• Italia
  • Giovedì 16 dicembre 2021

Un torturatore dell’operazione Condor potrebbe scampare alla condanna

Partecipò al piano delle dittature sudamericane per uccidere dissidenti e oppositori: è stato condannato all'ergastolo in Italia, ma potrebbe non finire mai in prigione

Commemorazione per i desaparecidos a Santiago del Cile (Foto Epa/Elvis Gonzalez)
Commemorazione per i desaparecidos a Santiago del Cile (Foto Epa/Elvis Gonzalez)

Pedro Antonio Mato Narbondo è un uomo di 80 anni, uruguayano di nascita ma oggi cittadino brasiliano, che lo scorso 27 luglio è stato condannato in via definitiva all’ergastolo dalla Corte di Cassazione italiana assieme ad altri 13 ex militari, poliziotti, membri dei servizi segreti e politici sudamericani, ritenuti responsabili di torture, sequestri di persona e omicidi nell’ambito del cosiddetto Plan Cóndor.

Il piano, noto in Italia come operazione Condor, fu messo in atto negli anni Settanta e Ottanta da alcune dittature sudamericane di destra come quelle di Argentina, Brasile, Cile, Bolivia, Uruguay, con la collaborazione degli Stati Uniti, per eliminare ogni forma di opposizione e dissenso tramite la violenza politica e omicidi mirati. Nel corso dei decenni successivi, i responsabili dell’operazione Condor sono stati condannati in vari processi in tutto il mondo, compreso quello che si è tenuto in questi anni a Roma e che si è concluso a luglio.

Per tutti i condannati al processo italiano (oltre ai 14 condannati in Cassazione ce ne sono altri condannati in appello e che non hanno presentato ricorso) è stata richiesta o sarà richiesta l’estradizione dai paesi in cui si trovano: attualmente soltanto uno dei condannati, il torturatore italio-uruguayano Jorge Nestor Troccoli, si trova in carcere, perché abitava in Italia al momento della condanna.

Ma di tutti i condannati Mato Narbondo, che i colleghi militari chiamavano “el burro”, il mulo, per la resistenza fisica dimostrata nel torturare le vittime, è quello che ha più probabilità di sfuggire all’estradizione: fino a oggi non ha mai fatto un giorno di carcere ed esiste la possibilità che non ne farà mai. Dal 2003 Mato Narbondo ha ottenuto infatti la cittadinanza brasiliana perché sua madre era nata a Santana do Livramento, nel Rio Grande do Sul, regione meridionale del Brasile. Oggi vive lì, protetto dall’articolo 5 della Costituzione del paese che impedisce l’estradizione di un cittadino brasiliano in un altro stato.

L’Italia presenterà comunque la richiesta di estradizione e il nome di Mato Narbondo è già stato segnalato da tempo all’Interpol. «Se non verrà estradato chiediamo che venga processato in Brasile per i suoi crimini. In Italia è stato riconosciuto colpevole di tortura e omicidio», dice al Post Jorge Ithurburu, presidente dell’associazione 24 marzo (un’associazione in difesa delle vittime della violenza politica il cui nome ricorda vari anniversari: 24 marzo 1944, data del massacro nazista alle Fosse Ardeatine; 24 marzo 1976, data del golpe in Argentina; 24 marzo 1980, data dell’assassinio di monsignor Oscar Romero a San Salvador).

Per alcuni degli altri condannati la richiesta di estradizione è già stata inviata ai paesi di origine; altre richieste saranno consegnate nei prossimi mesi.

La condanna di Mato Narbondo, come quella degli altri imputati coinvolti, rappresenta una novità importante. Il processo contro di lui e contro gli altri imputati coinvolti nell’operazione Condor – diventato noto come “processo Condor” – si è tenuto in Italia perché decine di vittime delle dittature sudamericane avevano origini italiane e avevano il doppio passaporto. Il procedimento giudiziario ha preso in esame la morte di 43 persone: 6 italo-argentine, 4 italo-cilene, 13 italo-uruguayane e 20 uruguayane. Di queste ultime si è occupata la giustizia italiana perché furono vittime di Nestor Troccoli, un militare italo-uruguaiano che da molti anni viveva libero a Battipaglia, in provincia di Salerno.

