Quanta carne può mangiare il mondo?

Una quota drasticamente più bassa di quella attuale ma più distribuita globalmente potrebbe essere più sostenibile rispetto a una dieta che ne sia interamente priva

consumo carne sostenibile
Un particolare del dipinto “Mietitura” del pittore olandese Pieter Bruegel il Vecchio, del 1565 (Wikimedia)

Ridurre il consumo di carne – attualmente vicino e in alcuni casi superiore a 100 chilogrammi pro capite all’anno, nei paesi ad alto reddito – è da tempo considerato uno dei comportamenti individuali più utili per limitare le emissioni di gas serra e mitigare il riscaldamento globale. Questa considerazione, largamente accettata all’interno della comunità scientifica e nel dibattito sul cambiamento climatico, può portare in alcuni casi a una conclusione intuitiva ma che è meno condivisa e più problematica: l’idea che un’ipotetica dieta del tutto priva di carne, se seguita in tutto il mondo, e tralasciando ogni valutazione di tipo etico o sulla concreta realizzabilità di questa ipotesi, sarebbe la scelta migliore sul piano delle conseguenze per l’ambiente.

Analizzando i diversi consumi di acqua e di energia necessari per la produzione del cibo, la disponibilità e l’estensione delle terre attualmente coltivabili nel mondo e la diversa capacità dei diversi tipi di carne di convertire l’energia in nutrimento per gli esseri umani, numerose ricerche hanno messo in discussione negli ultimi anni l’ipotesi che una completa eliminazione della carne dalle diete comporterebbe un più efficiente utilizzo delle risorse del pianeta. E sostengono piuttosto che un limitato e omogeneo consumo di carne nel mondo – purché la limitazione sia molto cospicua e purché la carne provenga da allevamenti subordinati a particolari condizioni – possa avere un impatto ambientale preferibile.

La ricerca sugli effetti ambientali della produzione degli alimenti è considerato un ambito di studi in espansione ma, in generale, basato su stime di dati molto difficili da misurare. Esiste tuttavia un generale accordo sul fatto che il consumo attuale di carne nel mondo sia ampiamente al di sopra del livello sostenibile in termini di impatto ambientale. Gli studi suggeriscono inoltre che raggiungere quel punto di equilibrio richiederebbe in ogni caso enormi cambiamenti nel modo in cui il bestiame viene oggi allevato, oltre che un cambiamento drastico delle abitudini alimentari di molta parte dei paesi occidentali.

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Una delle principali ragioni del maggiore impatto ambientale della produzione di carne rispetto a quello della coltivazione delle piante, in linea generale, è che per gli esseri umani sarebbe più efficiente mangiare le piante direttamente anziché darle da mangiare al bestiame. Ma per avere un’idea delle implicazioni teoriche di un qualsiasi intervento radicale sull’attuale produzione alimentare globale occorre considerare il valore dell’energia, dei mezzi e dei combustibili fossili coinvolti nell’agricoltura in generale: dal carburante necessario a fondere il ferro da usare per le macchine da campo e quelle per il trasporto e per la lavorazione degli alimenti, al gas naturale che funge sia da materia prima che da combustibile per la sintesi di fertilizzanti azotati. Come sintetizzava l’ecologo statunitense Howard Thomas Odum negli anni Settanta, «le persone nella parte del mondo sviluppata non mangiano più patate ricavate dall’energia solare», ma «mangiano patate fatte in parte di petrolio».

Si stima che il 38 per cento della superficie terrestre sia utilizzato come terreno agricolo, e che di questa porzione circa un terzo sia destinato alle coltivazioni mentre i restanti due terzi sono costituiti da prati e pascoli per il bestiame. Non è detto però che quei pascoli rappresentino quote di terreno sottratte agli esseri umani per possibili raccolti, ha scritto il giornalista scientifico canadese Bob Holmes in un articolo sulla rivista Knowable Magazine in cui ha citato alcuni studi recenti sul possibile impatto ambientale di un limitato consumo di carne.

