Il paradosso della carne

Quasi tutti amano gli animali, quasi tutti li mangiano: come si spiega questa dissonanza cognitiva?

paradosso carne
L’interno di un ristorante ad Atlanta, il 22 ottobre 2013 (AP Photo/David Goldman)
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Nel 2016 uno studio del dipartimento di psicologia dell’Università di Oslo, pubblicato sulla rivista scientifica Appetite, analizzò attraverso diversi esperimenti i modi in cui le persone tendono a dissociare la carne di cui si nutrono dalle sue origini animali. La disponibilità a mangiarla, scoprirono i ricercatori, cambia a seconda di vari fattori che agiscono sulla nostra empatia e sul nostro disgusto: per esempio il modo in cui la carne viene presentata (se trasformata o non trasformata, con la testa dell’animale o senza), e anche le parole utilizzate per parlarne (usare “manzo” anziché “mucca”, “produzione” anziché “macellazione”).

Confermando un’impressione abbastanza comune, lo studio appurò che molte persone amano mangiare carne, ma amano allo stesso tempo gli animali non umani e non vogliono causargli dolore. Attraverso una serie di processi psicologici inconsci e pratiche culturali evitano quindi di affrontare questa «dissonanza cognitiva»: un fenomeno noto nella ricerca scientifica di riferimento come «paradosso della carne», che si riflette inevitabilmente su altri fenomeni su più ampia scala.

Uno tra questi è che, sebbene gli argomenti etici per non mangiare carne siano oggi conosciuti e popolari molto più di quanto lo fossero cinquant’anni fa, la macellazione di animali aumenta di anno in anno, e non soltanto come conseguenza dell’aumento della popolazione e della ricchezza in paesi molto popolosi, in precedenza troppo poveri per permettersi la carne. È in aumento anche in paesi ad alto reddito come gli Stati Uniti, ha fatto notare sull’Atlantic il filosofo australiano Peter Singer, autore nel 1975 di Liberazione animale, uno dei libri più citati in assoluto nel dibattito sui diritti degli animali.

Nello specifico è in aumento il consumo di pollame: che dal punto di vista del benessere degli animali «è anche peggio», osserva Singer. Per produrre la stessa quantità di carne bisogna infatti uccidere più uccelli, spesso allevati in condizioni di maggiore sovraffollamento rispetto a quanto succeda con le mucche. «Non avrei mai potuto prevedere che lo stile di vita vegano e quello carnivoro potessero crescere di pari passo nella stessa società», ha scritto Singer, riflettendo sull’influenza del suo libro e sintetizzando la conseguenza più evidente e significativa del paradosso della carne.

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L’allora primo ministro del Regno Unito David Cameron dà da mangiare a un agnello in una fattoria a Chadlington, in Inghilterra, il 5 aprile 2015, due giorni prima delle elezioni generali (AP Photo/Leon Neal)

L’espressione “paradosso della carne” risale a uno studio pubblicato nel 2010 su Appetite dagli psicologi australiani Steve Loughnan, Nick Haslam e Brock Bastian. Esiste un «conflitto psicologico», scrissero, tra il gusto alimentare delle persone per la carne e la loro risposta morale alla sofferenza degli animali. Da un lato proviamo empatia verso gli animali, ma dall’altro la nostra architettura cognitiva è strutturata in modo da dare priorità ai cibi ad alto contenuto calorico, indipendentemente da altre valutazioni. E per un’ampia parte della storia umana questo ha significato mangiare carne.

Per risolvere questo conflitto, secondo Loughnan, Haslam e Bastian, le persone applicano una serie di soluzioni. La prima è smettere di mangiare carne, banalmente, in modo da non provare più sentimenti negativi determinati dall’incoerenza tra l’amore per gli animali e il cibarsene. Un’altra è indebolire attraverso diverse abitudini e pratiche umane consolidate – tra cui l’agricoltura aziendale su larga scala – la relazione tra gli animali e la carne, offuscare quella relazione attraverso i vari processi lungo la catena di produzione, in modo da non mettere sullo stesso piano il manzo ordinato al ristorante e le mucche che pascolano. E un altro modo ancora di risolvere la dissonanza cognitiva, suggerì lo studio, è privare gli animali di uno status morale e negare la loro capacità di soffrire.

Per una parte dello studio del 2010 Loughnan, Haslam e Bastian somministrarono alcuni questionari distinti a due gruppi di persone. A entrambi i gruppi fecero credere che il questionario oggetto dello studio riguardasse la valutazione di uno snack (qualità come tenerezza, dolcezza e sapidità): a un gruppo fu assegnato uno snack a base di carne secca, all’altro degli anacardi. Successivamente, in un questionario aggiuntivo e non correlato, in cui era richiesto di reinserire da capo i dati demografici, ai partecipanti fu chiesto di valutare le loro preoccupazioni morali verso una varietà di animali come cani, galline e scimpanzé, e di stimare quanto siano senzienti e intelligenti le mucche. I risultati mostrarono che i partecipanti che avevano mangiato carne secca avevano valutato le mucche come meno senzienti e meno intelligenti, e avevano espresso preoccupazioni morali per un minor numero di animali, rispetto al gruppo che aveva mangiato anacardi.

