Vincenzo Nibali è stato sia antico che contemporaneo
Ha corso domenica la sua ultima corsa da professionista, dopo aver vinto tanto e soprattutto correndo come pochissimi altri intorno a lui
Vincenzo Nibali ha corso domenica il Giro di Lombardia, la sua ultima gara da ciclista professionista. Ha concluso così una carriera durante la quale è diventato il miglior ciclista italiano di questo secolo e uno dei migliori di sempre. Nibali è infatti uno dei sette corridori, l’unico italiano dopo Felice Gimondi, ad aver completato la cosiddetta tripla corona, che spetta a chi vince Vuelta di Spagna, Giro d’Italia e Tour de France, i tre grandi giri a tappe. A questi, Nibali ha aggiunto inoltre le vittorie di tre cosiddette “classiche monumento”: due Giri di Lombardia e una Milano-Sanremo.
Il numero delle vittorie (52) e la qualità di molte di esse è però solo una parte di quel che Nibali è stato per il ciclismo. Anzitutto, Nibali ha saputo diventare il punto di riferimento del ciclismo italiano dopo Marco Pantani, che morì nel 2004, un anno prima che lui diventasse professionista. Era difficilissimo, vista l’unicità dell’atleta e del personaggio che fu Pantani e quanto Nibali era diverso. «Non ha l’aura da arcangelo caduto, non ha tatuaggi, bandane, orecchini. Non fa trasparire rabbia, emozione, sembra non sapere cosa fare delle braccia, sul traguardo», scrisse di lui Gianni Mura. Eppure Nibali ha saputo rappresentare a modo suo il dopo-Pantani, con un carattere diversissimo e con tutt’altro modo di correre.
Di Nibali si dice spesso che non sia mai stato il più forte in niente, ma che tuttavia abbia saputo essere abbastanza forte in tutto e soprattutto cocciutamente capace di cogliere gli attimi, azzardare le azioni, ribaltare i momenti e realizzare l’improbabile. Talvolta grazie alla capacità di emergere nelle più lunghe e più dure tappe delle terze ed ultime settimane dei grandi giri; altre volte grazie alle sue spettacolari discese.
In diciotto anni da ciclista professionista Nibali ha pedalato, in gara, per oltre 220mila chilometri e gareggiato per oltre mille giorni, con almeno una corsa in ognuno dei cinque continenti. Solo in Italia e solo in gara, ha percorso quasi 100mila chilometri, quasi la metà dei quali durante le undici edizioni del Giro d’Italia che ha sempre terminato: due volte in maglia rosa, altre quattro sul podio e una volta al quarto posto.
Già alla sua prima corsa da professionista — il Trofeo Laigueglia del 2005 — Nibali andò in fuga. La prima vittoria arrivò un anno dopo, nella seconda tappa della Settimana Internazionale Coppi e Bartali. A ventun’anni Nibali vinse in solitaria, sotto l’acqua di «una giornata da tregenda», e dopo aver staccato il campione olimpico Paolo Bettini.
Nel 2010 vinse la Vuelta, il suo primo grande giro. Nel 2013 il suo primo Giro d’Italia prendendosi la maglia rosa dopo la prima settimana e non togliendosela più.
Nel 2014 arrivò la vittoria al Tour de France, costruita a partire dalla quinta tappa durante la quale, sul pavé e ancora sotto l’acqua, Nibali dimostrò di sapersela cavare un gran bene anche in terreni e paesaggi da Parigi-Roubaix (corsa a cui non ha mai partecipato). Prima di lui, gli ultimi italiani a vincere il Tour erano stati Pantani e Felice Gimondi. Nei due anni precedenti e nei cinque successivi a quella vittoria di Nibali il Tour lo vinse sempre una sola squadra: la Sky, che ora è diventata la Ineos.
Il Giro del 2016 Nibali lo vinse nonostante sembrasse averlo perso. A solo tre tappe dalla fine era infatti quarto a oltre cinque minuti dalla maglia rosa. Dopo la 16ª tappa, la Gazzetta dello Sport aveva scritto: «Lo Squalo ha qualcosa che non va, non sta bene. Eppure quella di ieri doveva essere la prima giornata della riscossa». La riscossa arrivò giusto un paio di tappe più tardi quando, anche grazie al determinante contributo del gregario Michele Scarponi («Bisogna fargli una statua» disse Nibali), con due attacchi riaprì una corsa che sembrava chiusa.
