La sfida a distanza fra PD e M5S

In molti pensano che si contenderanno il secondo posto alle imminenti elezioni: intanto hanno chiuso la campagna elettorale in due piazze vicine, ma con uno spirito molto diverso

di Luca Misculin

(ANSA/GIUSEPPE LAMI)
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Fino a tre mesi fa il Partito Democratico e il Movimento 5 Stelle stavano faticosamente costruendo un’alleanza in vista delle elezioni politiche. Dopo la caduta del governo guidato da Mario Draghi i loro percorsi si sono separati, concretamente e simbolicamente. Venerdì pomeriggio hanno chiuso la propria campagna elettorale in vista delle elezioni del 25 settembre nella stessa città, Roma, alla stessa ora, le 18, ma a due chilometri di distanza. Anche l’aria che tirava nelle due piazze era molto diversa.

In questa campagna elettorale il Movimento 5 Stelle guidato da Giuseppe Conte si è buttato a sinistra e ha promosso estensioni delle sue misure più identitarie, come il reddito di cittadinanza e il superbonus edilizio, invertendo un calo dei consensi iniziato nel 2019, molto visibile dagli ultimi sondaggi disponibili prima del divieto di diffusione imposto dalla par condicio. Il PD ha sofferto invece di un calo di entusiasmo che i commentatori stanno ancora cercando di decifrare, ma che sembra arrivare da lontano. Secondo le chiacchiere e le impressioni che si fanno sia dentro il PD sia dentro il M5S, saranno proprio i due ex alleati a contendersi il secondo posto dietro Fratelli d’Italia.

Per il suo comizio finale il M5S aveva scelto Piazza Santi Apostoli, che contiene appena qualche centinaio di persone. È una scelta figlia della prima fase della campagna elettorale, quando in pochi pronosticavano una ripresa nei consensi. Il Partito Democratico invece aveva prenotato Piazza del Popolo, la stessa usata dalla coalizione di destra giovedì sera per il suo evento di chiusura. Una piazza di medie dimensioni, non esattamente piena giovedì sera – nonostante la presenza dei tre principali leader: Giorgia Meloni, Matteo Salvini e Silvio Berlusconi – e ancora più vuota venerdì.

In Piazza Santi Apostoli lo spazio dietro il piccolo palco era pieno di dirigenti del M5S. Appena prima delle 18 si sono sentiti i primi cori per Conte, e visti sorrisi larghi e pacche sulle spalle per tutti: soprattutto per i leader che a causa del limite interno dei due mandati non sono stati ricandidati, come Paola Taverna e Vito Crimi. Militanti e funzionari di partito si scambiavano febbrilmente sondaggi di dubbia provenienza – «mi dicono che in Calabria siamo al 35 per cento» – mentre altri, più prudenti, ammettevano che «per come era partita, la campagna è andata bene».

Negli stessi minuti a Piazza del Popolo iniziava una serie lunghissima di brevi interventi dei principali dirigenti del partito.

In teoria ciascuno aveva due minuti a disposizione per un breve discorso. Il presidente della Campania Vincenzo De Luca, uno dei più applauditi, ne ha usati almeno il triplo per un breve comizio nel suo consueto e minaccioso stile retorico. «Non abbiamo un segretario scoppiettante, ma ha grande competenza», gli è sfuggito a un certo punto parlando di Enrico Letta. Franceschini ha letto dal telefono una dichiarazione molto ambigua di Meloni sul 25 aprile, e ha chiuso sentenziando: «non passeranno». Il vicesegretario Peppe Provenzano è entrato urlando «solo due parole: no mafia!». Fra un intervento e l’altro uno dei due presentatori esortava i militanti a sventolare più spesso le bandiere di partito: «sono lì per quello».

