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  • Lunedì 25 dicembre 2023

Quando c’è un problema di ostaggi, bisogna andare in Medio Oriente

Negli ultimi anni Turchia, Qatar, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita hanno un ruolo sempre maggiore in negoziati, accordi e scambi di prigionieri

Il presidente russo Vladimir Putin, a destra, e quello turco Recep Tayyip Erdogan, a settembre del 2023 a Sochi, in Russia (Sergei Karpukhin, Sputnik, Kremlin Pool Photo via AP)
Il presidente russo Vladimir Putin, a destra, e quello turco Recep Tayyip Erdogan, a settembre del 2023 a Sochi, in Russia (Sergei Karpukhin, Sputnik, Kremlin Pool Photo via AP)
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È dai tempi della Guerra fredda che così tanti cittadini statunitensi non erano tenuti prigionieri o presi in ostaggio in paesi ritenuti ostili: soltanto negli ultimi tempi in Russia sono stati fatti prigionieri l’ex marine Paul Nicholas Whelan e il giornalista Evan Gershkovich, corrispondente del Wall Street Journal. Fino a pochi mesi fa, inoltre, si trovava nelle carceri russe la cestista Brittney Griner: per riaverla, gli Stati Uniti hanno dovuto organizzare uno scambio di prigionieri con uno dei peggiori trafficanti di armi della storia recente: il russo Viktor Bout.

L’aumento dei casi in cui cittadini statunitensi sono presi prigionieri o in ostaggio è un serio problema per gli Stati Uniti, ma è anche un’opportunità per alcuni stati del Medio Oriente che riescono con successo a proporsi come mediatori e negoziatori grazie a una politica diplomatica ambigua, che consente loro di intervenire in grosse crisi internazionali. Nel corso della Guerra fredda questo ruolo era spesso destinato a paesi neutrali dell’Europa centrale, come la Svizzera o l’Austria. Oggi i nuovi mediatori sono altri, tra cui Turchia, Qatar, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita, che stanno assumendo un ruolo sempre più centrale sia nelle crisi che riguardano gli ostaggi sia in molte altre situazioni in cui è necessario un mediatore il più possibile neutrale: è quello che sta succedendo, per esempio, con la guerra nella Striscia di Gaza.

Gli esempi di questa tendenza sono numerosi. Nell’aprile del 2022 la Turchia mediò un inaspettato scambio di prigionieri tra Russia e Stati Uniti: lo scambio fu fatto all’aeroporto di Ankara, la capitale della Turchia, con il monitoraggio di funzionari dell’intelligence turca: fu un’operazione delicata, complessa e segreta, particolarmente notevole dal punto di vista diplomatico dato che proprio per via della guerra in Ucraina le relazioni tra Russia e Stati Uniti sono tese come non lo erano da decenni.

Mesi dopo, a settembre del 2022, sempre la Turchia, questa volta insieme all’Arabia Saudita, mediò una lunga trattativa che si concluse con il più grosso scambio di prigionieri tra Russia e Ucraina dall’inizio della guerra: coinvolse circa 300 persone tra ucraini, russi e combattenti stranieri. Ancora più recentemente, la Turchia e in questo caso soprattutto il Qatar hanno invece mediato i negoziati per la prima tregua tra Hamas e Israele, che ha permesso lo scambio reciproco di centinaia di ostaggi e prigionieri.

Nel caso della Turchia, il ruolo di mediazione è emerso soprattutto con la guerra in Ucraina: la Turchia fa parte della NATO, l’alleanza militare che comprende buona parte dei paesi occidentali, ma ha ottimi rapporti con la Russia e con il presidente Vladimir Putin. La Turchia vende all’Ucraina droni da combattimento, ma allo stesso tempo, aggirando alcune restrizioni occidentali, esporta in Russia una serie di strumenti che l’esercito utilizza a sua volta nei suoi sforzi militari, come microchip, apparecchiature per le comunicazioni e pezzi di ricambio che possono essere utilizzati anche per le armi.

