Le cose false e fuorvianti dette da Meloni in conferenza stampa

Nel consueto appuntamento di fine anno ci sono state diverse inesattezze: sull'economia, sulle riforme e su primati che non lo erano

(ANSA/RICCARDO ANTIMIANI)
(ANSA/RICCARDO ANTIMIANI)
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Giovedì alla Camera la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ha tenuto la tradizionale conferenza stampa di fine anno. Era inizialmente prevista per il 21 dicembre, ma è stata rinviata più volte a causa di alcuni problemi di salute di Meloni, poi risolti. In poco più di tre ore ha risposto a oltre 40 domande fatte dai giornalisti presenti: ha affrontato molti argomenti dicendo anche diverse cose sbagliate, fuorvianti o poco accurate.

I temi economici sono stati forse quelli su cui ci sono stati più errori. Meloni ha rivendicato i buoni risultati raggiunti dall’economia italiana in un contesto internazionale particolarmente complesso a causa dell’inflazione, delle guerre in corso in Ucraina e nella Striscia di Gaza e dei tassi d’interesse più alti rispetto al recente passato. Tra le altre cose ha detto che per quest’anno «la crescita italiana è stimata comunque, e questo è un dato secondo me buono, superiore alla media europea»: è falso. Le ultime analisi della Commissione Europea, diffuse a metà novembre, stimavano una crescita media nell’Unione Europea dell’1,3 per cento per il 2024. Nelle stesse proiezioni, la Commissione prevedeva una crescita del prodotto interno lordo (PIL) italiano pari allo 0,9 per cento: dunque quasi mezzo punto percentuale in meno rispetto alla media europea.

Commentando le scelte del governo in materia finanziaria, Meloni ha detto: «Abbiamo diminuito le tasse tagliando la spesa pubblica». Non è così. La diminuzione delle tasse decisa dal governo è per lo più dovuta alla conferma per il 2024 del taglio del cuneo fiscale e contributivo, cioè a una riduzione delle imposte e dei contributi che si applicano sugli stipendi dei lavoratori. Il governo ha fatto anche altri tagli legati all’IRPEF, l’imposta sul reddito delle persone fisiche, che però vengono compensati dagli aumenti di altre tasse e dalla soppressione di alcuni sostanziosi incentivi per le imprese.

Ma l’inesattezza più evidente nella frase di Meloni riguarda il fatto che non è vero che questa (temporanea) riduzione delle tasse è stata finanziata tramite tagli alla spesa pubblica. Al contrario: secondo le previsioni del ministero dell’Economia e delle Finanze, in termini assoluti nel 2024 la spesa pubblica dovrebbe aumentare di oltre 15 miliardi di euro rispetto al 2023, passando da 880 a 895 miliardi. Il taglio del cuneo fiscale, che nel complesso vale poco più di 10 miliardi, è semmai finanziato in deficit, cioè ricorrendo a un maggiore indebitamento nel bilancio dello Stato rispetto alle previsioni per il 2024.

Meloni insieme al ministro dell’Economia Giorgetti (Mauro Scrobogna/LaPresse)

Sempre a proposito di fisco, Meloni è tornata sulla tassa sui cosiddetti extraprofitti bancari, ossia sui maggiori guadagni ottenuti dalle banche grazie all’aumento dei tassi di interesse sui mutui e prestiti che si è visto nell’ultimo anno. La presidente del Consiglio ha detto che il suo è stato «il primo governo che ha avuto il coraggio di fare una tassazione sulle banche». L’affermazione è infondata semplicemente perché non c’è stata alcuna tassazione alle banche. Quella che era stata presentata come una tassa è in realtà diventata un incentivo per le banche a rafforzare il proprio patrimonio, e al momento nessuna banca ha versato un euro di maggiori tasse allo stato.

Lo stesso ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, ha rivendicato di non avere mai considerato l’effetto di questa misura sull’aumento delle entrate nelle casse dello Stato, riconoscendo dunque che la tassa ha un effetto nullo in termini di gettito fiscale.

Il desiderio di esaltare il ruolo del proprio governo come «il primo» ad avere preso alcune scelte ha indotto Meloni a dire almeno altre due cose inesatte. La prima riguarda la riforma dell’autonomia differenziata, che è in discussione al Senato e punta ad assegnare alle regioni alcuni dei poteri e delle competenze che ora sono in capo allo Stato: Meloni ha detto che il suo governo è l’unico che sta «lavorando sui livelli essenziali delle prestazioni», ma non è vero. I livelli essenziali delle prestazioni (LEP) sono i servizi minimi che lo Stato deve garantire in ogni parte del suo territorio per alcuni settori fondamentali (scuola, trasporti e sanità, per esempio), e definirli e finanziarli sono due premesse necessarie per poter avviare la reale riforma dell’autonomia. Sui LEP hanno lavorato per anni vari governi prima di quello Meloni, a partire dal 2001. Lo ha spiegato lo scorso novembre in un’audizione al Senato anche Sabino Cassese, un illustre giurista nominato dal governo Meloni a presiedere proprio il Comitato per l’individuazione dei livelli essenziali delle prestazioni.

