Cos’è questo “premierato”, e perché ne sentiremo parlare a lungo

Il governo ha presentato un disegno di legge per introdurre l'elezione diretta del presidente del Consiglio, ma realizzarlo sarà complicato

(Foto Roberto Monaldo / LaPresse)
(Foto Roberto Monaldo / LaPresse)
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Venerdì il Consiglio dei ministri ha approvato un disegno di legge di riforma costituzionale che ha l’obiettivo di introdurre il cosiddetto “premierato”, cioè una proposta di legge che intende modificare la Costituzione soprattutto per rafforzare i poteri del presidente del Consiglio e per introdurre la sua “elezione diretta”. La Costituzione italiana prevede che alle elezioni politiche i cittadini eleggano i membri del parlamento, che poi a loro volta danno il proprio sostegno a un governo e quindi al presidente del Consiglio. Con la nuova riforma invece sarebbero i cittadini a scegliere direttamente il presidente del Consiglio con il loro voto alle elezioni.

Il disegno di legge approvato in Consiglio dei ministri verrà ora trasmesso al parlamento, dove dovrà essere discusso ed eventualmente approvato. L’iter in ogni caso sarà lungo e richiederà molti mesi: prima di essere votato, quindi, il testo potrebbe subire ancora diverse modifiche. L’approvazione di leggi che modificano la Costituzione, inoltre, ha procedure assai più lunghe di quelle ordinarie e ha bisogno di un appoggio in parlamento più ampio di quello richiesto abitualmente: non è insomma detto che il disegno di legge completi tutto il percorso fino a diventare legge, ma è invece piuttosto certo che se ne parlerà ancora per molto.

Il disegno di legge presentato dal governo è composto da cinque articoli: quattro indicano le effettive modifiche al testo della Costituzione, mentre il quinto contiene le cosiddette “norme transitorie”, quelle che servono a rendere più graduale il passaggio dalle leggi precedenti a quelle successive. Entrerebbe in vigore a partire dalla prossima legislatura, cioè dopo le prossime elezioni politiche.

Il primo articolo elimina la nomina dei senatori a vita: attualmente è prevista dall’articolo 59 della Costituzione, in base al quale il presidente della Repubblica può nominare senatori a vita fino a cinque «cittadini che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario». I partiti di destra sono da molti anni contrari ai senatori a vita, il cui peso nelle votazioni del Senato è peraltro aumentato da quando è stato ridotto il numero dei senatori con il referendum del 2020, da 315 a 200. Nella conferenza stampa in cui ha presentato il disegno di legge, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha chiarito che questa modifica non riguarderebbe gli attuali senatori a vita, che potranno quindi arrivare fino alla fine del proprio mandato (cioè mantenere la carica fino alla loro morte). La Costituzione prevede inoltre che tutti gli ex presidenti della Repubblica diventino automaticamente senatori a vita: questo aspetto non verrebbe modificato dalla riforma.

Il secondo articolo elimina la facoltà del presidente della Repubblica di sciogliere una sola delle due camere. È una possibilità contenuta nell’articolo 88 della Costituzione, ma non è mai stata esercitata da alcun capo dello Stato: nella storia repubblicana Camera e Senato sono sempre state sciolte insieme.

Il terzo e il quarto articolo del disegno di legge sono invece quelli che contengono le modifiche più sostanziali e su cui si fonda la riforma. Modificano l’articolo 92 e l’articolo 94 della Costituzione e introducono la figura del presidente del Consiglio “eletto”, «a suffragio universale e diretto per la durata di cinque anni». Sarebbe una novità molto grossa.

In base alla Costituzione italiana le elezioni politiche sono finalizzate al rinnovo del parlamento: sulla base degli equilibri politici emersi dal voto, e alle sue valutazioni personali, il presidente della Repubblica ha poi il compito di individuare il possibile presidente del Consiglio. Dev’essere una persona in grado di ricevere il sostegno di una maggioranza parlamentare solida, per il suo governo e per il programma che intende realizzare.

Il governo e il parlamento hanno quindi durate e mandati ben distinti: un governo può cadere perdendo la fiducia della maggioranza dei parlamentari in una delle due camere, ma il parlamento non decade. Anzi, può esprimere la propria fiducia a un nuovo governo, cosa che accade spesso in questi casi. Il mandato del parlamento termina dopo cinque anni, cioè allo scadere naturale della legislatura, oppure se il presidente della Repubblica decide di sciogliere le camere: succede quando constata che non c’è più possibilità di formare una maggioranza politica stabile per sostenere un nuovo governo.

