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  • Mercoledì 10 gennaio 2024

Un ex militare argentino scappato in Sicilia sarà processato in Italia

Carlos Luis Malatto era fra i capi di una divisione dell'esercito responsabile di torture e omicidi politici durante la dittatura di Jorge Videla: se n'era andato dall'Argentina per evitare la condanna

Carlos Luis Malatto ripreso da una troupe della RAI nel 2023
Carlos Luis Malatto ripreso da una troupe della RAI nel 2023

A fine marzo del 2023 un uomo e una donna si sono presentati sotto al balcone di un’elegante villetta rosa a Furnari, una località turistica sul mare in provincia di Messina. Fra le mani i due stringevano un cartello con una scritta in spagnolo: Juicio y castigo a los genocidas escondidos (processo e condanna per i responsabili di genocidio ancora nascosti). Le due persone erano Sonia Bongiovanni e Matias Guffanti, direttrice e vice direttore di Our Voice, una associazione italiana che fra le altre cose si occupa dei familiari delle persone scomparse in Sud America durante le dittature alla fine del Novecento, i cosiddetti desaparecidos.

Dentro alla villetta rosa abita Carlos Luis Malatto, un ex militare argentino di 74 anni che ai tempi della dittatura di Jorge Videla, quindi fra gli anni Settanta e Ottanta, era fra i capi di una divisione dell’esercito nota per la sua brutalità contro gli oppositori politici. Il periodo della protesta non è stato casuale: in Argentina il 24 marzo di ogni anno si celebra il Giorno della memoria per la verità e la giustizia, per ricordare le vittime della violenza politica del regime di Videla, che prese il potere proprio il 24 marzo 1976.

Malatto era fuggito dall’Argentina nel 2011 per scappare da un processo contro la sua divisione. Si era rifugiato in Italia per via della sua doppia nazionalità, italiana e argentina. Per anni le autorità italiane avevano rifiutato le richieste di estradizione da parte dell’Argentina. Nell’estate del 2022 però la procura di Roma aveva aperto una inchiesta nei suoi confronti, e per mesi diversi attivisti e politici avevano parlato pubblicamente del caso di Malatto nella speranza che si arrivasse a qualcosa di concreto.

I loro sforzi sono stati premiati. Malatto è stato rinviato a giudizio e martedì 9 gennaio si è saputo che un processo nei suoi confronti inizierà il 22 aprile. «Spero che la legge arrivi a giudicarlo, dandogli un’opportunità che a mio padre non è mai stata data», ha detto al Guardian Viviana Arias, figlia di un uomo rapito dall’esercito nel 1976 a San Juan, la città dove era attiva la divisione di Malatto. Il padre di Arias non è mai stato trovato.

Il regime di Videla fu uno dei più duri nella storia del Sud America nei confronti di oppositori politici, sindacalisti e giornalisti. Decine di migliaia di persone furono arrestate con motivazioni risibili, detenute e torturate. Fra le 10mila e le 30mila persone poi sparirono senza lasciare traccia (non esiste un conteggio ufficiale). Con tutta probabilità furono uccise dal regime, ma per molti di loro non esiste una spiegazione ufficiale sulla fine che hanno fatto.

Le violenze contro gli oppositori compiute dal regime di Videla facevano parte del Plan Cóndor, noto in Italia come operazione Condor. Fu una pratica messa in atto negli anni Settanta e Ottanta da alcune dittature sudamericane di destra come quelle di Argentina, Brasile, Cile, Bolivia, Uruguay, con la collaborazione degli Stati Uniti, per eliminare ogni forma di opposizione tramite la violenza, la tortura e omicidi mirati. Nel corso dei decenni successivi i responsabili dell’operazione Condor furono condannati in vari processi in tutto il mondo.

Una manifestazione di alcune madri di desaparecidos tenuta il 12 dicembre 1985 di fronte al palazzo del governo argentino a Buenos Aires (AP Photo/Eduardo DiBaia)

Negli anni in Argentina si sono tenuti diversi processi che hanno riguardato i militari coinvolti nell’operazione Condor e i desaparecidos.

Nel 2012 Videla fu condannato dal tribunale federale di Buenos Aires a 50 anni di carcere, il massimo della pena prevista, per la pratica di dare in adozione i figli dei desaparecidos a militari e funzionari del regime. L’anno successivo invece si tenne un grosso processo sui desaparecidos nella provincia di San Juan, una regione nell’Argentina centrale al confine col Cile. Gli imputati del processo erano i dirigenti del Reggimento di Fanteria di Montagna 22 (chiamato nel gergo interno RIM22), cioè la divisione dell’esercito che era attiva nella provincia e a cui il comando centrale aveva dato l’ordine di occuparsi delle persone che identificava come “sovversive”.

I due capi del reggimento erano il colonnello Juan Bautista Menvielle e il tenente colonnello Adolfo Diaz Quiroga. Entrambi erano già morti ai tempi del processo. Gli altri cinque ufficiali che componevano lo stato maggiore erano i tenenti Carlos Luis Malatto e Jorge Antonio Olivera, il maggiore Arturo Ruben Ortega, il capitano Claudio Antonio Saenz e il sergente Alejandro V. Manuel Lazo, tutti ancora vivi.