La scoperta centrale dello studio fu che la scelta di mangiare carne induce tendenzialmente le persone a preoccuparsi meno sia degli animali in generale che dell’animale che hanno mangiato, e a negare a quell’animale requisiti neurofisiologici associati alla capacità di soffrire. Questo risultato fu considerato molto importante e in parte sorprendente. Mentre le ricerche precedenti avevano infatti dimostrato che la volontà di mangiare carne può essere ridotta dalla preoccupazione morale per gli animali, lo studio di Loughnan, Haslam e Bastian fu il primo a dimostrare sperimentalmente il processo inverso: mangiare animali porta a una minore preoccupazione morale. Ed è correlato anche a un restringimento del gruppo di animali meritevoli di considerazione morale.

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Altri studi nel corso dell’ultimo decennio hanno confermato molte delle osservazioni di Loughnan, Haslam e Bastian. In uno degli esperimenti dello studio del 2016 dell’Università di Oslo, citato all’inizio dell’articolo, le pietanze a base di carne trasformata resero i partecipanti meno empatici nei confronti dell’animale macellato rispetto alle pietanze a base di carne non trasformata. Questo comportamento fu considerato compatibile con i risultati di uno studio precedente secondo cui, per il consumatore medio – che non prende parte alle varie fasi della macellazione dell’animale –, l’acquisto di carne in una fase avanzata della trasformazione facilita il processo di dissociazione tra la carne e l’animale.

In un altro esperimento dello studio del 2016, per le stesse ragioni di dissociazione, la vista di un intero maiale arrosto evocò minori empatia e disgusto nei casi in cui l’animale era stato presentato senza la testa. E questo rese i partecipanti più disposti a mangiare l’arrosto e meno disposti a considerare alternative vegetariane. La vista di un animale vivo in una pubblicità di carne, invece, aumentò l’empatia verso l’animale, il disgusto per la carne e la disponibilità a scegliere un piatto vegetariano alternativo. E lo stesso risultato fu ottenuto sperimentalmente quando nel menu del ristorante la parola “manzo” veniva sostituita con “mucca”.

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Due dipendenti di un ristorante trasportano per strada un cartellone pubblicitario a Pechino, in Cina, il 12 ottobre 2017 (AP Photo/Mark Schiefelbein)

Consapevoli del paradosso della carne, diverse associazioni contro il maltrattamento degli animali da allevamento sono impegnate da anni nel cercare di raggiungere obiettivi realistici e a breve termine, e cioè migliorare le condizioni degli animali e minimizzarne le sofferenze. L’imprenditore inglese Rob Percival, autore del libro The Meat Paradox: Eating, Empathy, and the Future of Meat, è responsabile delle politiche alimentari della Soil Association, un’organizzazione non profit inglese che sostiene le pratiche di agricoltura biologica, un maggiore benessere degli animali e un minore consumo di carne.

Percival, che non è vegano, trascorre molto del suo tempo conducendo campagne contro la pratica dell’allevamento intensivo, ma sostiene che gli animali dovrebbero continuare a svolgere un ruolo nel sistema agricolo e alimentare, benché molto più limitato e umano di quello attuale. E ritiene che il paradosso della carne sia un importante fattore nell’eccesso nel consumo mondiale di carne: eccesso che è a sua volta un importante acceleratore del cambiamento climatico.

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Nel suo libro Percival racconta un aneddoto a proposito della dissociazione cognitiva tra carne e animali, e della tendenza delle persone a non porsi domande sulla condizione dell’essere un animale da macello. In una conversazione da lui avuta con Charles Way, responsabile della garanzia della qualità dei prodotti della catena di fast food KFC nel Regno Unito e in Irlanda, Way gli disse di essere orgoglioso degli standard di benessere degli animali utilizzati nella filiera di KFC. E Percival gli chiese: «Se sapessi di dover rinascere pollo, preferiresti davvero nascere in una fattoria della filiera di KFC piuttosto che in una qualsiasi altra azienda agricola nel Regno Unito?».

Way gli rispose di no, che in quel caso non farebbe differenza per lui il fatto che gli standard di KFC siano migliori rispetto alla media nel settore. «E se sapessi che rinascerai pollo, [oggi] mangeresti meno pollo?», gli chiese dopo. E Way non rispose.

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Un’insegna di un ristorante a Londra, l’8 aprile 2006 (Daniel Berehulak/Getty Images)

Percival cita poi un altro argomento a volte utilizzato dalle persone onnivore, in diverse varianti, per ridurre la dissonanza cognitiva e risolvere il paradosso della carne. E cioè l’idea che esista una relazione simbiotica reciprocamente vantaggiosa tra persone e bestiame, una sorta di «antico contratto» interspecifico: un’espressione tratta dal titolo di un articolo pubblicato nel 1989 dallo scrittore e storico statunitense Stephen Budiansky, e da lui poi ripresa nel libro The Covenant of the Wild: Why Animals Chose Domestication.