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C’è da considerare che i ruminanti – mammiferi al pascolo come bovini, pecore e capre – sono dotati di più stomaci e, diversamente dagli esseri umani, sono in grado di digerire la cellulosa contenuta nell’erba, nella paglia e in altre sostanze vegetali convertendola in proteine animali che gli umani possono assumere. Molta parte di quei due terzi di terreno agricolo nel mondo destinato al pascolo è terreno troppo ripido, arido o marginale per essere adatto alle colture. «Quella terra non può essere utilizzata per nessun altro scopo di coltivazione alimentare diverso dall’uso del bestiame di ruminanti», ha detto a Knowable Magazine Frank Mitloehner, docente della facoltà di Scienze animali presso la University of California, Davis.

Ovviamente sarebbe possibile ottenere un significativo beneficio ambientale lasciando che il terreno oggi destinato ai pascoli torni a far parte della foresta naturale o della vegetazione delle praterie a cui apparteneva in precedenza, contribuendo quindi ad assorbire più anidride carbonica e a contrastare gli effetti del riscaldamento globale. Ma questa possibilità non è ritenuta necessariamente incompatibile con il mantenimento di una quantità di pascoli, secondo ricerche che descrivono l’espansione dell’uso di metodi di allevamento diversificati nel sud-est degli Stati Uniti come una misura in grado di determinare «migliori risultati ambientali e servizi ecosistemici».

Il bestiame potrebbe innanzitutto utilizzare scarti delle colture come la crusca e altri avanzi della macinazione del grano, da cui si ricava farina bianca, o della macinazione dei semi di soia, da cui si ricava l’olio. Che è una delle ragioni per cui, fa notare Mitloehner, il 20 per cento delle mandrie da latte degli Stati Uniti si trova nella valle centrale della California, dove le mucche si nutrono in parte di scarti della frutta, noci e altre colture. Scarti del cibo, insetti e altre cose che la maggior parte delle persone non mangerebbe potrebbero essere utilizzati per nutrire anche maiali e polli, che non sono ruminanti e non possono digerire la cellulosa.

Secondo Hannah van Zanten, ricercatrice dell’Università di Wageningen nei Paesi Bassi ed esperta di sistemi alimentari sostenibili, «un mondo completamente senza carne» richiederebbe circa un terzo di terreno coltivato in più, per nutrire tutte le persone, e di conseguenza più fertilizzanti e pesticidi, e un maggiore utilizzo di combustibili fossili per il carburante delle macchine necessarie per la coltivazione.

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Altri benefici del bestiame, purché allevato nelle giuste quantità e in modo da ridurre l’impatto ambientale, sono legati al fatto che la carne e i prodotti caseari forniscono agli esseri umani proteine bilanciate e altri nutrienti più difficili da ottenere soltanto tramite un’alimentazione a base vegetale. Considerazione che vale specialmente nel caso della parte di popolazione mondiale più povera, che non ha accesso a un’ampia varietà di verdure fresche e ad altri alimenti, ha spiegato a Knowable Magazine Matin Qaim, docente tedesco di economia agroalimentare all’Università di Bonn.

Secondo Qaim, il bestiame è la principale fonte di ricchezza per molte famiglie nelle culture pastorali tradizionali. In quei contesti, gli animali che pascolano e poi depositano il letame nell’aia sono parte di un ciclo in cui quei nutrienti sono riutilizzati come fertilizzante. E il bestiame domestico può inoltre svolgere un ruolo chiave in alcuni ecosistemi del mondo ripristinando in parte le funzioni di altre specie animali autoctone oggi non più dominanti, come i bisonti nelle praterie americane, luoghi che si sono evoluti e adattati in funzione della presenza di quegli animali.

Nel libro del 2013 Should We Eat Meat?, per ricavare una stima approssimativa ma stabile di un ipotetico consumo di carne che potremmo considerare «sostenibile», il ricercatore canadese di origini ceche Vaclav Smil, docente di scienze ambientali alla University of Manitoba a Winnipeg, in Canada, poneva come ipotesi di partenza una serie di condizioni: l’interruzione di ogni pratica di deforestazione per creare nuovi pascoli, la riconversione in foresta o altra vegetazione naturale di un quarto dei pascoli esistenti e un nutrimento del bestiame da allevamento il più possibile a base di foraggio, residui di colture e altri avanzi (comunque alimenti non mangiati dagli esseri umani). A queste condizioni, secondo Smil, la produzione di carne sostenibile sarebbe stata sufficiente a produrre circa due terzi della carne che il mondo produceva all’epoca, nel 2013, stima rivista al ribasso in tempi più recenti da altri studiosi e dallo stesso Smil.