Enrico Letta è apparso intorno alle 19.30 per un intervento appena più lungo dei due minuti consentiti. Ha attaccato la destra per la volontà di rinegoziare il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, promesso che il partito difenderà «la costituzione più bella del mondo» dalla riforma presidenzialista su cui Meloni insiste moltissimo, esortato il movimento ambientalista dei Fridays For Future, che oggi ha manifestato in diverse città italiane, a «protestare ancora più forte». Al di fuori della recinzione riservata ai militanti dotati di bandiere, gli applausi sono stati piuttosto tenui. Seminascosto da un capannello di persone, un ex segretario del partito chiacchierava incurante di Letta: una cosa impensabile, in un comizio più caldo e in un partito più coeso.

Durante il suo intervento Letta era circondato dai dirigenti che lo avevano preceduto sul palco. Era stata pensata verosimilmente come un’immagine di unità: da lontano però tutti quei ministri, capi di corrente e presidenti di regione davano l’impressione di incombere su Letta. Del resto «il congresso per la sua successione è già iniziato», spiega una fonte interna al partito. Anche il leader considerato il netto favorito nel caso di un congresso anticipato, il presidente della regione Emilia-Romagna Stefano Bonaccini, ha parlato sul palco di piazza del Popolo.

(Mauro Scrobogna/LaPresse)

Gli ultimi sondaggi disponibili davano il PD intorno al 20 per cento dei consensi, ormai distante da Fratelli d’Italia, a cui fino a qualche mese fa era sostanzialmente appaiato. Sono percentuali non troppo lontane dal risultato delle elezioni politiche del 2018, quando il PD prese poco meno del 19 per cento. L’allora segretario Matteo Renzi si dimise la sera stessa dello spoglio. Sono in molti, dentro e fuori dal partito, a temere che si possa ripetere uno scenario simile in termini di risultati e di valutazioni del segretario.

Molto più salda, invece, sembra la posizione di Giuseppe Conte. Accolto da cori e applausi a ciascuno dei suoi due interventi sul palco, in mezzo a una lunghissima e non particolarmente ispirata serie di interventi e alcuni bizzarri intermezzi di un corpo di ballo, ha chiamato e ottenuto più volte l’applauso del pubblico.

«Ci avevano dato per morti ma questa piazza mi sembra sintomo di buona salute: ancora una volta si sono sbagliati», ha esordito nel suo primo intervento, interrotto spesso dagli applausi. «Siamo ancora qui, più forti e determinati di prima», ha detto all’inizio del suo secondo e ultimo intervento.

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Conte ha poi ripetuto i principali punti della sua campagna elettorale, rivendicando sia i presunti successi ottenuti dal suo primo governo con la Lega – «esperienza difficile dal punto di vista politico, ma che ci ha consentito di realizzare gran parte del nostro programma» –, sia quelli del successivo governo sostenuto dal Partito Democratico. Non sono mancate critiche a Mario Draghi, il cui governo il M5S ha contribuito a fare cadere, e a Luigi Di Maio. Conte ha fatto pronunciare il suo nome alla piazza, da leader consumato, porgendo il microfono verso il pubblico. Conte ha poi offerto una ricostruzione piuttosto parziale della caduta del governo Draghi, sostenendo che fosse inevitabile perché gli altri partiti avevano ignorato per mesi le richieste del M5S.

Verso la fine Conte, molto su di giri, è passato alla parte propositiva del suo discorso. Ha annunciato una «rivoluzione fiscale» con «una versione più sofisticata del cashback», parlato di salario minimo, di «fine del precariato selvaggio», del gap di salari fra uomini e donne – «mai più!» – e di un maggiore impegno per «i nostri giovani che vanno all’estero e perdono la speranza». Conte ha anche auspicato che l’Italia e l’Europa facciano maggiori concessioni alla Russia perché interrompa la guerra in Ucraina. E sulla crisi energetica, causata dall’invasione russa: «ci pianteremo a Bruxelles per chiedere il tetto sul prezzo del gas ai nostri riottosi partner». Una distanza notevole dal «viva l’Europa» con cui Letta ha chiuso il suo intervento a due chilometri di distanza, che sembrano idealmente molti di più.