Jorge Ithurburu è stato, durante il processo Condor, procuratore speciale nominato da famiglie cilene, argentine e uruguayane perché coordinasse le molte parti civili. «È stato un processo fondamentale», dice, «perché ha riconosciuto l’esistenza di un piano criminale, il Plan Cóndor, messo in atto da diversi paesi, e poi perché nell’aula bunker di Rebibbia si sono ascoltate tante storie di persone che i dittatori avevano voluto cancellare, uccidere e poi far sparire. Molte famiglie hanno potuto conoscere il destino di parenti di cui, da un giorno all’altro, non avevano più saputo nulla».

Tra i testimoni ascoltati in aula c’è stata Cristina Mihura, vedova di Armando Bernardo Arnone, attivista di sinistra uruguayano sequestrato in Argentina: «Mio marito uscì di casa un mattino alle 7, a Buenos Aires, e non è più tornato». Arnone fu portato al centro di tortura Automotores Orletti, che gli aguzzini chiamavo el jardin, il giardino. Lì ad attenderlo c’era Mato Narbondo, capo delle squadre di tortura, colonnello dei FUSMA, Fucilieri della marina uruguayana in trasferta a Buenos Aires. Oltre che della morte di Arnone, Mato Narbondo è stato riconosciuto colpevole dell’omicidio di Gerardo Gatti, di quello di Juan Pablo Recagno Ibarburu e di quello di María Emilia Islas Gatti de Zaffaroni, tutti italo-argentini.

A processare i dittatori e i torturatori del Cono Sud, i paesi del Sud America che si trovano al di sotto del Tropico del Capricorno, ci aveva provato nel 1998 il giudice spagnolo Baltasar Garzón quando emise un mandato d’arresto internazionale nei confronti dell’ex dittatore cileno Augusto Pinochet per processarlo in Spagna per crimini commessi contro cittadini spagnoli. Arrestato in Inghilterra, Pinochet non venne però estradato e fece ritorno in Cile, dove morì da uomo libero nel 2006.

Al processo italiano si è arrivati dopo anni di indagini condotte, dalla fine degli anni Novanta, dal procuratore Giancarlo Capaldo che già indagava sulle morti di alcuni italo-cileni vittime della dittatura di Pinochet. Capaldo aprì poi un’indagine legata a omicidi e sparizioni di italiani avvenuti nell’ambito dell’operazione Condor. Il 10 luglio 2006 il magistrato unificò le inchieste, chiuse l’indagine ed emise 146 mandati di arresto contro civili e militari dei regimi di Argentina, Bolivia, Brasile, Cile, Paraguay, Perù e Uruguay.

Il processo cominciò nel 2015 e si è concluso in Corte di Cassazione il 21 luglio scorso. Nel frattempo molti degli imputati sono morti, tanti sono stati giudicati nei propri paesi. Nel processo italiano non erano presenti argentini perché un procedimento nei confronti dei militari accusati dell’elaborazione dell’operazione Condor si svolse nel 2016 e si concluse con la condanna di 16 imputati.

Cosa fu l’operazione Condor
Quella di Mato Narbondo è una storia simile a quella di molti altri militari e agenti dei servizi di sicurezza addestrati negli anni Settanta e Ottanta alla School of Americas (poi divenuta Istituto dell’Emisfero Occidentale per la Cooperazione e la Sicurezza) gestita dagli Stati Uniti a Panama, dove si diplomarono oltre 60mila militari e poliziotti dell’America Latina.

L’obiettivo americano era di addestrare gli allievi a tecniche dell’anti-guerriglia e più in generale a combattere con ogni mezzo le opposizioni di sinistra. Il senatore americano del Partito Democratico Martin Meehan disse che se la School of Americas avesse organizzato una cena di ex alunni avrebbe dovuto riunire alcuni dei più famigerati e pericolosi malfattori del’emisfero. Il giornale panamense La Prensa ha definito la School of Americas una «Scuola per assassini».