Ai cinque ufficiali e ad altri componenti del RIM22 vennero contestati vari reati di tortura, omicidio, privazione illegittima della libertà, violenze sessuali e associazione illecita, sulla base delle testimonianze dei sopravvissuti e dei parenti di alcuni desaparecidos. Nella sentenza di condanna, emessa dal tribunale di San Juan, venne ricostruito il trattamento che il RIM22 riservava alle persone che arrestava per sovversione. La traduzione della sentenza è stata curata dall’associazione italiana 24 marzo, che si occupa delle vittime di violenza politica.

Nel RIM 22 le vittime furono sottoposte alle prime sessioni d’interrogatorio sotto tortura. Quasi tutti riferiscono dell’utilizzo di scariche elettriche nella «griglia», che viene descritta come un letto senza materasso, dove venivano legati mani e piedi. […] Il grado d’intensità delle torture aumentava gradualmente. Le vittime hanno descritto le prime come sessioni «di ammorbidimento»; venivano interrogati sempre sugli stessi aspetti (nomi dei compagni di militanza, luoghi delle riunioni, esistenza di armi, ecc., vincolati a gruppi ritenuti «sovversivi»). Dopo le torture – e sempre con gli occhi bendati – furono obbligati a firmare dichiarazioni che s’incorporavano ai fascicoli giudiziari istruiti per infrazione alla legge.

Dopo le torture e gli interrogatori, alcune persone passavano un periodo in carcere e venivano rilasciate: altre sparivano nel nulla. Olivera e Lazo vennero condannati rispettivamente all’ergastolo e a dieci anni di carcere, insieme ad altri membri di grado minore del RIM22, mentre Malatto non fu condannato: si trovava già in Italia, e poiché la legge argentina non prevede la possibilità di processare una persona se questa non è presente. Nelle 1.190 pagine della sentenza il suo nome veniva citato 296 volte.

Le autorità argentine consideravano comunque Malatto una figura centrale nel RIM22. Già nel 2011 avevano chiesto all’Italia di estradarlo in modo da poterlo processare. Dopo un complesso percorso giudiziario, nel 2014 la Corte di Cassazione italiana respinse la richiesta delle autorità argentine perché «la documentazione trasmessa non consente di desumere l’esistenza di seri elementi d’accusa a carico», come si legge nella sentenza. In pratica la Cassazione dubitava che le prove fornite dall’Argentina fossero sufficienti per condannare Malatto, nel caso di un’estradizione. L’Argentina ci ha riprovato nel 2022 con una nuova richiesta di estradizione, ma al contempo ha sperimentato anche un altro metodo.

Nel novembre del 2022 Federico Efrón, capo del dipartimento del ministero della Giustizia che si occupa di diritti umani, venne in Italia e consegnò alla procura di Roma circa 10mila pagine di documenti su Malatto, chiedendo esplicitamente una incriminazione nei suoi confronti. La procura di Roma stava già indagando da alcuni mesi dopo la denuncia di un’altra autorità argentina. «Le prove dimostrano come funzionava l’apparato repressivo e come funzionava il RIM22 dove si trovava Malatto a San Juan», disse Efrón ai giornalisti riuniti fuori dalla procura.

In Italia vivono anche alcuni parenti delle vittime del RIM22. Fra di loro c’era l’imprenditore argentino Mariano Biltes, che ha vissuto per vent’anni in Sicilia ed è morto di recente. Biltes era figlio di Jorge Biltes, un giornalista che nel 1976 venne catturato e torturato per quasi tre settimane dal RIM22. Mariano Biltes aveva scoperto solo alcuni anni fa di abitare a circa mezz’ora di auto da dove vive Malatto, e da allora aveva provato più volte a contattarlo.

Nel 2021 lo aspettò sotto casa sua a Furnari con una troupe della RAI della redazione Spotlight, tenendo in mano una vecchia foto di suo padre. Malatto non gli rispose e si sottrasse alle diverse domande di una giornalista che aveva accompagnato Biltes.

Diverse altri giornali e programmi televisivi italiani nel tempo hanno cercato di parlare con Malatto, senza ottenere risposte ufficiali. Nel 2019 ci provò Repubblica, che riprese Malatto a petto nudo sul suo balcone, senza ottenere un’intervista. Nello stesso anno Le Iene lo individuarono vicino alla sua barca, ormeggiata a poca distanza da casa. Anche in quel caso Malatto si rifiutò di commentare le accuse nei suoi confronti.

Malatto non è il primo militare sudamericano coinvolto nell’operazione Condor a subire un processo avviato da un’inchiesta aperta della procura di Roma: da circa un anno e mezzo è infatti in corso un processo a Jorge Nestor Troccoli, un militare italiano-uruguaiano rinviato a giudizio per l’omicidio di tre cittadini italiani, fra gli altri, alla fine degli anni Settanta in Uruguay.