Secondo questa idea gli animali forniscono cibo e indumenti agli esseri umani in cambio dell’addomesticamento, e la possibilità di avere nutrimento e rifugio rappresenterebbe per loro l’opportunità di avere successo sul piano evolutivo rispetto ad altre specie. Alcuni studiosi e scrittori che hanno ripreso e reso nota in tempi più recenti l’idea dell’antico contratto, tra cui il giornalista statunitense Barry Estabrook, sostengono che l’attuale allevamento industriale di animali ne sia una violazione. Ma secondo Percival alla base di questa idea del contratto c’è comunque un’illusione: «Nessun singolo animale ha approvato i termini dell’accordo».

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La presenza del paradosso della carne nella società, come ha scritto Singer sull’Atlantic, non è in sé una condizione che impedisca qualsiasi cambiamento nel rapporto tra gli esseri umani e gli animali da bestiame. Nei decenni successivi alla pubblicazione di Liberazione animale il movimento per il benessere degli animali ha ottenuto importanti riforme, specialmente in Europa, dove una direttiva dell’Unione Europea in vigore dal 2012, per esempio, vieta l’allevamento di galline ovaiole nelle batterie (gabbie grandi all’incirca come un foglio A4).

«Questi cambiamenti sono ben lontani da ciò che è necessario, ma garantiscono a centinaia di milioni di animali una vita migliore», ha scritto Singer. Inoltre alcune prove sperimentali suggeriscono che le argomentazioni etiche abbiano oggi, rispetto al passato, maggiori probabilità di influenzare le persone e la loro decisione di non contribuire alla morte né alla sofferenza degli animali. Singer ha citato in particolare uno studio condotto nel 2016 e pubblicato nel 2020 sulla rivista Cognition, in cui fu coinvolto dagli altri due autori e colleghi, i filosofi statunitensi Eric Schwitzgebel e Bradford Cokelet.

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Una cliente in attesa in un ristorante di carne australiana a Pechino, in Cina, il 28 agosto 2020 (AP Photo/Ng Han Guan)

Lo studio cercò di misurare quanto le lezioni universitarie di etica filosofica influenzassero le scelte morali degli studenti nella realtà. Schwitzgebel, Bradford e Singer divisero casualmente in due gruppi uguali un gruppo di 1.032 studenti di quattro grandi classi di filosofia della University of California, Riverside. Assegnarono a entrambi i gruppi il compito di leggere e discutere un articolo di filosofia: un articolo sull’etica del consumo di carne, a un gruppo, e uno sull’etica della beneficenza, all’altro. Controllarono quindi le scelte alimentari degli studenti dopo quella lezione, potendo consultare le ricevute degli acquisti nelle mense e nei ristoranti del campus da parte degli studenti della Riverside che avevano utilizzato la loro tessera universitaria personale per pagare i pasti (495 su 1.032).

I risultati dello studio mostrarono che il consumo di carne era rimasto invariato tra i partecipanti del gruppo di controllo, cioè quello che si era occupato dell’articolo sull’etica della beneficenza, ma era leggermente diminuito nel gruppo che aveva discusso di etica sugli animali. Un successivo studio, pubblicato nel 2019, ottenne risultati simili utilizzando una lezione non sulla sofferenza degli animali ma sul ruolo del consumo di carne nel riscaldamento globale. E quei risultati furono confermati anche a tre anni di distanza dalla lezione.

Un altro dei fattori che rafforzano il paradosso della carne è l’influenza reciproca tra le persone, anche quelle che si dicono contrarie alla sofferenza degli animali ma continuano a mangiare carne. Diversi noti esperimenti di psicologia sul conformismo all’interno dei gruppi sociali, condotti fin dagli anni Cinquanta, mostrano come le convinzioni e opinioni della maggioranza possano condizionare le valutazioni e persino le percezioni degli individui.

Riferendosi alle persone onnivore che gli dicono di essere d’accordo con lui, Singer ha scritto che la maggior parte delle persone può continuare a fare qualcosa che ritiene sbagliato purché ci siano altre persone che lo fanno. E quelle che approvano la sua scelta e le sue riflessioni in realtà è come se dicessero «che hanno a cuore il benessere degli animali e il cambiamento climatico, ma non modificheranno le loro abitudini individuali finché non lo faranno tutti gli altri».

I risultati di alcuni referendum negli Stati Uniti secondo Singer suggeriscono che le argomentazioni etiche siano effettivamente prese in considerazione dalla popolazione, ma che l’effetto di quelle argomentazioni sia più potente a livello di cambiamenti politici sostenuti dall’elettorato, più che di cambiamenti nelle abitudini di acquisto al supermercato. Molte persone pensano che le loro azioni individuali contino poco e niente nel complesso, ha scritto Singer, ma quando viene data loro l’opportunità di esprimere un voto su proposte che riguardano il trattamento degli animali la maggioranza è poi spesso favorevole all’approvazione di leggi che migliorano le condizioni degli animali e riducono le opzioni di acquisto della carne.