezza del nuovo governo potrebbe creare le condizioni per un nuovo rafforzamento dello Stato Islamico.

Un aereo cargo carica veicoli militari americani nella zona di Kobane, ottobre 2019 (Staff Sgt. Joshua Hammock via AP)
Il piano americano per ridurre la propria presenza in Siria prevede anche di promuovere un accordo definitivo tra il governo di al Sharaa e le Forze democratiche siriane, che amministrano autonomamente circa un terzo del paese a nord-est. Le due parti, su pressione degli Stati Uniti, hanno trovato un primo accordo a marzo che prevede l’integrazione delle SDF nell’esercito nazionale siriano. La sua applicazione per ora sta andando bene, con le SDF che si stanno gradualmente ritirando dalle loro postazioni.
L’idea è fare della Siria un paese stabile e governato da un’unica entità, che possa prendersi in carico anche la repressione dello Stato Islamico.
La situazione rimane però molto delicata, tra le altre cose perché le SDF controllano nel proprio territorio grandi campi di prigionia di miliziani dello Stato Islamico catturati durante le guerre degli scorsi anni: sono tra i 9 e i 10 mila combattenti, più 39 mila membri delle loro famiglie. I campi sono rigidamente protetti, per paura che lo Stato Islamico possa attaccarli e liberare i propri miliziani.