Nel libro del 2020 I numeri non mentono, Smil scrisse che la sostenibilità del consumo di carne dipende anche da un radicale cambiamento nei rapporti tra le diverse carni prodotte, tenendo conto che la carne bovina ha un impatto ambientale molto superiore rispetto a quella di maiale e di pollo. Esistono infatti alcuni evidenti vantaggi nell’allevamento di animali dotati di un metabolismo molto efficiente, soprattutto i polli broiler, il nome con cui vengono indicati i pulcini (sia maschi che femmine) allevati specificamente in funzione della produzione di carne.

Nessun altro animale di terra addomesticato è oggi in grado di convertire il mangime in carne più efficientemente del pollame, grazie ai progressi compiuti nel campo delle tecniche di allevamento. Secondo dati citati da Smil, pubblicati dal dipartimento per l’agricoltura degli Stati Uniti riguardo al rapporto di conversione del mangime in carne, nei polli broiler sono necessarie 1,7 unità di nutrimento (standardizzato in termini di mangime a base di mais) per produrre un’unità di peso nell’animale vivo. Per ottenere lo stesso aumento di peso sono invece necessarie quasi 5 unità di nutrimento per i suini e quasi 12 unità per i bovini.

Parte di quell’aumento di peso è costituito da ossa, pelle e budella, e quindi il peso commestibile sul totale del peso dell’animale vivo varia poi molto a seconda della specie allevata per la produzione di carne (circa il 60 per cento nel pollo, il 53 nel maiale e il 40 nel manzo). Ricalcolando il rendimento degli allevamenti in termini di unità di carne commestibile, secondo i calcoli di Smil, sono necessarie circa 3-4 unità di mangime per unità di carne commestibile nel caso del pollo, da 9 a 10 nel maiale, e da 20 a 30 per il manzo. L’efficienza media di conversione del mangime in carne è rispettivamente del 15, 10 e 4 per cento.

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«Nel 2018 il maiale, il pollo e il manzo incidevano rispettivamente per il 40, il 37 e il 23 per cento della produzione mondiale di circa 300 milioni di tonnellate di carne», scrisse Smil. Portando quel rapporto a 40, 50 e 10 per cento, secondo lui, potremmo risparmiare in mangime limitando la produzione di manzo e «ottenere facilmente il 20 per cento in più di maiale e il 30 di pollo, riducendo di oltre la metà l’impatto ambientale dovuto all’allevamento del manzo, e contemporaneamente offrire una produzione complessiva maggiore del 10 per cento». Il totale della carne prodotta in questo modo si avvicinerebbe intorno a 350 milioni di tonnellate all’anno, pari a circa 25-30 chilogrammi di peso netto in carne commestibile (disossata) per ciascuna delle persone (7,75 miliardi) del pianeta all’inizio del 2020.

Sarebbe un vantaggio in termini nutrizionali, aggiunse Smil. Presupponendo una componente proteica pari al 25 per cento del totale, «l’apporto annuale di 25-30 chilogrammi di carne commestibile fornirebbe quasi 20 grammi di proteine complete al giorno». Significherebbe il 20 per cento di proteine in più rispetto alla media attuale, «con un impatto ambientale nella fase di produzione enormemente ridotto, e con tutti i benefici per la salute e la longevità propri di un regime alimentare moderatamente carnivoro».

Una quantità di 25-30 chilogrammi di carne è più o meno vicina a quella consumata ogni anno da una persona giapponese, ma molto lontana dalla quantità consumata in molti paesi ad alto reddito, ha scritto Smil nel recente libro How the World Really Works. Una cospicua riduzione del consumo di carne in quei paesi potrebbe idealmente rendere la carne disponibile per «miliardi di persone in Asia e Africa il cui consumo di carne rimane minimo e la cui salute trarrebbe beneficio da diete che ne includano di più».