Se la riforma voluta dal governo di Meloni entrasse in vigore, tutto questo cambierebbe in modo molto netto. Secondo il testo approvato in Consiglio dei ministri, il presidente della Repubblica non dovrebbe più nominare il presidente del Consiglio, che verrebbe invece eletto direttamente dai cittadini. I cittadini voterebbero in un’unica scheda elettorale sia per l’elezione del presidente del Consiglio che per il rinnovo delle Camere. La legge elettorale che regolerebbe elezioni di questo genere dovrà eventualmente essere elaborata in seguito, ma la proposta del governo anticipa già che dovrebbe garantire «il 55 per cento dei seggi nelle camere alle liste e ai candidati collegati al presidente del Consiglio dei ministri». Le forze politiche uscite vincenti dalle elezioni avrebbero insomma in ogni caso almeno il 55 per cento dei seggi in parlamento, in modo da garantire una maggioranza abbastanza ampia al presidente del Consiglio eletto. Significherebbe però introdurre un consistente premio di maggioranza, cioè un bonus per chi vince le elezioni: una possibilità che in passato è già stata fortemente criticata dalla Corte Costituzionale.

Un’altra novità è che il presidente del Consiglio dovrà essere necessariamente un parlamentare: attualmente chiunque può essere nominato presidente del Consiglio. Il presidente della Repubblica non avrebbe più il potere di “nominare” il presidente del Consiglio, ma soltanto quello di conferirgli l’incarico di formare il governo. Manterrebbe invece il compito di nominare i ministri, su proposta del presidente del Consiglio: come avviene oggi.

La riforma prevede poi modifiche sostanziali alla procedura con cui ogni governo deve ottenere la fiducia dalle camere entro dieci giorni dalla sua formazione. Attualmente, se un governo appena formato non ottiene la fiducia, il presidente della Repubblica ha poteri piuttosto ampi: può rinnovare il mandato allo stesso presidente del Consiglio oppure avviare nuove consultazioni coi partiti politici, per nominare poi un nuovo presidente del Consiglio. Con la nuova riforma, se il presidente del Consiglio eletto e il suo governo non ottengono la fiducia delle camere, queste vengono subito sciolte e si torna a votare.

Un’altra importante modifica riguarderebbe l’eventualità che un governo perda la fiducia del parlamento nel corso della legislatura, o le dimissioni di un presidente del Consiglio. Oggi in questi casi si procede a cercare una nuova maggioranza parlamentare: nella scorsa legislatura, per esempio, lo stesso parlamento ha sostenuto prima un governo formato da Lega e Movimento 5 Stelle, poi uno formato da Partito Democratico, Italia Viva e Movimento 5 Stelle e infine il governo di Mario Draghi sostenuto da una coalizione di partiti ancora più ampia.

La riforma introdurrebbe invece un meccanismo diverso, che renderebbe impossibili processi di questo genere. È quella che in questi giorni giornali e politici hanno chiamato “norma anti-ribaltone”: in caso di caduta del governo il presidente della Repubblica potrebbe conferire l’incarico di formarne uno nuovo solo al presidente del Consiglio dimissionario o a un altro parlamentare «in collegamento al presidente eletto». Un eventuale nuovo presidente del Consiglio potrebbe insomma essere individuato solo tra i parlamentari eletti nello stesso partito o nella stessa coalizione di maggioranza di quello precedente. Un avvicendamento di questo genere in ogni caso potrebbe avvenire solo una volta nel corso di una legislatura: se il governo cadesse di nuovo si andrebbe subito a elezioni.

È una norma inserita su suggerimento del leader della Lega Matteo Salvini, ma su cui negli ultimi giorni diversi importanti esponenti della maggioranza hanno espresso molte perplessità. È quindi molto probabile che ci saranno discussioni per modificarla.

La riforma è comunque ancora molto lontana dall’approvazione: il parlamento ha già molte scadenze da qui alla fine dell’anno, e l’esame potrebbe partire verosimilmente non prima del 2024. A quel punto comincerà una procedura lunga e complessa, come prevede l’articolo 138 della Costituzione sulle leggi di revisione costituzionale. Ogni camera dovrà votare il disegno di legge due volte, a distanza di almeno tre mesi l’una dall’altra. Nel secondo turno di votazioni sarà necessaria la maggioranza assoluta sia della Camera sia del Senato: quella calcolata sul numero totale dei parlamentari eletti, e non solo sul numero di quelli presenti in aula (maggioranza semplice).

Per essere approvata immediatamente la legge di revisione costituzionale ha bisogno del voto favorevole di due terzi delle camere: se otterrà più del 50 per cento ma meno dei due terzi ne potrà essere richiesta la conferma tramite referendum popolare. Meloni ha già detto di essere intenzionata a ricorrere al referendum, se si rendesse necessario. D’altra parte al momento è molto difficile che una riforma del genere ottenga una maggioranza di due terzi: al di là della coalizione di destra solo Italia Viva di Matteo Renzi si è detta favorevole alla riforma, ma da sola non basterebbe a garantire il raggiungimento della soglia.