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  • Martedì 4 febbraio 2025

Dove sono finiti i Democratici?

Per ora il partito statunitense non sa come gestire l’opposizione a Donald Trump, è diviso e senza un piano chiaro per il futuro

Elettori ed elettrici democratici dopo la sconfitta di Kamala Harris (AP Photo/Terrance Williams)
Elettori ed elettrici democratici dopo la sconfitta di Kamala Harris (AP Photo/Terrance Williams)
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Dall’inizio del secondo mandato del Repubblicano Donald Trump il Partito Democratico, i suoi esponenti e le sue proposte sono sostanzialmente uscite dal dibattito pubblico. Al momento i Democratici non hanno un vero leader né una strategia chiara, e il partito è diviso su come e in che misura rispondere all’ondata di decisioni e ordini esecutivi emessi dalla nuova amministrazione. Non hanno ancora compiuto una vera analisi dei motivi della sconfitta elettorale dello scorso novembre, né elaborato un programma che indichi una nuova direzione. Secondo recenti sondaggi il gradimento del partito fra gli elettori è molto basso e la sua base appare stanca e disillusa, tanto che anche le proteste e le mobilitazioni contro Trump sono state minime.

Il risultato è che al momento il Partito Democratico è incapace sia di fare davvero opposizione, sia di muoversi per provare a recuperare consensi e influenza.

Lo scorso sabato il partito ha avviato un processo di riorganizzazione interna, eleggendo Ken Martin come presidente del proprio Comitato Nazionale, una specie di segretario. Negli Stati Uniti però i partiti politici funzionano in modo diverso da quelli europei, e questo ruolo è in realtà poco rilevante: il leader uscente era dal 2021 Jaime Harrison, non proprio una delle figure più in vista degli ultimi anni.

L’elezione, a cui hanno partecipato molti candidati, è stata comunque osservata per valutare se emergessero indicazioni su cambiamenti o sulla direzione politica del partito: non è successo. Martin ha 51 anni, viene dal Minnesota e ha vinto con un “programma” basato su indicazioni piuttosto generali sulla necessità di «riguadagnare consensi nella classe lavoratrice», «favorire gli interventi dal basso», aumentare la trasparenza e gli strumenti di comunicazione. Le proposte dei principali avversari non erano molto differenti.

Il vecchio e il nuovo leader del Comitato Nazionale democratico, Jaime Harrison e Ken Martin (AP Photo/Rod Lamkey, Jr.)

Il dibattito più attuale e impellente, all’interno del partito, è quello su come rispondere al susseguirsi di annunci e decisioni di Trump. Molte di queste hanno smantellato politiche introdotte dall’amministrazione di Biden, come quelle sui programmi governativi su inclusione e diversità, mentre altre confermano timori espressi in campagna elettorale su un possibile indebolimento delle strutture democratiche e di controllo dei poteri. Davanti a queste misure il partito Democratico non è riuscito, almeno per ora, a creare un’opposizione forte: al contrario i Democratici sembrano travolti dall’iperattività della nuova amministrazione.

Il Democratico Chuck Schumer, leader di minoranza in Senato, ha detto in un’intervista: «Non andremo dietro a ogni singolo tema, sceglieremo le battaglie più importanti e per quelle ci sdraieremo sui binari del treno». L’approccio non è condiviso da tutti: i media statunitensi hanno raccontato come in riunioni interne molti fra i politici Democratici più influenti abbiano chiesto un’opposizione più radicale e convinta a tutta l’azione politica di Trump.

All’interno del partito ci sono visioni diverse su quali sia la strategia migliore: a un approccio battagliero e di pressione costante c’è chi preferirebbe un atteggiamento più attendista, nella convinzione che l’azione della nuova amministrazione porterà il caos in vari campi e che questa sarà il modo più diretto e semplice per riguadagnare consenso. C’è anche chi propone un approccio meno radicalmente oppositivo, almeno su alcune questioni, per riavvicinarsi a posizioni più moderate e condivise da una parte più ampia dell’elettorato.

La discussione è anche su quali temi debbano essere al centro dell’azione politica, fra quelli economici e sul costo della vita (che alcune decisioni di Trump rischiano di peggiorare), la difesa della democrazia o gli argomenti che erano stati centrali durante la campagna elettorale, come la difesa dell’accesso all’aborto, dei diritti della comunità LGBTQ+ e la lotta al cambiamento climatico. Questi ultimi sono quelli che mobilitano più facilmente la base del partito Democratico, ma sono anche quelli meno condivisi dall’elettorato più ampio.

Un recente sondaggio del New York Times ha evidenziato proprio la distanza fra gli argomenti che gli elettori considerano prioritari e quelli che pensano che siano tali per il Partito Democratico: tra i primi ci sono l’economia, l’immigrazione, le tasse e la sicurezza; tra gli altri l’aborto, i diritti delle persone LGBTQ+, il cambiamento climatico e lo stato della democrazia. Secondo il sondaggio, l’unico tema su cui le priorità del partito e dell’elettorato coincidono è il sistema sanitario. Questa distanza sta contribuendo al calo della popolarità dei Democratici: in un sondaggio del Wall Street Journal il 60 per cento degli intervistati ha detto di avere un’opinione negativa del partito, e solo il 36 positiva.

Bernie Sanders e Elizabeth Warren in Senato (AP Photo/Jose Luis Magana)

Negli ultimi anni le proposte dei Democratici sono state fortemente influenzate dai gruppi di attivisti liberali e radicali, capaci di ottenere molti fondi da singoli donatori. I politici Democratici hanno quindi dovuto adattare i loro programmi per allinearli alle loro richieste: nel tempo questo ha portato il partito su posizioni più radicali e meno universalmente condivise, anche tra l’elettorato progressista.

Una parte del partito ritiene poi che la recente sconfitta elettorale non sia tanto indice di una crisi strutturale, quanto il risultato di scelte specifiche e circoscritte. Per giustificare la sconfitta alle presidenziali, ma anche al Senato e alla Camera, molti Democratici citano la scelta di Joe Biden di ricandidarsi nonostante l’età avanzata, la sua sostituzione nel mezzo della campagna elettorale e la spinta emozionale data a Trump dall’attentato a cui è sopravvissuto, lo scorso luglio. Secondo questa corrente “ottimista” le elezioni di metà mandato di novembre 2026 permetteranno ai Democratici di recuperare la maggioranza almeno alla Camera, e le primarie presidenziali che seguiranno definiranno una nuova leadership del partito, partendo da un gruppo di governatori popolari e considerati candidati “forti” per le elezioni del 2028.

Altri esponenti del partito sono decisamente meno ottimisti. Adam Frisch, ex candidato alla Camera in Colorado, ha riassunto così la situazione: «Ai Democratici restano 20 grandi città, Aspen e Martha’s Vineyard [due note località di vacanza delle élite progressiste, ndr], e nelle grandi città non stanno mostrando la loro faccia migliore». Più in generale viene riconosciuta una certa stanchezza dell’elettorato progressista e una diffusa mancanza di speranza.

Molti infine evidenziano il differente contesto in cui si sta muovendo Trump in questo secondo mandato: nel 2016 aveva incontrato non solo l’opposizione attiva dei movimenti progressisti, ma anche quella più o meno manifesta delle grandi aziende tecnologiche, oggi invece impegnate nel sostenere la nuova amministrazione. Questo potrebbe rendere più complesso per i Democratici proporre un messaggio e una visione alternativa, che faccia presa sull’elettorato in modo convincente.