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Anche secondo van Zanten, la ricercatrice olandese sentita da Holmes per l’articolo su Knowable Magazine e coautrice di un citato studio del 2018 pubblicato sulla rivista Global Change Biology, stabilendo come condizione che nessun raccolto commestibile per gli esseri umani sia dato da mangiare al bestiame, sarebbe possibile arrivare a produrre carne e latticini a sufficienza da permettere a ciascuna persona l’assunzione di circa 20 grammi di proteine da fonti animali terrestri al giorno. La fornitura media globale di proteine da animali terrestri – escluso il pesce – nel 2017 era di 27 grammi al giorno a persona, con differenze significative tra i paesi (la media in Europa era 51 grammi, nell’Africa occidentale 8 grammi).

Il tentativo di definire una soglia di sostenibilità del consumo di carne è complicato in generale dalla necessaria considerazione di altri fattori. Prima di tutto, ha detto van Zanten, la quantità totale di carne o latticini prodotti in modo sostenibile dipende fortemente dagli altri alimenti che le persone decidono di mangiare. Seguire un’alimentazione a base di cereali integrali, per esempio, lascia a disposizione degli animali meno residui di macinazione di quanto avverrebbe seguendo invece diete ricche di cereali raffinati. E anche scelte particolari nella produzione degli alimenti destinati agli esseri umani, come per esempio l’olio di colza preferito all’olio di soia, possono indirettamente lasciare pasti meno nutrienti per gli animali.

La prospettiva di una produzione e di un consumo sostenibili di carne, ha aggiunto van Zanten, sarebbe comunque possibile soltanto a patto di cambiare completamente gran parte delle infrastrutture. Servirebbe, per esempio, costruire sistemi per la raccolta, la sterilizzazione e la trasformazione dei rifiuti domestici alimentari, in modo da ottimizzare il flusso di avanzi destinati a maiali e polli. E «gran parte della nostra attuale agricoltura animale, basata su bestiame nutrito con cereali in allevamenti, dovrebbe essere abbandonata, causando notevoli disagi economici», ha scritto Knowable Magazine.

La sostenibilità della carne sarebbe inoltre ipotizzabile a condizione di ridurre nei bovini le emissioni di metano, un potente gas serra, attraverso rutti e flatulenze. Diversi scienziati stanno da tempo studiando alcune possibili soluzioni a questo problema – diete particolari per le mucche, per esempio – ma ciascuna delle soluzioni previste tende a ripercuotersi su altri fattori e a condizionare altri dati, tra cui il tasso di crescita degli animali, rendendo ulteriormente complicati i tentativi di calcolare una soglia di sostenibilità del consumo di carne.

Secondo alcuni esperti di sostenibilità, le emissioni di metano potrebbero comunque essere un problema a lungo termine meno preoccupante di quanto si pensasse in precedenza, ovviamente a condizione che i pascoli non aumentino di numero. Il metano contribuisce al riscaldamento globale 80 volte di più rispetto all’anidride carbonica sul breve termine, ha scritto Holmes su Knowable Magazine. Tuttavia rimane nell’atmosfera soltanto per una decina di anni mentre l’anidride carbonica rimane nell’atmosfera per secoli, rendendo gli effetti di ogni nuova emissione più preoccupanti sul piano dell’emergenza climatica a lungo termine.

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Altri esperti di cambiamento climatico, conclude Holmes, ritengono che i calcoli proposti dai loro colleghi e dalle loro colleghe riguardo alla possibile soglia di sostenibilità del consumo di carne nel mondo rischino di suggerire comportamenti inappropriati rispetto all’attuale situazione di emergenza. E ritengono che, considerando i consumi attuali di carne, esistano buone ragioni per ridurre quei consumi ben al di sotto di ciò che è ritenuto sostenibile.

Eliminare completamente gli allevamenti del bestiame, per esempio, permetterebbe una riconversione in vegetazione autoctona relativamente rapida di alcuni tipi di terreno attualmente destinato a colture e pascoli, secondo Matthew Hayek, docente del dipartimento di studi ambientali alla New York University. Nel giro di 25-30 anni, secondo Hayek, gli effetti ambientali del ripristino di quegli ecosistemi potrebbero compensare un decennio di emissioni globali inquinanti. E per raggiungere obiettivi di questo tipo, servono «politiche aggressive, sperimentali e audaci, non quelle che cercano di ridurre marginalmente il consumo di carne del 20 o addirittura del 50 per cento».