I regali agli influencer hanno un problema di evasione fiscale?

È un grosso tema di cui si è dibattuto con opinioni molto nette quest'estate, ma è più complesso di come sembra

(Gareth Cattermole/Getty Images for BFI)
(Gareth Cattermole/Getty Images for BFI)

Le persone che frequentano i social e seguono gli influencer hanno ormai molta familiarità con parole come #suppliedby, #giftedby o semplicemente #gift. Sono quelle che gli influencer usano per dichiarare quando il prodotto o il servizio che stanno mostrando in video o in foto è stato offerto loro gratuitamente a fini promozionali. Per le aziende fare regali in cambio di attività promozionali è una pratica molto diffusa che rientra nel cosiddetto influencer marketing, cioè appunto in quel tipo di pubblicità che sfrutta la visibilità degli influencer: i “regali” possono essere di tutti i tipi, da soggiorni in hotel, alla ristrutturazione di casa, da borse di lusso a creme per il viso.

Quest’estate in un articolo sul Fatto Quotidiano la giornalista Selvaggia Lucarelli, che si occupa spesso di limiti e storture del mondo dei social network, ha sostenuto che questa pratica sia «una sorta di far west dal punto di vista fiscale» e che «ad oggi, nessuno paga le imposte sui supplied», cioè sui regali. Secondo Lucarelli infatti sarebbe diffusa tra gli influencer l’abitudine di non inserirli nella dichiarazione dei redditi, anche quando fanno parte di un accordo esplicito di sponsorizzazione e quindi dovrebbero essere tassati come qualsiasi altro compenso. È una questione non irrilevante, ma è anche un po’ più complicata di come sembra, e su cui non abbiamo molti dati.

Il dibattito mediatico su come regolamentare il mondo delle sponsorizzazioni sui social network è in corso da alcuni anni (e non solo in Italia). Si concentra quasi esclusivamente sul tema della trasparenza dei contenuti sponsorizzati degli influencer: quindi su come rendere noto all’utente che quello che sta guardando è un contenuto pagato e concordato con un’azienda e non spontaneo (è il motivo per cui molti usano l’hashtag #adv, che sta per advertising, pubblicità). Un discorso diverso e forse meno affrontato è quello sull’inquadramento fiscale degli influencer emerso di recente per via dell’articolo di Lucarelli, che è molto seguita sui social e ha provocato un piccolo dibattito sul tema.

Il dibattito è stato alimentato anche dal fatto che quella degli influencer è una categoria professionale che esiste da poco, che può portare guadagni anche importanti e il cui lavoro si basa spesso sull’ostentazione di stili di vita lussuosi: per questo è poco amata e guardata con generale sospetto da molti. La sola idea che questo lavoro, apparentemente così profittevole, possa basarsi su una sorta di evasione fiscale istituzionalizzata ha generato una certa indignazione, non sempre giustificata.

Quando si parla di influencer si parla di una categoria professionale che tiene dentro persone e attività anche molto diverse, quindi è difficile fare discorsi che valgano per tutti. In generale però possiamo definire gli influencer come professionisti che per qualche motivo hanno guadagnato grande seguito sui social network e hanno una credibilità tale da “influenzare” chi li segue nell’acquisto di servizi o prodotti. Per questo vengono contattati da aziende che li pagano per avere spazio sui loro canali social, non diversamente da come si farebbe comprando uno spazio pubblicitario su un canale televisivo con un certo numero di spettatori.

Nella stragrande maggioranza dei casi quello dell’influencer è considerato, da un punto di vista fiscale, un reddito da lavoro autonomo: che quindi non è né un lavoro d’impresa né da dipendente (sebbene, come dicevamo, ci siano influencer di ogni tipo ed è probabile che ce ne siano anche di inquadrabili in queste due altre categorie, per cui valgono norme diverse). Quella di reddito da lavoro autonomo è una definizione che per legge prevede compensi sia in denaro che “in natura”. La normativa italiana quindi prevede già che un influencer residente in Italia che viene ingaggiato da un’azienda per fare un post sponsorizzato sui suoi social possa farsi pagare in denaro ma anche con servizi o prodotti. Non c’è, insomma, nessun vuoto normativo in questo.

Quando un’azienda fa un regalo all’influencer poi è tenuta a dichiararlo: infatti, anche se non ha speso direttamente dei soldi per quella promozione ha comunque sostenuto un costo, che può essere quello della borsa di lusso che ha dato in omaggio, o l’impegno della camera d’hotel del soggiorno offerto, eccetera. L’azienda non solo è tenuta a dichiararlo, ma ha anche tutto l’interesse a farlo, perché quel costo per lei è deducibile dalle tasse come qualsiasi altra spesa.