Nel 2017 Nibali vinse il suo secondo Giro di Lombardia – da solo, dopo una delle sue discese – e l’anno dopo riuscì, attaccando in salita, guadagnando in discesa e resistendo in pianura, a vincere la Milano-Sanremo, la “classica monumento” anche nota come “classicissima”. Quel giorno, viste le sue caratteristiche, Nibali era tutto tranne che favorito, e quella vittoria, la sua ultima a quel livello di importanza, rimane una sorta di manifesto del tipo di corridore che è stato: sia per le sue qualità che per la capacità di provarci. «Si è inventato il numero della vita» disse Silvio Martinello in telecronaca.
«Quando, fra dieci o trent’anni, si parlerà delle caratteristiche di un campione, sarà d’obbligo ricordare la Sanremo di Nibali» scrisse Mura, secondo il quale quella di Nibali era «una vittoria meravigliosamente antica» e «un’impresa autentica».
L’ultima vittoria la ottenne nel 2021 al Giro di Sicilia, in modo non molto diverso da come vinse nel 2006 la sua prima corsa e da come ne ha poi vinte molte altre: con un attacco alla “tutto per tutto”, prima in salita, poi in discesa e infine in pianura.
Tra le tante vittorie, Nibali è ricordato anche per almeno tre cadute. Quella del 2018, in cui per colpa di un tifoso sull’Alpe d’Huez si fratturò una vertebra e si precluse così la possibilità di giocarsi un altro Tour de France. Quella del 2016, nella discesa finale della prova in linea delle Olimpiadi di Rio, durante la quale Nibali era nel terzetto di testa. E ancor prima quella dei Mondiali di Firenze del 2013, che terminò comunque quarto. Un’altra sconfitta che si ricorda quasi quanto le sue vittorie è quella alla Liegi-Bastogne-Liegi del 2012, che terminò al secondo posto.
Perfino a prescindere da quanto e cosa ha vinto, Nibali ha saputo segnare il ciclismo e rappresentare una sorta di anteprima di quella che ora è la spesso celebrata nuova generazione del ciclismo contemporaneo, quella di corridori arrembanti e poliedrici come Tadej Pogacar, Mathieu van der Poel, Wout van Aert e Remco Evenepoel.
Nibali ha corso in anni, e dopo anni, in cui era ormai la norma che certi corridori puntassero ai grandi giri (alcuni quasi solo a un grande giro: il Tour) e che certi altri si dedicassero alle corse di un giorno. Ora, grazie a una manciata di corridori fenomenali, certi attacchi e certi approcci già iniziano a sembrare un po’ meno eccezionali.
È stato inoltre uno dei pochi ad adottare certi approcci e realizzare certi attacchi quando il ciclismo sembrava andare in una diversa e forse più noiosa direzione, e a farlo con successo.
Lo ha fatto per necessità. Perché non essendo soltanto un corridore da corse a tappe doveva trovare modi per battere avversari dediti quasi solo alle corse a tappe; e perché per vincere una Milano-Sanremo davanti a due velocisti doveva tentare l’improbabile. Sebbene non sia mai stato un personaggio particolarmente mediatico ed espansivo, quando correva ha dovuto – e spesso anche voluto – dare spettacolo.
Pochi giorni fa, Nibali – che terminerà la sua carriera nello stesso anno dello spagnolo Alejandro Valverde e del belga Philippe Gilbert – ha detto, intervistato da , di ritenere di essere stato «forte in tante cose, super in niente» e che la cosa che più lo rende orgoglioso è «aver vinto un po’ di tutto, su tutti i terreni».
Da quando a maggio, durante il Giro d’Italia, ha annunciato il suo ritiro, non ha parlato di cosa farà dopo. È probabile che continuerà ad avere a che fare, in un altro ruolo, con il ciclismo professionistico su strada. Ma, più in generale, anche con le corse in bicicletta: «Qualche corsa la farò ancora. Magari con la gravel e la mountain-bike, per il gusto di farlo e divertirmi».
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