La Turchia mantiene insomma una posizione intermedia tra i due paesi in guerra e i rispettivi alleati, e nell’arco dell’ultimo anno mezzo in più occasioni ha utilizzato questa posizione per permettere alle due parti di ottenere qualcosa, guadagnando influenza.

Lo si è visto anche con il cosiddetto accordo sul grano (che in realtà riguarda generalmente cereali e altre derrate alimentari), raggiunto tra Russia e Ucraina a luglio del 2022 dopo lunghi e complessi negoziati mediati proprio dalla Turchia oltre che dall’ONU: una volta raggiunto l’accordo il presidente turco Recep Tayyip Erdogan disse, riferendosi ai paesi occidentali: «Hanno fatto solo provocazioni e non si sono sforzati di fare da mediatori nella guerra tra Russia e Ucraina» (l’accordo è poi saltato nel settembre di quest’anno).

Relativamente agli scambi di prigionieri, la mediazione della Turchia è stata resa possibile soprattutto dall’attuale ministro degli Esteri Hakan Fidan, definito dal Wall Street Journal «la mano nascosta della diplomazia turca degli ostaggi»: Fidan ha una lunga carriera nell’intelligence ed è molto stimato per le sue capacità anche fuori dalla Turchia.

Fidan iniziò la sua carriera nell’esercito turco e poi nella NATO, in un’unità nata per gestire con breve preavviso situazioni di crisi; diresse per un po’ l’Agenzia turca di cooperazione e coordinamento, occupandosi di fatto di cooperazione internazionale, e poi divenne il capo dell’intelligence nazionale turca (l’Organizzazione nazionale d’intelligence, il MIT), il più giovane della storia della Turchia, a 42 anni. Ha lasciato l’incarico lo scorso giugno, nominato ministro degli Esteri dopo la vittoria di Erdogan alle ultime elezioni. Fidan ha sempre mantenuto un profilo piuttosto basso, dando poche interviste e non apparendo troppo: ma è stato lui a coordinare lo scambio di prigionieri tra Reed e Yaroshenko nella primavera del 2022, il primo scambio di prigionieri di questa rilevanza gestito dalla Turchia.

Il ministro degli Esteri turco Hakan Fidan (AP Photo/Jacquelyn Martin)

Nel caso del Qatar, uno stato piccolo petrolifero con enormi ricchezze, l’influenza guadagnata negli ultimi tempi ha diverse ragioni. Da un lato c’è il lavoro dell’emiro Tamim bin Hamad Al Thani, al potere da dieci anni e da sempre interessato a dare al Qatar un ruolo di primo piano nella politica globale: quest’opportunità è arrivata soprattutto con la guerra nella Striscia di Gaza, che gli ha permesso, ha scritto Foreign Policy, di raggiungere «un profilo superiore a quello di qualsiasi altro leader arabo da molto tempo a questa parte». In Qatar vivono poi alcuni dei leader di Hamas, ha sede un ufficio commerciale di Israele (che di fatto funziona come una specie di ambasciata) e una base militare statunitense.

Il Qatar è uno dei pochi paesi arabi ad avere linee di comunicazione aperte sia con Israele che con Hamas. Più in generale negli ultimi anni ha mantenuto in più occasioni canali di comunicazione aperti in modo parallelo con paesi o blocchi di paesi molto ostili tra loro, guadagnando potere negoziale con entrambe le parti nel caso di un conflitto e diventando, ha scritto il New Yorker, «uno dei negoziatori di ostaggi più richiesti al mondo».

L’emiro del Qatar Tamim bin Hamad Al Thani (AP Photo/Jacquelyn Martin, Pool, File)

Gli Emirati Arabi Uniti, d’altra parte, sono stati il luogo in cui un anno fa è stato effettuato lo scambio di prigionieri tra Russia e Stati Uniti che ha coinvolto la cestista statunitense Brittney Griner, in prigione in Russia da alcuni mesi con accuse di traffico di droga, e il noto trafficante di armi Viktor Bout, che stava scontando una lunga pena negli Stati Uniti. Lo scambio è stato effettuato in un aeroporto di Abu Dhabi, la capitale del paese.

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