La tassa sugli “extraprofitti” delle banche è diventata un’altra cosa

Il decreto che la introduce è stato convertito in legge dal parlamento, con una forma diversa rispetto a come l'aveva pensata il governo

Meloni e il ministro dell'Economia, Giorgetti (ANSA/RICCARDO ANTIMIANI)
Meloni e il ministro dell'Economia, Giorgetti (ANSA/RICCARDO ANTIMIANI)

Dopo l’approvazione del Senato la scorsa settimana, giovedì anche la Camera ha approvato il decreto-legge cosiddetto “Asset”, che ora è stato convertito in legge. Contiene alcune misure molto diverse tra loro, tra cui anche la discussa tassa sugli “extraprofitti” delle banche, ossia sui maggiori guadagni ottenuti grazie all’aumento dei tassi di interesse sui mutui e prestiti che si è visto nell’ultimo anno. Questo aumento era stato determinato a sua volta dagli aumenti dei tassi di interesse decisi dalla Banca Centrale Europea per fermare l’inflazione. Dall’approvazione in parlamento la misura esce piuttosto depotenziata rispetto alle intenzioni iniziali del governo: sono cambiati i parametri su cui si calcola la tassa e le banche possono persino scegliere di non pagarla, a certe condizioni.

In origine prevedeva che le banche avrebbero dovuto pagare il 40 per cento sulla differenza tra il margine di interesse ottenuto nel 2023 rispetto a quello del 2021. Il margine di interesse è la differenza tra i tassi di interesse che vengono pagati alla banca dai suoi clienti, come quelli sui mutui ai privati e sui prestiti alle imprese, e quelli che la banca paga a chi le presta i soldi, come i tassi sui depositi e sui conti correnti. L’importo comunque non poteva superare un certo limite per non gravare troppo sui conti delle banche: non poteva essere più dello 0,1 per cento dell’attivo del bilancio della banca, ossia l’insieme di tutti i suoi asset, come crediti, titoli finanziari, immobili e così via.

Con la conversione in legge sono cambiati i parametri. La tassa è sempre pari al 40 per cento del margine di interesse, ma l’importo non può superare lo 0,26 per cento dell’attivo, a cui è sottratto però il valore dei titoli di Stato posseduti dalla banca. Le banche italiane ne hanno in quantità consistente, quindi è probabile che l’importo massimo della tassa scenderà. Inoltre le banche potranno scegliere di non pagarla, a condizione che investano due volte e mezzo il valore che avrebbero dovuto pagare in operazioni di rafforzamento del loro bilancio.

In più, la legge dice che le banche non potranno scaricare i maggiori costi della tassa sui clienti. Vigilerà su questo l’Antitrust, come viene definita comunemente l’Autorità garante della concorrenza e del mercato. Non è chiaro come possa farlo, ma il richiamo alla vigilanza risponde a una delle maggiori critiche che erano state fatte a questa tassa, ossia che potesse aumentare i costi per i clienti delle banche, per esempio con maggiori commissioni sui conti correnti.

È un’eventualità realistica perché il mercato bancario italiano è caratterizzato dalla presenza di grandi gruppi bancari e da una concorrenza limitata: questo significa che le banche hanno la possibilità di tenere alti i costi senza temere di perdere clienti. E questo si è visto anche nell’ultimo anno, dato che le banche italiane hanno scaricato ampiamente il costo dell’aumento dei tassi di interesse sui clienti.

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È probabile che con queste modifiche lo Stato non raccoglierà poi molto in termini di gettito: in origine erano stati ipotizzati 3 miliardi di euro, da destinare al fondo per i mutui sulla prima casa e per la riduzione delle tasse sul lavoro. Con questi nuovi parametri 3 miliardi sono un obiettivo poco concreto, anche se il governo ci contava molto per finanziare in parte la legge di bilancio per il prossimo anno, per la quale non ci sono molti soldi.

Oltre a essere necessaria per reperire risorse, la tassa sugli “extraprofitti” delle banche aveva anche una grossa valenza politica. L’aumento del costo dei mutui è un problema che ha inciso molto sulla vita delle persone, per cui il governo aveva pubblicizzato ampiamente questo provvedimento. La presidente del Consiglio Giorgia Meloni l’aveva più volte definita come una misura di equità sociale contro i «margini ingiusti» delle banche e necessaria per raccogliere risorse in modo da aiutare le persone in difficoltà coi rincari delle rate del mutuo. Di quella misura ora resta poco.

La tassa era stata molto criticata dagli osservatori italiani e internazionali, da un grosso pezzo del mondo finanziario, dall’opposizione e anche da una parte della maggioranza di governo. E le critiche ci furono sia per i potenziali rischi per il sistema finanziario che per il metodo con cui era stata introdotta.

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La misura era stata annunciata a sorpresa in conferenza stampa dal vicepresidente del Consiglio Matteo Salvini, in modo un po’ frettoloso e senza che fosse presente il ministro dell’Economia per spiegarne i dettagli. Il giorno dopo i titoli delle banche italiane avevano avuto grossi cali in borsa non solo perché era una misura inattesa, ma anche perché se ne sapeva poco. Inoltre non erano state neanche consultate le principali associazioni bancarie, che nelle settimane successive si erano lamentate del modo con cui lo erano venute a sapere e su come era scritta la norma.

Anche alcuni alleati di governo, soprattutto Forza Italia, erano rimasti infastiditi dalle modalità di comunicazione. In un’intervista rilasciata nei giorni successivi Meloni, incalzata su quanto fossero stati coinvolti gli altri membri del governo e sui presunti conflitti interni alla maggioranza dovuti alla misura, aveva rivendicato di averla decisa da sola. In particolare il leader di Forza Italia, il ministro degli Esteri Antonio Tajani era sembrato il più risentito per il fatto di non aver partecipato alla decisione. Nelle settimane successive aveva più volte detto che una volta in parlamento il provvedimento sarebbe stato attenuato.

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