Il Parlamento Europeo vuole fare causa alla Commissione Europea

Per aver sbloccato 10 miliardi di euro di fondi per l'Ungheria, lo scorso dicembre: potrebbe essere un problema per la presidente della Commissione Ursula von der Leyen, il cui incarico è in scadenza ma che si è candidata per un secondo mandato

La presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, e la presidente del Parlamento Europeo, Roberta Metsola (AP Photo/Jean-Francois Badias)
La presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, e la presidente del Parlamento Europeo, Roberta Metsola (AP Photo/Jean-Francois Badias)
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Giovedì i leader dei partiti del Parlamento Europeo hanno annunciato che intendono fare causa alla Commissione Europea per aver sbloccato, lo scorso dicembre, parte dei fondi europei per l’Ungheria. Entro il 25 marzo la presidente del Parlamento Europeo, Roberta Metsola, dovrà presentare i documenti dell’accusa alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, in Lussemburgo, che valuterà il caso.

La causa comincerebbe quindi pochi mesi prima delle elezioni europee del prossimo giugno e rischia di mettere in difficoltà soprattutto la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, il cui incarico è in scadenza ma che si è ricandidata per un secondo mandato. La decisione di fare causa è stata approvata anche dal Partito Popolare Europeo (PPE), il partito politico più grande del Parlamento Europeo e quello di cui fa parte anche von der Leyen, che al tempo fu molto criticata per la decisione di sbloccare i fondi. Il PPE però ha fatto notare che von der Leyen non agì da sola, ma la decisione fu condivisa e sostenuta da altri membri della Commissione, tra cui il commissario europeo per la Giustizia Didier Reynders (del partito liberale Renew Europe) e il commissario per il Lavoro Nicolas Schmit (dell’Alleanza dei Socialisti e Democratici, il principale partito europeo di centrosinistra).

La Commissione Europea aveva sospeso i pagamenti verso l’Ungheria alla fine del 2022, accusando il governo ungherese guidato dal primo ministro Viktor Orbán di avere creato un sistema politico, economico e giudiziario estremamente corrotto e illiberale. Parte dei fondi era poi stata sbloccata a dicembre del 2023, il giorno prima di una riunione del Consiglio Europeo (la riunione dei capi di stato e di governo degli stati membri dell’Unione) in cui avrebbe dovuto essere approvato l’invio di aiuti economici per l’Ucraina: molti osservatori avevano collegato le due cose, nonostante il governo ungherese e la Commissione Europea avessero negato. Alla fine Orbán mise il veto sull’invio di aiuti, ma non si oppose all’avvio della procedura per l’adesione dell’Ucraina e della Moldavia all’Unione Europea.

Secondo il Parlamento la decisione unilaterale della Commissione di sbloccare i fondi per l’Ungheria violerebbe i criteri stabiliti dai trattati europei. Il Parlamento ritiene che non ci fossero prove sufficienti che l’Ungheria si fosse adeguata agli standard necessari in questioni come l’indipendenza della magistratura. Secondo la Commissione invece l’Ungheria aveva dimostrato che le riforme approvate dal governo di Orbán nel maggio del 2023 avevano prodotto risultati sufficienti, e quindi la Commissione era tenuta a sbloccare i fondi entro precise scadenze.

Nonostante la decisione della Commissione gran parte dei fondi europei destinati all’Ungheria sono ancora bloccati, tra cui 12 miliardi dei “fondi di coesione”, destinati alle aree più povere e arretrate dell’Unione, e buona parte dei 10,4 miliardi che spetterebbero all’Ungheria per il cosiddetto Recovery Fund, il serbatoio di fondi approvato dall’Unione Europea per contenere la crisi economica innescata dalla pandemia. Per riceverli il governo ungherese deve dimostrare di rispettare 27 condizioni molto stringenti in termini di trasparenza e gestione dei fondi.

Non è la prima volta che il Parlamento Europeo fa causa alla Commissione. Era già successo nel 2021, quando il Parlamento ricorse alla Corte di Giustizia per chiedere alla Commissione di applicare un meccanismo che legasse il versamento di fondi europei al rispetto dei diritti fondamentali in un certo paese. In quel caso il paese che aveva continuato a ricevere i fondi era la Polonia.