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Per quanto riguarda l’influencer le cose sono un po’ più fumose: nel senso che è più difficile dire con certezza sia come dovrebbe comportarsi nelle varie situazioni, sia come si comporti di fatto, perché non è una cosa su cui esistano dei dati. L’influencer dovrebbe infatti sempre dichiarare quando riceve un compenso per una sponsorizzazione, che sia in denaro o “in natura”, ma come avviene anche in altri settori non sempre questo viene fatto e non sempre viene fatto in modo corretto. In generale avvocati e commercialisti con cui ha parlato il Post confermano che mediamente l’attenzione di chi fa l’influencer (soprattutto agli inizi) su questo tema non è altissima, e che essendo un settore nuovo i professionisti a cui gli influencer si rivolgono non sempre sono preparati.

Nel caso di regali di grande valore (una cucina, un soggiorno in un hotel, eccetera) c’è quasi sempre un accordo esplicito tra azienda e influencer, anche perché l’azienda vuole assicurarsi che al regalo corrisponderà una sponsorizzazione e che rispetterà certi criteri. Se c’è un accordo, anche solo via mail o verbale, in cui l’influencer si impegna a sponsorizzare il prodotto o il servizio che riceve, allora poi è tenuto a dichiararlo (per intenderci: dovrà dirlo al suo commercialista così come gli comunica tutte le fatture che ha emesso) e quindi a pagarci le tasse. Questo succede solitamente con influencer grossi e molto strutturati, o che sono seguiti da un’agenzia, ma non è detto che succeda con influencer più piccoli, sprovveduti o che deliberatamente puntano a dichiarare solo una parte dei propri compensi.

È vero infatti che non dichiarare un servizio o un prodotto ricevuti come compenso è più facile che non dichiarare un pagamento in denaro. Il compenso in denaro prevede una transazione bancaria, banalmente, che è più facile che venga tracciata, mentre chi non dichiara per esempio una vacanza omaggio in un hotel è più difficile da scoprire in caso di controlli. Chi evade quindi lo fa più frequentemente e facilmente con questo tipo di compensi. Non esistono tuttavia dati sull’evasione fiscale nel mondo degli influencer in Italia. Lo scorso marzo la Guardia di Finanza e l’Agenzia delle Entrate avevano annunciato un accordo con l’obiettivo di indagare e contrastare più accuratamente l’evasione fiscale in questo settore (finora però si sono concentrati soprattutto su guadagni diversi da quelli di cui stiamo parlando, legati per esempio alla piattaforma OnlyFans).

Ci sono però anche pratiche più difficili da inquadrare. Un esempio è il caso, molto frequente, in cui un’azienda di cosmetici contatta un’influencer e le chiede se vuole ricevere una crema da provare ed eventualmente mostrare ai suoi follower. Lei risponde di sì ma ribadisce che è disposta a riceverla solo se non è tenuta a fare niente in cambio (perché vuole essere libera di mostrarla ai propri follower solo se lo ritiene, e perché di fatto non è pagata per farlo, o meglio è pagata molto poco, giusto il valore della crema).

Quando poi decide di mostrarla nelle sue storie di Instagram (e magari tagga anche il marchio) quello che è avvenuto non è molto diverso da una sponsorizzazione. Ma visto che teoricamente non c’è un accordo e che parliamo di un regalo (la crema) con un valore basso, è possibile che rientri nelle cosiddette “donazioni di modico valore” e in quanto tale non debba essere dichiarato. Per stabilire se una donazione sia di “modico valore” non c’è una soglia definita, ma si considerano vari fattori. È solo un esempio, questo, per capire come ogni caso vada valutato singolarmente e non esista una risposta universale: banalmente non è sempre facile capire se c’è stato un contratto e qual è il valore del compenso.

Un altro tema sollevato da Lucarelli e di cui si discute spesso sono poi quei casi in cui gli influencer rivendono i regali che hanno ricevuto su app di compravendita di usato come per esempio Vinted. Se la donazione è di modico valore, come dicevamo, e se si rivende una cosa usata (nel senso di seconda mano, anche se non è stata davvero usata) non c’è teoricamente niente da dichiarare. Se però un influencer che riceve costantemente regali cominciasse, per ipotesi, a rivenderli tutti e a basare una parte consistente del proprio reddito su quei guadagni, questa potrebbe diventare un’attività d’impresa, che è diversa da quella da influencer e quindi segue regole e tassazioni diverse.

Di fatto è vero che, se ci sono aziende che dichiarano di aver sostenuto dei costi per delle sponsorizzazioni, e che deducono questi costi dalle proprie tasse, ma dall’altra parte questi sono di fatto dei compensi che gli influencer non dichiarano e su cui quindi non ci pagano le tasse, un problema di evasione c’è. È quello che succede sistematicamente con influencer non residenti in Italia (quindi che seguono regole diverse nelle loro dichiarazioni dei redditi) ma che fanno delle sponsorizzazioni qui, per i quali la questione è molto più complicata e di difficile soluzione.