A Panama furono addestrati Leopoldo Fortunato Galteri, dittatore argentino, il dittatore boliviano Hugo Bazer Suarez, il salvadoreño Roberto D’Abuisson, fondatore degli squadroni della morte, Manuel Noriega, dittatore panamense, Raúl Iturriaga, vicedirettore della DINA, Direción de Intelligencia National, la famigerata polizia segreta di Pinochet.

Oltre a loro, nelle aule della School of Americas passarono migliaia di figure minori che costituirono negli anni Settanta e Ottanta il braccio armato delle dittature e la manovalanza utilizzata nell’operazione Condor, i cui membri, secondo varie stime, furono responsabili dell’omicidio di 50mila persone, della sparizione di 30mila persone  (i cosiddetti desaparecidos), e di 400mila carcerazioni per motivi politici.

L’inizio dell’operazione Condor viene fatto risalire a una riunione indetta da Manuel Contreras, uomo di fiducia di Pinochet e capo della DINA, nel febbraio del 1974. Parteciparono figure di spicco degli eserciti e delle polizie segrete di Cile, Bolivia, Brasile, Uruguay e Paraguay. C’erano anche militari argentini che avrebbero preso il potere nel 1976 con un colpo di stato ai danni di Isabelita Peron. L’obiettivo ufficiale del piano era di distruggere con ogni mezzo le formazioni guerrigliere che si battevano contro le dittature sudamericane.

Ben presto si rivelò un accordo criminale di collaborazione tra le polizie segrete per l’eliminazione di dissidenti: giornalisti, politici, studenti, intellettuali, docenti, militanti di partiti politici. Il piano, secondo quello che è emerso da numerose indagini e dagli archivi poi ritrovati, ebbe il beneplacito della CIA americana, la Central Intelligence Agency, intenzionata a reprimere movimenti o tendenze di sinistra che potessero danneggiare gli Stati Uniti nel contesto della Guerra Fredda.

Le polizie dei paesi che aderirono all’0perazione Condor condivisero informazioni, azioni e metodi di interrogatorio, tortura, carcerazione, sparizione. Alcuni luoghi di tortura divennero tristemente famosi: la ESMA, Escuela de Mecanica de la Armada di Buenos Aires, l’autofficina Orletti, sempre a Buenos Aires, dove il rumore dei motori serviva a coprire le urla dei torturati, la sede della FUSMA, Fucileros de Marina, a Montevideo, in Uruguay, Villa Grimaldi alla periferia di Santiago del Cile, Villa Baviera, meglio conosciuta come Colonia Dignidad, sempre in Cile.

La caccia agli oppositori non aveva confini: agenti uruguayani agivano in Argentina, boliviani in Cile, cileni in Paraguay e così via. Uccidevano e torturavano e poi nascondevano le prove, e cioè i corpi delle loro vittime. Al piano parteciparono formazioni paramilitari e criminali neofascisti e neonazisti di ogni parte del mondo. Stefano Delle Chiaie, fondatore di Avanguardia Nazionale, un gruppo neofascista e golpista italiano, quando era ricercato in Italia operava in Cile al servizio di Manuel Contreras. Si spostò poi anche in Argentina e Bolivia, sempre per partecipare ad azioni nell’ambito dell’operazione Condor.

Il piano non venne messo in atto solo nei paesi del Sud America. Orlando Leitner, ministro nel governo di Salvador Allende, il presidente contro cui i militari cileni misero in atto il colpo di stato, fu raggiunto da alcuni sicari a Roma, dove era fuggito, e venne gravemente ferito in un attentato.

Durante il golpe, l’Italia accolse moltissimi rifugiati cileni. Nelle ore successive al golpe dell’11 settembre 1973 l’ambasciatore Tommaso De Vergottini aprì le porte dell’ambasciata e diede riparo a centinaia di dissidenti in fuga. I militari cinsero d’assedio la rappresentanza diplomatica, gettarono anche il corpo di una ragazza uccisa all’interno per avere la scusa di intervenire, ma De Vergottini resistette. Dopo mesi venne aperto un corridoio umanitario e i rifugiati poterono raggiungere l’Italia.