Un discorso simile vale per altre due materie su cui secondo Meloni il suo governo sarebbe stato il primo ad agire. «Questo governo ha fatto un lavoro che curiosamente nessuno aveva inteso fare prima, che è la mappatura delle nostre coste», ha detto la presidente del Consiglio. Il riferimento è all’annosa questione della messa a gara della concessioni balneari, su cui l’Italia rischia nelle prossime settimane di essere sanzionata dalla Commissione Europea. In realtà vari tipi di mappatura delle coste italiane sono stati realizzati almeno a partire dal 2016.

Meloni ha anche ricostruito la vicenda che ha portato a fine dicembre al voto contrario della Camera sulla ratifica della riforma del Meccanismo europeo di stabilità (MES), cioè il fondo europeo a cui possono ricorrere gli Stati e le banche dei paesi che adottano l’euro in caso di difficoltà economica. «Se noi vogliamo guardare il bicchiere mezzo pieno, forse la mancata ratifica della modifica del Trattato da parte dell’Italia può diventare un’occasione per trasformare questo strumento in qualcosa che possa essere più efficace di quello che è oggi», ha detto Meloni. Il suo partito, Fratelli d’Italia, ha contribuito insieme alla Lega e al Movimento 5 Stelle a far bocciare la ratifica.

In realtà, non c’è nulla che lasci presupporre che l’effetto anche indiretto della mancata ratifica possa portare a una modifica del MES, soprattutto perché tutti gli altri 19 Stati che aderiscono al meccanismo hanno già ratificato da tempo la riforma. Anzi, tutti i principali dirigenti delle strutture europee legate al MES hanno sempre detto il contrario, in questi mesi: solo dopo la completa ratifica del nuovo trattato, cioè dopo che l’Italia si sarà adeguata al resto dell’Europa, si potrà avviare un altro eventuale processo di riforma.

Meloni al Quirinale col presidente della Repubblica Mattarella, il 13 luglio 2023 (Paolo Giandotti/LaPresse)

Meloni ha poi parlato della riforma costituzionale promossa dal suo governo per introdurre il “premierato”, cioè un sistema che aumenta i poteri del presidente del Consiglio. Meloni ha più volte detto che questa riforma non tocca e non ridimensiona in alcun modo i poteri del presidente della Repubblica, ma non è proprio così. Oggi infatti il presidente della Repubblica ha la facoltà di nominare il presidente del Consiglio, mentre la riforma voluta dal governo prevede che il presidente del Consiglio venga eletto direttamente dai cittadini.

In caso di crisi del governo, poi, attualmente il presidente della Repubblica può nominare un nuovo presidente del Consiglio affidandogli l’incarico di formare un nuovo governo e ottenere la fiducia in parlamento anche da una maggioranza diversa da quella precedente. Se venisse approvata la riforma della Costituzione voluta dal governo di Meloni, questi poteri verrebbero meno. E lo stesso vale per la facoltà di nominare i senatori a vita, cioè senatori che il capo dello Stato nomina tra coloro che hanno contribuito al prestigio del paese: figure che la riforma costituzionale intende eliminare.

Altre cose false riguardano questioni diverse dall’economia. Meloni ha replicato a una recente polemica del leader del Movimento 5 Stelle, Giuseppe Conte, che ha chiesto le dimissioni di molti esponenti del governo indagati nell’ambito di alcune inchieste giudiziarie. Tra questi ci sono la ministra del Turismo, Daniela Santanchè, e il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Delmastro. La presidente del Consiglio però ha detto di non avere applicato in passato il principio in base al quale si chiedono le dimissioni di esponenti politici coinvolti in vicende giudiziarie prima che si arrivi a una sentenza definitiva. In realtà Meloni, quando era all’opposizione, ha chiesto più volte le dimissioni di ministri indagati, come nel caso delle ministre Federica Guidi e Maria Elena Boschi nel 2016 e nel 2017, quando erano in carica i governi di centrosinistra rispettivamente di Matteo Renzi e di Paolo Gentiloni.

Meloni ha poi commentato il caso di Marcello Degni, il magistrato della Corte dei Conti che di recente ha pubblicato un tweet in cui si rammaricava per l’atteggiamento troppo accomodante delle opposizioni tenuto in parlamento in occasione dell’approvazione della legge di bilancio. «Potevamo farli sbavare di rabbia», ha scritto Degni il 30 dicembre: le sue parole hanno comprensibilmente scatenato una certa polemica politica, dal momento che la Corte dei Conti è un organismo costituzionale che vigila sulla buona gestione del bilancio dello Stato e sulla legittimità degli atti del governo.

Meloni ha detto di essere rimasta molto colpita dal fatto che «non ci sia stato nessuno a sinistra a dire due parole su questo tema». In realtà alcuni esponenti del Partito Democratico hanno criticato le parole di Degni. Tra questi c’è il senatore Filippo Sensi, il cui intervento è significativo in relazione a quello che Meloni ha detto. La presidente del Consiglio tra le altre cose ha infatti parlato del silenzio sulla questione di Paolo Gentiloni, attuale commissario europeo per gli Affari economici e monetari, perché fu proprio il governo presieduto da Gentiloni a volere la nomina di Degni alla Corte dei Conti. Sensi è un parlamentare storicamente molto vicino a Gentiloni.