A Washington fu ucciso, con un’autobomba, un altro ministro di Allende, Orlando Letelier. Per il suo omicidio, nel 1993, il capo della polizia segreta di Pinochet, Manuel Contreras, fu condannato a sette anni di carcere in Cile. I dissidenti che cercavano di far perdere le loro tracce nei paesi vicini non avevano scampo proprio a causa dell’operazione Condor.

Le storie delle vittime sono decine di migliaia. Alcune di queste sono state ascoltate in aula, nel processo italiano.

Come quella di Juan Montiglio, di origini piemontesi. Aveva 24 anni il giorno del colpo di Stato in Cile: era uno dei ragazzi del GAP, Gruppo di Amici del Presidente, che assieme a carabinieri e poliziotti si occupavano della scorta del “dottore”, come era chiamato Allende. Quando iniziò il bombardamento del palazzo presidenziale della Moneda, a Santiago, l’11 settembre 1973, i carabinieri se ne andarono, e restarono i membri del GAP e i poliziotti. Allende li salutò uno a uno prima di togliersi la vita: Montiglio e gli altri furono portati in una caserma e torturati per due giorni. I militari li condussero poi al poligono di tiro di Pendehue e fecero loro scavare una fossa profonda quattro metri. Li uccisero con colpi alla nuca e poi gettarono bombe a mano nella fossa per rendere i cadaveri irriconoscibili.

Salvador Allende esce dal palazzo della Moneda a Santiago del Cile la mattina del golpe, l’11 settembre 1973. L’uomo a destra, con il mitra, è Juan Montiglio. Venne arrestato, torturato, ucciso e gettato in una fossa comune dai militari che lanciarono nella fossa bombe a mano per distruggere i cadaveri

Per la morte di Montiglio a Roma è stato condannato all’ergastolo Ahumada Valderrama, capitano dell’esercito cileno, comandante del plotone d’esecuzione. Valderrama, assieme ad altri due militari cileni, Manuel Vasquez Chahuan e Orlando Moreno Basquez, è stato condannato anche per l’omicidio del sacerdote Omar Venturelli, visto per l’ultima volta il 25 settembre 1973 nella caserma Tucapel. Venturelli era stato sospeso a divinis (sospeso cioè dall’amministrazione dei sacramenti) dal vescovo Bernardino Piñera (zio dell’attuale presidente cileno, Sebastiàn Piñera) perché appoggiava la lotta degli indigeni Mapuche. Il ministero della Giustizia italiano ha chiesto l’estradizione dei tre militari cileni condannati.

Nell’aula bunker si è ascoltata anche la storia di Horacio Campiglia, anche lui di origine italiana, dirigente dell’organizzazione guerrigliera argentina dei Montoneros che, arrestato in Brasile, fu poi trasportato clandestinamente nel famigerato Campo de Mayo, a 30 chilometri da Buenos Aires, dove vennero detenute 5mila persone e ne sopravvissero solo 43. Al processo di Roma era presente la figlia di Horacio, Maria Campiglia, che ha ascoltato la testimonianza di Silvia Tolchinsky, cugina di Monica Pinus, la compagna di Campiglia.

Da Campo de Mayo, chiamato dai militari il campito, partivano anche i cosiddetti “voli della morte”. Un ex torturatore, Adolfo Scilingo, ufficiale dell’ESMA, ha raccontato in un libro, Il Volo, qual era la procedura. I prigionieri di cui si decideva l’eliminazione definitiva, chiamati trasladados (trasferiti), venivano radunati in un CDC, Centro di Detenzione Clandestina, e qui veniva detto loro che sarebbero stati trasferiti in un altro luogo. Quindi veniva fatta loro un’iniezione, spacciata per un vaccino contro le malattie, mentre in realtà si trattava di tiopental sodico, un forte anestetico. I detenuti venivano poi gettati vivi nell’oceano. Tutti i militari presenti sull’aereo dovevano prendere parte all’operazione. Al ritorno alla base trovavano ad aspettarli i cappellani militari che davano loro l’assoluzione.

Nel novembre del 2004 furono disseppelliti sei corpi senza nome in un piccolo cimitero vicino a Buenos Aires. Si scoprì che tutti i cadaveri erano stati trovati su una spiaggia nel dicembre del 1977. Appartenevano a sei donne che facevano parte dell’organizzazione delle Madri di Plaza de Mayo che, nell’aprile di quell’anno, aveva iniziato a protestare per avere notizie dei figli scomparsi. Erano state tutte vittime dello stesso volo della morte.

All’interno del campito c’era anche un ospedale militare. Lì venivano fatte partorire le detenute politiche: i loro bambini venivano presi e dati in adozione proprio ai loro torturatori. Sono stati almeno 500 i bambini argentini portati via alle madri e dati a famiglie legate alla dittatura. Le madri, ora nonne, di Plaza de Mayo, hanno combattuto a lungo per rintracciare i bambini rapiti.

Nei Centri di Detenzione Clandestina per anni ci furono violenze, torture, omicidi. Migliaia di donne furono violentate, donne e uomini subirono scariche elettriche, pestaggi, violenze di ogni tipo.

Molte di queste vicende furono ricostruite nel 1992 quando a Lambaré in Paraguay fu scoperto un archivio con un’enorme mole di comunicazioni tra i paesi dell’operazione Condor. Ci sono decine di migliaia di foto, schede, dati, riferimenti a prigionieri scomparsi o uccisi: fu chiamato l’Archivio del Terrore. Tra le schede c’è anche quella di Dora Marta Landi, argentina di origine italiana, militante di sinistra. Fu arrestata ad Assunción, in Paraguay, il 29 marzo 1977. Torturata dalla polizia paraguayana fu poi consegnata a quella argentina che con un volo militare la portò a Buenos Aires. Fu condotta all’ESMA e consegnata all’ufficiale di marina Alfredo Astiz: lui la fece salire su uno dei voli della morte.

Alfredo Astiz durante un processo (AP Photo/Rolando Andrade Stracuzzi).

Al processo di Roma hanno testimoniato anche donne e uomini che non sono di discendenza italiana. Sono stati ascoltati perché a essere di origine italiana era, in questo caso, il loro torturatore, l’uruguayano Jorge Nestor Troccoli. Rosa Barriox, di Montevideo, ha raccontato che fu torturata mentre aspettava un bambino. Troccoli, capo della squadra di aguzzini disse: «Non è vero, dicono tutte così quando le torturiamo».

Troccoli era allora un giovane ufficiale della Marina uruguayana. Nell’ambito dell’operazione Condor fu mandato a Buenos Aires e prestò servizio all’ESMA. Nel 1996, quando il suo nome finì sui giornali, scrisse una lettera a El Pais dal titolo Yo asumo Yo acuso (Io ammetto, Io accuso), in cui si definiva «professionista della violenza» e diceva di aver agito «come compete a una persona che fa il suo lavoro». Ha anche scritto un libro nel suo paese, L’ira del Leviatano. Nel 2007, quando in Argentina si aprì un processo contro di lui, Troccoli fuggì in Italia, dove era nata sua madre. Secondo la legge uruguayana non è possibile processare nessuno in contumacia, per questo il tribunale italiano ha potuto procedere anche per le sue vittime che non avevano origine italiana.

La foto segnaletica di Jorge Nestro Troccoli

Il 10 luglio Troccoli è stato prelevato dai carabinieri a Battipaglia, dove viveva, e portato nel carcere di Salerno. Deve scontare l’ergastolo. Durante la sua deposizione davanti ai giudici ha detto che aveva solo obbedito agli ordini.

La stessa cosa l’ha detta Pedro Antonio Mato Narbondo in un’intervista rilasciata a un giornale brasiliano: «Ero un militare, eseguivo gli ordini, era un periodo di guerriglia». Ha concluso l’intervista con questa frase: «Era un periodo, e tutto questo è rimasto nel passato». Al termine del processo che ha condannato all’ergastolo Mato Narbondo, Troccolo e altre 22 persone, Pietro Gaeta, procuratore della Corte di Cassazione, ha detto: «È una sentenza storica. Abbiamo dato alle vittime memoria e giustizia. È un atto contro la barbarie».